ILENA AMBROSIO | Cosa avrebbe pensato Beckett dei bassi napoletani? Avrebbe forse sentito nelle voci che e affollano le strade, nel caos di auto e motorini, nello svolgersi di vite (apparentemente) frenetiche l’eco della drammatica stasi dei suoi personaggi, dell’immobilità e della velata malinconia? Di certo l’ha sentita, questa eco, il collettivo di Putéca Celidonia che ha realizzato l’atto unico Felicissima Jurnata – una produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia, in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022, con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania – a partire proprio dalle suggestioni di Giorni felici.
Tenendo ben a mente la (non) vicenda di Winnie e Willie e gli interrogativi che il testo beckettiano è capace di sollevare, a dispetto della sua involuzione drammaturgica, il collettivo ha girovagato per i vicoli del Rione Sanità di Napoli, registrando le storie e le voci di chi ne abita le case, quei luoghi che stanno a metà tra il dentro e il fuori, tra il pubblico e il privato; a metà tra l’esistenza e la sopravvivenza. Ne è scaturito un lavoro sentitamente corale, nel quale ciascuna componente scenica racconta l’urgenza di ogni singolo artista di materializzare sul palco gli esiti di una riflessione, assieme individuale e collettiva, attorno a una delle realtà che meglio incarnano le affascinanti e drammatiche contraddizioni di Napoli.

Per questo motivo abbiamo interrogato tutti gli artisti che hanno collaborato al progetto così da riportare – almeno tentare di farlo – il senso artistico, sociale e umano di Felicissima Jurnata.

Emanuele, la drammaturgia di questo lavoro sembra coniugare da un lato la concretezza delle voci dei bassi della Sanità, dall’altro l’astrazione distopica tipica del teatro di Beckett. Come ti sei mosso tra questi due elementi per cercare un amalgama?

Emanuele D’Errico (drammaturgia e regia): Sono felice che arrivi chiaramente questo tentativo perché era esattamente l’obiettivo drammaturgico dell’operazione. La suggestione da cui sono partito in effetti è stata proprio questa. Ho visto in quel recitare, in quell’autoconvincimento di Winny che, anche davanti alla disperazione, all’impossibilità, alla prigionia, persiste a dichiarare che va tutto bene, che è una giornata felice, l’incontro con il popolo napoletano. Sono tanti anni che lavoro nel Rione Sanità e questo filtro tra il reale e l’apparire mi ha sempre colpito particolarmente. Quel senso profondo di solitudine e di abbandono che ritrovo in Giorni Felici di Beckett a me è parso di vederlo anche nei vicoli di quel quartiere, anche nei bassi. C’è una signora in particolare che mi ha rapito e su cui ci siamo molto ispirati. Lei vive “imprigionata” in un basso di massimo 40 metri quadri (complessivi di letto, cucina, camera ecc…). Ci passo tutti i giorni davanti e lei è costantemente affacciata alla porta/finestra come a dover prendere aria; sembra incastrata in quella porta. Seduta sulla sua sedia è lì, in attesa del niente a contemplare il muro che si trova a un metro da lei e che è l’unico panorama che può osservare. Quando passi e le chiedi come va, lei ti sorride e dice: “tutto bene, grazie”. Io in questa situazione, così come in tante altre che abbiamo indagato nella nostra ricerca, ho trovato una una condizione di vita che in questi luoghi ormai si è normalizzata, ma che ha del surreale.
Il gioco teatrale poi è stato quello di provare a far comunicare questi due mondi, il surreale di questa condizione reale con il surreale di quella condizione che Beckett ci racconta. Il risultato mi è sembrato più immediato di quello che potessi immaginare. Ho avuto l’impressione, durante il lavoro, che Beckett c’entrasse più di quello che potessi pensare, con quel mondo lì. Sulla drammaturgia mi permetto solo di aggiungere il ringraziamento a Clara Bocchino, che è anche aiuto regia dello spettacolo: ha dato un bel contributo nella raccolta delle interviste e nel lavoro sul napoletano.

Allo stesso modo la performance degli attori richiede di bilanciare lo straniamento e la più concreta verità di ciò che si sta raccontando. Quale tipo di lavoro è stato fatto da questo punto di vista?

