EUGENIO MIRONE | È la mattina del 21 giugno 1630: un uomo, coperto da un mantello nero e con il cappello calato sul viso, procede incerto strisciando di tanto in tanto le mani sui muri delle strade del quartiere di Porta Ticinese a Milano. La città è in preda alla devastante epidemia di peste che da mesi sta decimando la popolazione. Due popolane, Caterina Rosa e Ottavia Boni, osservano sospettose l’incedere di quella strana figura e, non appena allontanatosi, si precipitano in strada per controllare i segni lasciati sul muro. È subito allarme: le due donne vedono, o credono di vedere, delle macchie di colore giallo, prova incontrovertibile del fatto che chi è passato poc’anzi in quella via è senza ombra di dubbio un untore.
Questo è il prologo della tragica vicenda raccontata da Alessandro Manzoni all’interno della Storia della Colonna Infame, il racconto commentato di uno dei più celebri e scandalosi processi agli untori che si svolsero durante l’epidemia di peste dilagata a Milano nel 1630. L’opera è da considerarsi quasi come un romanzo complementare ai Promessi Sposi, tanto che venne pubblicata per la prima volta nel 1823 in appendice alla prima edizione del Fermo e Lucia. Sul palco dell’intimo spazio teatrale di Alta Luce Teatro, Luca Radaelli e Filippo Ughi donano voce e corpo alle parole del Manzoni, accompagnati dalle note della chitarra elettrica di Maurizio Aliffi. Nella cornice dei Navigli di una Milano uggiosa, la cittadinanza meneghina torna a confrontarsi con il suo passato attraverso una storia che, circa quattro secoli fa, la vide protagonista della disgrazia di due poveri innocenti.
L’uomo che quella sventurata mattina sta passeggiando per le vie di Porta Ticinese è Guglielmo Piazza, uno dei commissari di sanità incaricati in quei tempi di contagio di controllare la situazione igienica delle strade della città. In quei giorni la tensione a Milano è ai suoi massimi livelli, la popolazione oltre che dal “maledetto” morbo, è stremata dalla fame e costretta a vivere nel sospetto e nella paura. In una città dove “anche le finestre hanno gli occhi”, ogni minimo evento è potenzialmente un’occasione di disordine e agitazione. Il governo cittadino ne è a conoscenza e per questo motivo è alla continua ricerca di stratagemmi per sedare il furore popolare.
Il meccanismo del capro espiatorio è forse il metodo più antico, ma anche quello più collaudato ed efficace. Questo è lo sfortunato ruolo che riveste il Piazza nella storia. Arrestato dopo rapide e superficiali indagini, in un primo tempo l’uomo resiste, dichiarandosi estraneo ai fatti, salvo poi ritrattare la sua versione in seguito a lunghe e ripetute sessioni di tortura e alla promessa di impunità.
Così, salta fuori il nome di Giangiacomo Mora, barbiere che si sapeva preparasse un unguento contro la peste. Il Mora avrebbe infatti venduto “l’antidoto” – che in verità sortiva l’effetto opposto – al Piazza con la promessa di un retribuzione se quest’ultimo avesse cosparso le strade del circondario con l’unguento. Poco importa alla polizia che la storia appaia subito inventata e in totale contraddizione con la versione del Mora: anche il povero barbiere viene sottoposto a tortura finendo per confessare quanto i giudici volevano sentire.
Ma i due racconti non coincidono, il numero di attori nella vicenda si amplia a dismisura fino a comprendere anche esponenti di altri ceti sociali, come lo spagnolo Don Gaetano Padilla che però in virtù del suo status nobiliare sarà tra i pochi ad essere assolto. La sentenza è già decisa da principio, il processo è una pura formalità. I due sventurati vengono presto condannati a morte, dopo aver sofferto ingiustamente atroci supplizi.
In luogo della bottega del Mora, rasa al suolo per volere dei giudici, venne innalzata una colonna detta “infame”, a ricordo degli atti ignominiosi commessi dai due imputati. Manzoni non fece in tempo a vederla perché la colonna venne abbattuta nel 1778, ma la tragica vicenda al suo tempo era ancora sulla bocca di tutti.
