RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | Quando le mappe delle città erano di carta si cercavano le vie incrociando le lettere dell’ascissa con i numeri dell’ordinata, il quadrante di via Spalato dove nel 2011 è nata l’Associazione culturale ideata da Valentina Kastlunger e Valentina Picariello si trova nella riga K di quelle cartine ormai desuete, ecco perché Zona K.
Zona K nasce come un’Associazione culturale che cura uno spazio dedicato allo scambio tra discipline artistiche, organizzando rassegne teatrali per adulti e bambini e appuntamenti unici in un panorama già molto ricco. In anni di attività questo collettivo tutto al femminile, ha saputo delineare la propria fisionomia e ritagliarsi un perimetro ben definito diventando un vero punto di riferimento per la città di Milano, una città dove non è facile imporsi, senza mezzi faraonici, come perno culturale imprescindibile, specialmente in ambito teatrale; il gruppo Zona K ci è riuscito grazie a un’arguta lungimiranza, a una costante e mai tradita attenzione per la qualità e a una speciale apertura verso artisti e gruppi stranieri.
Zona K ha permesso ai suoi spettatori di invadere piazze, strade e fermate della metropolitana, li ha fatti camminare per sentieri periferici ma li ha anche fatti guardare il mondo dall’alto. Con loro hanno visto l’alba e i tramonti appena fuori città e ora (unica data 17 dicembre presso La Pelota Jai Alai, via Palermo 10) portano la Mobile Akademie Berlin e il loro Mercato della conoscenza e non conoscenza, declinato nella versione Milano e l’imprevedibile complessità.
Per i festeggiamenti in corso nell’anno 2023 abbiamo parlato di questo evento e della storia di Zona K con le fondatrici Valentina Kastlunger e Valentina Picariello.
Sono passati 10 anni da quando vi siete tuffate in questa che per molti versi sembrava una pazzia. Dieci anni dopo invece ritorna come una scommessa vinta. Secondo voi quali sono stati gli ingredienti che hanno permesso di raggiungere questo risultato?
In realtà noi non abbiamo mai pensato che fosse una follia e forse è stata questa consapevolezza – o incoscienza – a farci arrivare fin qui. Siamo partite che non eravamo più due ragazzine, quindi con esperienze e risorse materiali e simboliche da investire. Sapevamo bene che in una città come Milano una realtà nuova avrebbe dovuto assumere un’identità precisa che le permettesse di agire in una delle nicchie accora scoperte del panorama culturale cittadino. Per fortuna le nostre competenze e passioni – attenzione all’internazionale, ai linguaggi del contemporaneo e a tematiche socio-politiche – coincidevano con i vuoti da colmare. Noi socie fondatrici venivamo da due mondi diversi, il teatro e la ricerca storica, e siamo riuscite a fare sintesi tra posizioni spesso polarizzate senza mai rinunciare a un confronto continuo. A questo si aggiunge che strada facendo abbiamo trovato compagne di viaggio capaci e appassionate, costruendo un team che è rimasto quasi intatto negli anni.
Parlare di pubblico per noi è sempre complesso. Le scelte fatte – prima tra tutte quelle di non dare vita a un festival – sono state in controtendenza rispetto all’acquisizione di un pubblico fedele. D’altra parte il ragionamento sul pubblico è ed è sempre stato centrale, tanto da determinare nel corso di 10 anni, cambiamenti e aggiustamenti, laddove necessari. Oggi possiamo dire di avere un pubblico di cittadini che ci segue e sperimenta, un pubblico di operatori e un pubblico estemporaneo che si avvicina solo su alcuni progetti. L’età media del nostro pubblico più fedele è vicina alla nostra. Facciamo tuttavia un costante e mirato lavoro sulle generazioni più giovani, anche grazie alla partnership con Prospettive Teatrali che prepara i giovani delle scuole superiori alla visione dei nostri spettacoli.
