ELENA ZETA GRIMALDI | Dopo essere stata tra i protagonisti del recente convegno organizzato da Catarsi-Teatri delle diversità (di cui abbiamo parlato qui e qui), la compagnia Nèon Teatro, sodalizio artistico tra la regista Monica Felloni e il poeta Piero Ristagno, debutta a Catania con lo spettacolo Libri.
Ispirato all’omonima pubblicazione di Roberto Roversi – di cui fonde i testi con altri scritti di Victor Sklovskij, Wislawa Szymborska e Danilo Ferrari –, assume, rielabora e restituisce con il suo linguaggio unico la considerazione dei libri come enti che sono un’apertura fisica e metafisica e che, esattamente come i corpi, interagiscono tra loro. E allora, di contro, anche i corpi possono essere esattamente come libri: entità fisiche che racchiudono un mondo di pensieri, di desideri, di versi unici, con cui ognuno si esprime.
Contornati da una ribaltina di libri, invece che di lampadine, i corpi in scena sono più di venti: venti linguaggi diversi che si confrontano, si contaminano, camminano in una scatola sfumata di colori o volano tra i dettagli delle opere del pittore Massimiliano Frumenti Savasta, filmati e proiettati a creare ambienti immaginifici e materici. In accordo con una poetica che vuole neutralizzare la diversità senza eliminarla, ma, anzi, farne linguaggio scenico, giocando sul disvelamento reciproco.
Quando, ad esempio, Danilo Ferrari (tra i componenti di lunga data della compagnia, affetto da tetraparesi spastico-distonica) è in scena con un altro attore e, improvvisamente, dal piccolo segno di voltarsi contemporaneamente verso il pubblico abbiamo conferma della sua immensa presenza; o quando, dopo un primo brano cantato confusa tra gli altri performer, quasi invisibile, la soprano Alfina Fresta irrompe in proscenio con la sua incredibile voce, rendendo palese che non si trattava di una registrazione… in quei momenti, attraverso il disvelamento scenico dei performer, anche il pubblico si disvela a sé stesso: ci rendiamo conto di quanto miseri siano i nostri pre-concetti. Gli spettacoli di Nèon ci fanno guardare dentro, profondamente, ma senza dolore, come il Teatro deve fare.
Qualche giorno dopo lo spettacolo abbiamo parlato con Felloni. Una lunga chiacchierata da cui è venuto fuori, anche qui, qualcosa di ibrido: una intervista-recensione senza punti interrogativi, ricca di scambi e spunti di riflessione, artistici e umani.
Libri è tratto da una raccolta di pensieri intorno al libro, ai libri come corpi che interagiscono. Spesso ci dimentichiamo che il libro è anche un oggetto, un’entità fisica che ha, letteralmente, un corpo, e non solo un insieme di concetti.
Ho lavorato con loro su questo: durante le improvvisazioni gli dicevo che erano dei libri. Che copertina sei? Di un libro antico, di un libro piccolissimo, di un libro con la copertina rigida… E poi, sei quello che c’è dentro, a un certo punto ti sveli… C’è questo in scena. E anche: che rapporto abbiamo con il libro? Lo apro e lo posso aprire ovunque, cominciare da dove voglio a leggerlo, dall’inizio o dalla fine… Di che cosa è fatto? E chi l’ha fatto? E quando l’autore entra dentro di te, nella tua vita, per cui tu aspetti la sera e dici: “Voglio andare in quella storia, ancora”? Quando ti crei dei rituali, anche: leggo in un certo modo, quel libro lo voglio leggere là, così, in quello spazio… o sottolinearlo, fare le pieghette, tutte queste cose vitali… E da lì la scrittura: quanto è bello riconoscere uno scritto, o un biglietto scritto per te da qualcuno? È un po’ anche tutto questo: approfondire, svelare, andare a riflettere, a pensare…
Anche alla base di Libri c’è la commistione di linguaggi, compreso quello delle arti visive.
Rapporti con pittori ne abbiamo avuti diversi, come Piero Guccione, ma anche con fotografi come Mustafa Sabbagh e Jessica Hauf, o con lo scultore Felice Tagliaferri. A me è sempre piaciuto cercare questi rapporti dove il segno, il colore, la scrittura, l’immagine è presente, ed è un corpo unico in scena. Per esempio, nel caso di Libri c’era Massimiliano Frumenti Savasta, un pittore che è stato dieci giorni al laboratorio di Corpi Insoliti, a lavorare con noi in una generosità e in un riconoscersi che fra artisti accade spesso. Tutti gli artisti con cui abbiamo collaborato – anche Renzo Francabandera [in Anima mundi, di cui abbiamo parlato qui n.d.r] – hanno lavorato con noi, hanno visto le cose che facciamo: non voglio usare il tuo lavoro, è dentro uno scambio che poi serve a noi e serve a te… ad avere dei pensieri che poi ti portano altri linguaggi, altre riflessioni, altre aperture, altre ricchezze.
Una convivenza di linguaggi, anche improbabili a volte, si vede prepotentemente negli spettacoli, nei segni che portare in scena.
Sono 35 anni che lavoriamo con varie disabilità, sempre con gruppi misti. Abbiamo cominciato lavorando con i sordi: eravamo a Catania da poco, in piazza San Domenico, dove loro avevano la sede. Io passando, con Piero, ho detto: “Ma che è tutto questo frullare di mani in aria?”. Siamo scesi dalla macchina, siamo andati e gli ho detto: “Noi vorremmo fare un teatro con voi, è possibile?”.