Emanuele D’Errico: Non smetterò mai di ringraziare gli attori, perché si sono davvero dedicati con la massima disponibilità al lavoro. Non era semplice, appunto. Per quanto riguarda Dario Rea, che è un fondatore della compagnia, il suo personaggio lo abbiamo costruito insieme passo dopo passo. Il rischio di diventare macchiettistico e parossistico era dietro l’angolo. Un personaggio che non parla ma che emette solo suoni, che si esprime e respira attraverso l’acqua, che vive e si muove in uno spazio minuscolo e angusto (che per Dario che è un uomo di due metri era una sfida ancora più ardua), era complicato da incarnare. Abbiamo cercato anche qui di ispirarci al mondo beckettiano ma allo stesso tempo di prendere spunto dalle persone incontrate. In particolare c’è stato Pasqualotto che vive nel vicolo dove lavoriamo. Lo abbiamo studiato per bene e a lungo e un po’ alla volta ce lo siamo portati nel lavoro. È stato questo il tentativo di unire un linguaggio quasi onirico a una forte concretezza e a un disagio reale e non solo rappresentativo.
E qui arrivo ad Antonella. L’incontro con lei è stato straordinario. Mi ha concesso di sperimentare, di cambiare, di scoprire un passo alla volta la vera natura del personaggio di Lina. A un certo punto abbiamo avuto chiaro che non bisognava imitare una generica signora popolare. Anche con lei ci siamo ispirati al mondo del Rione Sanità ma contemporaneamente abbiamo cercato una musica nuova lavorando tanto sul testo, sulla scomposizione delle curve sonore convenzionali per cercare qualcosa che ci sorprendesse e che ci cullasse nella musicalità e nel senso. Poi siamo arrivati al corpo, alla paralisi fisica contrastata da quel flusso senza freni delle parole. Antonella mi ha concesso di entrare nel personale e ha messo tutta se stessa al servizio dello spettacolo. Dirigere Antonella mi ha fatto crescere moltissimo e la sua candidatura Ubu è stata una gioia di cui non si può spiegare.

Voi interpreti cosa sentite di incarnare sulla scena?

Antonella Morea: Lina è un turbine di emozioni, di sentimenti di voglia di non smettere di vivere: seppure la vita la costringa ad un immobilismo, lei strenuamente si aggrappa  a tutto pur di  esistere. Nonostante tutto grida e si commuove e si diverte, perché questa vita anche così va vissuta. Per me è una gran bella prova di attrice, scava dentro il mio vissuto, come in quello di molti.

Dario Rea: Lavorare a Felicissima Jurnata è stata per me un’esperienza incredibile. Il lavoro è iniziato ormai anni fa, per cui alla fine il tutto ha preso una densità specifica enorme. Siamo partiti da un lavoro sulla vecchiaia, cercando di capire come potesse muoversi una persona anziana, dal respiro alle faccende domestiche, cercando di analizzare i particolari, essendo sempre personali nel rapporto con la scena. Uno dei nostri modelli di riferimento è stata una delle persone che abbiamo intervistato, Pasqualotto. Durante un’intervista infatti ci illuminò raccontandoci della sua giovinezza da sub, del suo rapporto con l’acqua cosi profondo. Così il lavoro attoriale ha incontrato quello della verità, del reale e ho cercato di prendere questa materiale umano così fragile per dargli una forma.
È stato un lavoro minuzioso tra la delicatezza dell’acqua, la fragilità di un corpo anziano, la densità borbottante dei napoletani e il tragico della malattia e della paura. Credo di incarnare tutto ciò, o almeno ci provo. Una volta una spettatrice dopo una replica mi ha detto che secondo lei Lello incarna, nella sua fragilità, tutte le paure del mondo. Trovo che sia un’immagine molto bella, mi piace pensarla in questo modo.

Antonella Morea, hai ricevuto la candidatuira al premio Ubu per la tua performance. Al di là della straordinaria maestria attoriale, quale credi sia il valore riconosciuto a questo tuo lavoro?

La nomination al Premio Ubu è stata come un cazzotto nello stomaco, di felicità naturalmente. La candidatura è arrivata in un momento in cui il teatro stava un po’ abbandonando la mia vita (non io  lui, ma lui me) e quindi del tutto inaspettata. È il coronamento di quasi 50 anni di teatro svolto onestamente e con le sole mie forze, di cui vado molto fiera.

Musica e suono avvolgono letteralmente lo spettatore. Quali suggestioni hanno influenzato la composizione e quale tipo di effetto acustico globale si voleva raggiungere?