Ragionare fuori formato fa parte del nostro carattere. Era un progetto cui pensavamo da tempo e i 10 anni sono stati l’occasione giusta per realizzarlo. Rappresenta la sintesi di una visione: una performance che si interroga sul presente, che dà voce a 85 esperti/e, che fa partecipare gli spettatori, che non si svolge in teatro.
Non ci sono attori veri e propri, bensì un team di perfomer a servizio dei racconti degli esperti. Il teatro tuttavia c’è eccome, nella precisa drammaturgia dei tempi, degli spazi, dei movimenti. Un caos della conoscenza dove tutto sembra essere guidato, instradato, burocratizzato. Un’imprevedibile complessità urbana – questo il richiamo al tema che abbiamo scelto – che pare governare ogni cosa ma dove trova spazio l’azione di ciascuno.
Il “Mercato della conoscenza e della non conoscenza” è un progetto della regista tedesca Hannah Hurtzig che viene presentato per la prima volta in Italia e a Milano. Noi abbiamo acquistato la licenza e – in un dialogo continuo con lei – abbiamo costruito la versione milanese. Abbiamo scelto di seguire noi la curatela dei contenuti con la volontà di raccontare la nostra visione, di dare una linea alla narrazione.
Le partnership sono nate nel corso del tempo in modo naturale. Eravamo e siamo convinte che una realtà come la nostra possa crescere ed esistere anche grazie alla collaborazione e al confronto con altri soggetti, per questo ci siamo chiamate “Zona” e non “Spazio” K (anche se molti continuano a confondere i due nomi), perché vogliamo confini permeabili e frastagliati. In questo senso condividiamo progetti, idee e visioni con altre realtà della scena artistica, culturale e sociopolitica milanese, italiana e internazionale; non possiamo nominarle tutte in questa sede, l’elenco sarebbe troppo lungo. Citiamo solo le ultime reti europee attivate, entrambe grazie al bando Creative Europe: In-situ con il progetto (Un)common Spaces di cooperazione tra 16 realtà europee specializzare nel lavoro teatrale nello spazio pubblico e Performing Landscape, il progetto di performance e paesaggio capeggiato da Rimini Apparat, con Tangente St. Pölten 2024 – Festival für Gegenwartskultur, Culturgest + Rota Clandestina/Municipio de Setúbal, Bunker, Ljubljana/Mladi Levi festival, Temporada Alta, Théâtre Vidy-Lausanne e ZONA K/Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa.
Se per resilienza intendiamo la capacità di assorbire urti senza rompersi, forse ci rientriamo anche noi. È però vero che ci piace rilanciare e finora abbiamo trovato il modo per farlo. Resistere per esistere non è sufficiente. Non è presunzione ma solo considerazione di quale tipo di lavoro si vuole fare e con quali motivazioni.
Essere indipendenti e fuori dal sistema è stato per anni una forza e un cavallo di battaglia. Oggi non è più così, nel sistema [marginalmente] ci siamo anche noi e abbiamo raggiunto un’età anagrafica che apre ragionamenti diversi. Inoltre, il sistema intorno a noi cambia sempre più in fretta. La vera forza è non smettere di interrogarsi, cercare di anticipare i tempi e non infilarsi troppo in filoni – di pensiero, di azione, di ricerca – già segnati. Tutto questo ha ovviamente un costo ma rappresenta anche quella sfida che ci interessa percorrere.
Ultima domanda: dieci anni fa volevate una scappatoia (culturale). Ma precisamente per scappare da cosa? Ce l’avete fatta o la fuga continua?
Eravamo piccole, quasi giovani e agili. Volevamo uno slogan che fosse piccolo, quasi giovane e agile a sua volta. Che esprimesse un modo diverso di fare cultura: tra le disciplina, tra-sversale, tra le definizioni già esistenti. Ora siamo meno piccole, meno giovani, meno agili. Le definizioni sono diventate una delle nostre ossessioni.
La fuga continua se è intesa come movimento, come costante interrogarsi e come volontà di dribblare i sopracitati filoni precostituiti.