GIORGIA VALERI* | Il paradosso della “cultura della vergogna” risiede proprio nella dicotomia tra il senso di colpa congenito e l’estrema consapevolezza dei meccanismi che lo governano: come eroi omerici, i ragazzi di oggi hanno bisogno di dimostrare il proprio “valore”, non tanto a se stessi, quanto alla comunità esterna in cui vivono. Solo così, solo ottenendo il plauso generale, possono affermare il proprio sè, riscattare il diritto di esistere in un mondo dominato da rigidi schemi precostruiti, che poco tiene conto delle attitudini dei singoli. Asilo Republic, compagnia nata “nella cucina di una casa in affitto a Roma, dalla necessità di quattro fuorisede di creare un ambiente familiare dove mettersi in gioco e far circolare le proprie idee”, ha dato avvio lo scorso anno al progetto-spettacolo Shame Culture, un’inchiesta sulla sanità mentale giovanile, in particolar modo sulla condizione in cui vertono gli studenti universitari: un mondo di cui molto spesso si parla dall’esterno, con un teleobiettivo che riprende una situazione d’insieme senza cogliere le ombre che si allungano sulla vita di ciascun individuo che ne fa parte. 

Anna Bisciari, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi si appropriano del palco dell’Elfo, suddiviso in sei pannelli retroilluminati di blu e contenenti tre postazioni video, intonando la canzone di Vasco Rossi che dà il nome al gruppo, rivendicando un’istanza politica e una metaforica denuncia al successivo contenuto artistico dello spettacolo. Se la drammaturgia ripercorre sistematicamente alcune situazioni-tipo dell’essere ragazzi oggi, come dinamiche familiari o amicali, in cui a turno uno dei tre interpreta la parte lesa di un processo giudicante, dall’altra la regia, curata da Andrea Lucchetta, scandaglia il lavoro attoriale accompagnandolo a un ricco apparato tecnico-visivo che restituisce immediatamente le caratteristiche proprie del mondo della Gen Z: i giovani attori si confrontano tra loro attraverso videocamere installate in computer posizionati in vari punti del palcoscenico proiettando poi le riprese sul maxischermo alle loro spalle. Il video è l’elemento predominante quindi sia della scenografia, di per sè scarna e quasi inesistente – due sedie e due tavolini – sia della regia.  

Nei momenti in cui è assente, i tre si azzuffano tra loro a parole, interpretando in maniera alternata il ruolo di padre, madre, figlio o figlia, spesso sfociando in conversazioni inconsistenti rese ancor più caotiche dal riff di una chitarra che sovrasta le voci adulte. I conseguenti monologhi di sfogo dei giovani, che si rivolgono direttamente al pubblico – io non sono contento… il mio problema è essere donna… sono un’idea di figlio, non un figlio – sono difficili da carpire, difficili da ascoltare proprio per la confusione generale in cui vengono urlati. 

Le luci si abbassano, una musica techno ad altissimo volume pervade la sala: l’adolescenza lascia il posto alle prime esperienze da fuorisede, all’università. I tre si dispongono a testuggine, assumono una formazione da combattimento e descrivono pedissequamente la strategia di attacco da adottare prima di un esame. Si susseguono bugie, mezze verità, derisioni, angoscia, ansie, paure che si reiterano e rimbalzano nelle riflessioni di ciascuno. Paradigmatica è la scena in cui il maxischermo si divide in tre parti uguali: gli attori si dispongono ciascuno di fronte alla propria porzione, si allenano a imitare i balletti di Tiktok che compaiono sullo schermo mentre ripetono le teorie lacaniane sulla concentrazione, sulla memoria e la disattenzione.

Lo spettacolo si chiude sulle interviste di alcuni ragazzi sulla percezione dell’università, della propria vita, di se stessi, interrogati dai tre attori seduti sul palcoscenico. Non c’è margine di commento, il silenzio imperante è il protagonista assoluto della scena finale: “i bambini dell’asilo non fanno più casino”. 

A un primo impatto, lo spettacolo lascia molto su cui riflettere, meno su cui emozionarsi. L’indagine riduce lo spazio dello spettro emotivo, gratta solo la superficie di un territorio scomodo, pericoloso, che potrebbe franare da un momento all’altro. Il lavoro attoriale è preciso anche se qualche volta subisce l’ingombrante presenza video che spezza la narrazione e tronca il ritmo del racconto. L’idea di partire da un oggetto di ricerca specifico, intrecciarlo con il reale e tesserlo attraverso una drammaturgia fatta di azioni è accattivante ma diventa un po’ ridondante nel momento in cui l’effetto spettacolare supera la potenza del messaggio. Resta quindi un progetto – in potenza – significativo, fondamentale, in linea con l’essenza di un teatro politicamente impegnato anche se ancora in stato embrionale: la presenza corporea e mentale degli attori è tangibile, quasi pesante, ma la reiterazione sullo schermo sembra assottigliarne lo spessore, depotenziando anche il  messaggio di cui sono portatori.

 

SHAME CULTURE

drammaturgia Asilo Republic
regia Andrea Lucchetta
con Anna Bisciari, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi
luci Gianni Staropoli
musiche Luca Nostro
fonico Luca Gaudenzi
scene e costumi Dario Gessati
video Carlo Fabiano
supervisione video Igor Renzetti
coproduzione Teatro dell’Elfo, Accademia Nazionale Silvio D’Amico

Teatro Elfo Puccini, Milano | 12 dicembre 2023

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.