Hubert Westkemper (suono): Mi sono occupato essenzialmente della diffusione spaziale dei suoni, della musica e anche delle voci dal vivo.  C’è in accordo con il regista una grande attenzione alla corretta provenienza di quello che sentiamo.
Comincia con i suoni che avvolgono completamente il pubblico mentre entra in sala. Ci troviamo in mezzo al Rione Sanità, con voci, clacson, aerei e arrotini che arrivano da tutte le parti e motorini che girano intorno a noi. Ma quando comincia la vera azione scenica, tutto si focalizza sulla casa. Siamo come risucchiati dentro l’abitazione e i suoni della strada li sentiamo come dall’interno.
La presenza del marito Lello è resa viva attraverso suoni e i suoi versi. Sono in parte esaltati, ma li sentiamo nel suo spazio in basso e anche la  voce della protagonista Lina, anche se amplificata, proviene esattamente dalla sua posizione dominante in alto. Ma quando alla fine lei rimane sola, allora la suo voce si espande e insieme alla musica risuona in uno spazio mentale che ingloba tutto il pubblico.

Tommaso Grieco (musiche originali): Dal punto di vista sonoro abbiamo lavorato all’inclusione dello spettatore all’interno di un mondo ricchissimo di suoni. Il Rione Sanità è acusticamente violento, maleducato. Ha suoni riconoscibili: motorini, voci, arrotino, bambini che giocano a pallone tra le macchine, clacson, venditori ambulanti. Tutto questo è un mondo, e come tale lo abbiamo voluto trasporre all’interno dello spettacolo, far vivere per quell’ora Via dei Vergini, la strada principale del Rione Sanità. Per farlo ci siamo armati di registratore e microfono e abbiamo registrato personalmente tutti i suoni con l’idea che poi sarebbe stato inserito tutto quel materiale in una installazione sonora che avrebbe accompagnato gli attori e la scena.
Le musiche sono nate dagli spunti dei suoni e dalle interviste, volevamo che fossero una carezza agrodolce. Per l’alba ad esempio (la musica di quando Lello si sveglia) è stata composta proprio tra le 5 e le 6 del mattino. Che suono fa la luce dell’alba? Ma soprattutto che musica è l’alba del Rione Sanità? Quello che è uscito è un drone lento nell’evolversi accompagnato da steccati di violoncelli e bassi importanti, come a ricordare che dopo il silenzio della notte tutto ribolle di nuovo come il magma di un vulcano.
Il tema principale lo abbiamo invece visualizzato come un uomo solo che al centro di Via dei Vergini suona il pianoforte incurante del caos che ha intorno. Una sorta di resistenza a tutto: non si arrende, suona continuamente, imperterrito tra il caos delle macchine e della strada. Abbiamo inoltre lavorato sulla rielaborazione delle musiche classiche della tradizione napoletana, come Reginella, Carmela e Malafemmina. Abbiamo estratto le armonie e le abbiamo riarrangiate. Le persone della Sanità si sono prestate come attori consumati, perché come si dice anche nello spettacolo «il quartiere Sanità è quello che è… un teatro e tutti attori».

Rosita, anche per te una candidatura Ubu. Raccontaci la storia di questa splendida scenografia.

Rosita Vallefuoco: La scenografia che oggi va in scena non è che l’ultimo di tanti tentativi. Questa scena, come lo spettacolo è il risultato di un lungo lavoro, anni di prove e bozzetti. La verità però è che la scena finale l’ho disegnata in quattro giorni. Dopo tanto studio, prove, messe in discussione, tempo, amori e sconfitte, mi sono chiusa nello studio e la mia mente ha fatto una sintesi del tutto.

Cos’è, profondamente, per voi Felicissima jurnata?

Emanuele D’Errico: Felicissima jurnata per me è una carezza dolorosa ma necessaria come quella che vorrei poter dare a mio padre ogni giorno e che lui da a me senza saperlo.

Antonella Morea: La mia giovinezza teatrale.

Dario Rea: Felicissima jurnata per me è l’unione di tutto ciò che per me significa fare teatro: un processo di ricerca lungo, che parte da un lavoro radicato su un territorio fragile, una squadra affiatata che si aiuta e che lavora nel continuo scambio tra tutti i reparti, uno stile performativo e attoriale che unisce il contemporaneo e il teatro più tradizionale, un confronto tra generazioni diverse, un respiro comune.