La scena è costruita in maniera semplice: due leggii occupano il centro e la sinistra del palco, mentre sul lato destro è seduto Maurizio Aliffi insieme alla sua chitarra. Sullo sfondo un grosso baule giace incastonato in mezzo a due delle tre piccole impalcature a forma di croce che completano lo spazio scenico. Ricordano le tre croci sul Monte Calvario dove Gesù venne crocifisso insieme ai due ladroni (in fondo, anche in questo caso si tratta di innocenti su cui vengono addossate le colpe di una comunità).
Il lavoro di montaggio sul testo operato da Radaelli è molto ben riuscito, le vicende sono condensate per punti salienti che consentono alla narrazione di svolgersi in maniera chiara, nonostante la numerosa mole di nomi e vicende. Durante la performance risuonano le voci dei personaggi: Radaelli è l’irrazionale che trova prepotentemente spazio nelle figure dei giudici e del popolo, in Ughi si condensa lo strazio dei due sventurati imputati (a quest’ultimo va una menzione di lode particolare in quanto subentrato in extremis a Valerio Bongiorno). Risuona anche il marchio di fabbrica dello stile narrativo dell’autore, l’ironia, della quale Manzoni si serve per commentare le atrocità del tempo.
Vengono inoltre inserite alcune trovate sceniche funzionali per alternare il ritmo con la lettura interpretata dell’opera. Proprio una di queste è posta a conclusione dello spettacolo: una corda è stata tesa tra le tre strutture a fondo palco sulla quale sono stati appesi dei pupazzi, uno per ogni persona citata nel processo. Al momento della sentenza finale, tuttavia, l’ultimo oggetto che viene issato sull’impalcatura centrale non è un fantoccio, bensì una chitarra alla quale vengono tagliate le corde (forse sta a simboleggiare che chi ha cantato finora facendo nomi e inventando fatti ora non canta più?).
La chitarra di Aliffi, invece, ha le corde perfettamente funzionanti e sul finale, oltre che in numerosi altri momenti durante lo spettacolo, commenta lo svolgersi della vicenda. Il canto dello strumento, molto graffiante nelle prime battute della pièce e per questo motivo a tratti disturbante, riacquista vigore specialmente negli intermezzi melodici che spesso accompagnano i momenti ad alta drammaticità della narrazione, resi inoltre più coinvolgenti anche da un efficace disegno luci costruito da Graziano Venturuzzo.
Da un lato, dunque, la letteratura, con il lieto fine della storia d’amore tra Renzo e Lucia, dall’altro l’irrompere della Storia, con la tragica condanna a morte di due normali cittadini. Numerosi sono i punti di contatto tra entrambe le opere, incardinate nell’indagine sull’animo umano che Manzoni ha sempre tentato di compiere attraversando alcune tematiche trasversali alle sue opere letterarie come i temi della giustizia, della tortura, dell’ignoranza dei tempi e della fede.
La Storia della Colonna Infame, infatti, è la storia di un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, proprio come quello inflitto da Don Rodrigo ai poveri Renzo e Lucia. E se è vero che Manzoni spietatamente giudica il Seicento lombardo come momento e luogo della corruzione e del degrado cui può giungere la vita privata e pubblica dell’uomo, tuttavia, è chiaro che la sua condanna debba essere estesa oltre la circoscritta esperienza dei fatti narrati. Il tipo di ignoranza che condannò le vittime della colonna infame non dipese dalle “scienze” dei tempi ma dalla cultura civile ed etica degli individui. “Non era l’uomo del secento che ragionava così alla rovescia: era l’uomo della passione”.
LA COLONNA INFAME
150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni
da Alessandro Manzoni
con Filippo Ughi e Luca Radaelli
adattamento Luca Radaelli
chitarra Maurizio Aliffi
luci Graziano Venturuzzo
produzione Teatro Invito
AltaLuce Teatro, Milano | 1 dicembre 2023