E ora, quando faccio spettacolo, anche se magari non c’è un sordo, rimane il linguaggio della LIS, il linguaggio dei segni: ti porti dentro tutto, tutte le varie lingue che hai conosciuto di queste persone, che hanno arricchito, che hanno dato spazio ai movimenti, alle storie. È patrimonio comune, perché il linguaggio poetico è così. In questo contaminarsi, in questo accogliere il linguaggio verbale e il linguaggio non verbale, ti posso raccontare di quanto io, come attrice, sono cambiata nel dire un testo in tutti questi anni: entrano delle sonorità, dei ritmi, delle pause, che sono date da quella persona o da quell’altra, che poi faccio diventare mie. C’è uno scambio, e bisogna darsi il tempo di coglierselo e di poterselo godere.
Io non ho mai lavorato su una mancanza – tu sei così, però non sai fare questo, non puoi fare questo, non puoi fare questo –, è proprio il contrario. Lavorare con gruppi così, misti, dove ci sono ragazze adolescenti o persone di sessant’anni, persone con disabilità o no, ti porta a una possibilità di vivere il tempo-palcoscenico, lo spazio-palcoscenico in una maniera universale, in una maniera unica, dove il palcoscenico non si limita a quelle assi che calpesti, ma è tutto: sta nell’aria, sta nello spazio, in una carrozzina tra la testa e il poggiapiedi…
Sono meccanismi che abbiamo spesso, per esempio, con i bambini: questa persona ha un vuoto, perché non può fare questa determinata cosa, quindi io devo insegnargli a fare, devo riempire quel vuoto. Invece, si dovrebbe capire quali sono i pieni che ha questa persona.
E anche come faccio ad avere a che fare con questi pieni. Che approccio ho col tuo corpo? Per questo, per noi è importante lavorare nelle scuole, in gruppi misti, perché è tutta un’educazione a sé e all’altro… un’esplorazione della vita dell’altro, del linguaggio. Porti questi ragazzi in un paese nuovo, e scopri come mangiano, come dormono, come si relazionano con te, come parlano… cosa arriva meglio, cosa arriva peggio. È un andare a scoprire: la curiosità è alla base. È bellissimo che accada e che sia il teatro a farlo accadere. Si tratta, come diceva Roversi, di cuore, di mano, di pazienza, di costruzioni, di prove… Bisogna creare un equilibrio che è dato da tanti segni, da questi corpi, da come ragionano, da come appaiono, da come sembrano. Non c’è un distacco tra il corpo e la parola: quanto questo corpo può supportare la parola, può agire come corpo sonoro, come movimento, quanto la parola sta bene in te in quel momento… C’è una costruzione del ritmo teatrale che loro hanno, e sono fantastici in questo. E quando poi hai dei ritorni, delle persone che vengono a rivedere lo spettacolo, allora io sento che non ho sprecato il mio lavoro. Sento che non ho bisogno di spiegare cosa vuol dire lo spettacolo.
Comunque – e non è così scontato come dovrebbe – dovete fare uno spettacolo, assumervi insieme questo impegno. E, da parte tua, devi riuscire a capire come i pieni che trovi tra gli attori diventano un segno scenico, poetico.
Certo, un conto è quando fai terapia, teatro terapia, danza terapia… ma io sto parlando di altro, di arte. Se vieni a vedere uno spettacolo teatrale io mi assumo la responsabilità di quello che vai a vedere e a incontrare, sennò rinuncio all’aspetto più elevato che è il teatro, al senso del teatro, che ti chiama a partecipare, che è uno specchio. Perché ti “obbliga” alla relazione, che è il desiderio più umano che noi abbiamo, che è il desiderio dell’altro; dove questo desiderio dell’altro è dichiarato, è necessità.
Veramente: non sono eroi, non serve creare altre distanze. Sono superbamente umani e ribadiscono questa necessità di incontri: io voglio incontrare i tuoi occhi a teatro, voglio incontrare te, voglio sentire tu che cosa mi rimandi, come sei, se io faccio una cosa come ti arriva… con un desiderio di sé, di potersi mostrare che ha ogni attore, sennò non sarebbe lì. Ma quando questo diventa patrimonio di tutti? Il famoso incontro con il pubblico è questo.
LIBRI
regia di Monica Felloni
testi di Roberto Roversi, Victor Sklovskij, Wislawa Szymborska, Danilo Ferrari
visioni pittoriche di Massimiliano Frumenti Savasta
con Beatrice Asta, Anna Cutore, Emanuele Dei Pieri, Gaetano D’imprima, Danilo Ferrari, Alfina Fresta, Massimiliano Frumenti, Vittoria Genovese, Gabriele Guglielmino, Irene Ingallina, Angela La Rocca, Stefania Licciardello, Rosi Ligreggi, Angela Longo, Luigi Magnano San Lio, Enzo Malerba, Giulina Mustica, Aurelio Pappalardo, Manuela Partanni, Matteo Platania, Carmelo Privitera, Emily Reitano, Dorotea Samperi, Francesca Sciatà,
Teatro Metropolitan, Catania | 1° dicembre 2023