Clara Bocchino: È l’attraversamento della vita, uguale per tutti anche se tutti non siamo uguali e fortunatamente nessuna vita si ripete. Questo potere del “riconoscimento” che ha Felicissima sia per i grandi e che per i piccoli, per donne e uomini, per stranieri e italiani, è per me il valore profondo di questo spettacolo, che è un progetto oltre che uno spettacolo. Evoca, come per me dovrebbe fare il teatro, un senso delle cose concrete e oniriche personalissimo ma collettivo, è accogliente e tagliente insieme, lieve e cupo. Per me è un viaggio che di volta in volta cambia, proprio come cambiano le nostre piccole e grandi felicità quotidiane, ci ricorda che viviamo tutti sulla stessa terra. Da aiuto regia e parte fondante della compagnia, Felicissima è diventato un pezzo del mio cuore, mi ha accompagnato nei momenti brutti e nei momenti belli, senza farmi dimenticare appunto che «tutti ‘e mumenti so’ belli».

Rosita Vallefuoco: Felicissima Jurnata è per me la conferma che far parte di una squadra è necessario. So che gli scenografi di solito sono visti propriamente come “reparto tecnico” e non artistico, e per questo restano sempre un po’ fuori dal processo di prove, di scrittura del testo, di ricerca.
Con Felicissima ho avuto la possibilità di essere parte di uno spettacolo in modo integrale. Sento mia non solo la scena, ma anche le musiche di Tommy Grieco, le luci di Desideria Angeloni, il testo di Emanuele D’Errico e la sua regia e conosco perfettamente il tono con cui Antonella Morea pronuncia determinate battute, come so con quali tempi Dario Rea sbatte il “pannucciello”. La possibilità di confrontarmi con Clara Bocchino e la gioia di aver conosciuto Rosaria Ruocco che ha partecipato in qualità di mia assistente e tirocinante dell’Accademia di belle Arti di Napoli. E quello che più mi emoziona è che la scenografia è anche di tutti loro. Per me Felicissima Jurnata è questo. Una piccola parte di un tutto, che è la nostra squadra.

Hubert Westkemper: Come scrive Rita Felerico: è lo specchio di vite solo apparentemente lontane dal nostro tempo.

Tommaso Grieco: Per me Felicissima jurnata è un clacson all’improvviso mentre con le cuffie ascolti il tuo brano preferito. È una carezza molto amara che ci ricorda che i bisogni sono comuni e le necessità si possono condividere e realizzarle. Che dopo tutto il caos l’ordine è possibile, anche se surreale; è come lanciare un sasso nell’acqua e tutto si espande come il suono, si propaga e diventa armonia di un tutto, più complesso ma più efficace.

Rosario Martone (costumi): È l’eco di suoni familiari, di parole a volte ascoltate, a volte anche pensate o dette, di storie vissute o accolte dai racconti della gente. È l’antica storia della difficoltà del vivere e del viversi, nella lingua, il napoletano, che su tutte è quella che amo.

Desideria Angeloni (luci): È stato tanti viaggi. Dentro e fuori di me. Per tutta Italia, in luoghi e teatri bellissimi.
Tra i vicoli del Rione Sanità e nel mio stesso quartiere (San Giovanni a Teduccio), come in tanti altri della mia città, perfettamente raccontati ed evocati dalle parole di Emanule D’Errico. Una camminata attraverso la mia storia personale e i miei legami più forti.  Un’esplorazione delle mie insicurezze e paure, di dubbi e incertezze, che sono riuscita ad affrontare e mettere in gioco grazie alla collaborazione con una squadra incredibile. Un percorso che mi ha unita artisticamente a tante persone, in particolare a Emanuele e a Rosita Vallefuoco: con la sua scena da illuminare mi ha lanciato una sfida importante che credo abbiamo vinto insieme.
Felicissima Jurnata è un progetto a cui ho dato tutto ciò che potevo e nel modo più bello: restando in connessione con gli altri. Sono molto felice e grata di quest’esperienza, ma le parole non bastano. La Luce è lo strumento che mi permette di raccontare di questi viaggi. E spero ce ne siano ancora, sempre così intensi.

 

FELICISSIMA JURNATA
uno spettacolo di Putéca Celidònia

Vincitore del premio Giuria Popolare – Dante Cappelletti 2021
Finalista di Forever Young – La Corte Ospitale 2022

drammaturgia e regia Emanuele D’Errico
con Antonella Morea e Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
scene Rosita Vallefuoco
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
luci Desideria Angeloni
costumi Rosario Martone
aiuto regia Clara Bocchino
realizzazione scene Mauro Rea
scenografa stagista Accademia di Belle Arti di Napoli Rosaria Ruocco
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations (Valeria Bonacci, Giorgia Simonetta)

produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia
in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania