RENZO FRANCABANDERA | Antonio e Cleopatra di William Shakespeare è una tragedia epica andata in scena per la prima volta in un periodo che gli studi fanno oscillare fra il 1607 e il 1608: esplora la complessità delle relazioni umane, politiche e amorose.
La trama si svolge tra Roma e l’Egitto, presentando la storia d’amore tra Marco Antonio e Cleopatra, la regina d’Egitto, mentre si agita la guerra fra i triumviri succeduti a Cesare, ovvero lo stesso Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. Shakespeare offre in questa scrittura uno sguardo penetrante sul conflitto tra dovere politico e desiderio personale, enfatizzando le sfumature dei personaggi e facendo così una personale riflessione sulla politica dell’epoca elisabettiana, sulla fragilità del potere e sulla difficoltà di conciliare il mondo politico con quello personale. Centrale per l’epoca anche la prospettiva culturale in cui viene dipinta Cleopatra, figura ambivalente, potente fino al capriccio ma emotivamente vulnerabile allo stesso tempo. Una sfida agli stereotipi dell’epoca.
Il dramma torna in scena in Italia nell’allestimento di cui cura la regia Valter Malosti, direttore artistico di ERT Emilia Romagna Teatro, che peraltro coproduce la creazione. L’artista ha lavorato con la celebre studiosa e scrittrice Nadia Fusini a una traduzione-adattamento che riduce all’essenziale il numero dei personaggi enfatizzando la capacità di restituire ulteriori sfumature e profondità al testo.
All’interno di una scenografia che sembra ispirata a un quadro metafisico, l’interpretazione antinaturalistica e grottesca scelta dalla regia trasporta lo spettatore in un mondo subito surreale. La vicenda si apre in un paesaggio astratto, dominato da forme geometriche e colori vividi, che evocano l’atmosfera di un dipinto di Giorgio de Chirico, con le mura di una fortezza antica che incombono, popolata da figure in foggia antica ma dentro una situazione da show televisivo: siamo alla corte di Cleopatra in Egitto dove, in una generale mollezza di costumi, i protagonisti danno il via alla vicenda simulando una situazione di intimità molto pubblica ma che si conclude con i due che si adagiano su are sepolcrali per uscire di scena.
La pedana mobile porterà poi frequentemente alla ribalta i personaggi da un altrove che sta dentro la fortezza inaccessibile (la scena è di Margherita Palli): come spesso nei recenti allestimenti di Malosti, la scenografia ha un secondo piano, una sorta di backstage psichico e che qui è funzionale alle entrate e uscite di scena degli interpreti, ma fin da subito si comprende che è qualcosa che ha a che fare con la morte, l’Aldilà, il trapasso.
Il regista non rinuncia a un approccio provocatorio al segno scenico, e incarna Antonio con una cifra a suo modo esagerata e distorta, sottolineando gli aspetti più tragici e grotteschi del personaggio, impersonato come un eroe contemporaneo e incanutito, con una giacca di pelle rossa lunga e una parrucca da personaggio settecentesco, di nobiltà decadente, quasi un Visconte di Valmont. Stessa scelta anche per l’altra protagonista femminile, interpretata da una Anna Della Rosa il cui bagaglio di capacità interpretative scolpisce con ricchezza il tipo umano di una donna da subito volubile e cristallizzata in una dimensione egotica. La presenza sul palco degli interpreti è fin dalle prime sequenze orientata a un’estetica gotico-pop (puntellata dalle scelte musicali di GUP Alcaro, con un pregevole cammeo live all’arpa di Dario Guidi, e alcuni brani rock eseguiti dal vivo con bella interpretazione), con i movimenti e una gestualità teatrale inizialmente intrisi di rimandi alla logica delle sit-com, con risate e applausi off e stilemi recitativi che sfidano le convenzioni classiche. Interessante, come sempre, il lavoro sul movimento scenico di Marco Angelilli, creatore di intuizioni e forme di montaggio analogico con un andirivieni vorticoso e mai casuale che sfrutta tutto il palcoscenico, arrivando anche nel finale a sfondare la quarta parete, anche se la cosa, di suo, non ha una sua specifica urgenza.
Della Rosa, nel ruolo di Cleopatra, contrappone alla senescenza tragica del personaggio di Antonio un’interpretazione nutrita di bizzarria contorta, che definisce il magnetismo enigmatico di un personaggio capriccioso e a tratti quasi folle, una sorta di pirandelliano Enrico IV al femminile (e Malosti la mette probabilmente non a caso a montare una statua equestre senza zampe, che potrebbe anche essere una infantile giostra dell’esistenza, condottiera bambina). La sua recitazione, precisa nella singolarità del carattere interpretato, trasmette la dualità della regina egizia: passionale e manipolatrice ma allo stesso tempo vulnerabile e desiderosa. La chimica eccentrica tra Malosti e Della Rosa crea un dialogo visivo comunque originale.
La scenografia, con il gioco delle luci, dei costumi (belle le idee per i costumi di Carlo Poggioli – sebbene incomprensibile risulti la modernità borghese di Ottavia – e per il bel disegno luci di Cesare Accetta) e delle dinamiche delle pedane mobili, si trasforma durante lo spettacolo, passando da ambienti storici a paesaggi più psichici, che riflettono le ambientazioni emotive. L’uso di luci e ombre accentua ulteriormente l’atmosfera irreale, trasportando il pubblico in un regno dove il confine tra realtà e sogno si dissolve.
L’allestimento si propone quindi di far emergere, dentro un canone generale di accessibilità dei segni scenici, la complessità dei personaggi e delle loro relazioni attraverso un linguaggio visivo e teatrale provocatorio.
In scena, oltre ai due personaggi principali, altre figure shakespeariane che creano il contesto storico e la dimensione metafisica con la presenza – scenicamente riuscita – dell’elemento divino nella figura di Eros (che qui è anche Thanatos), e con una squadra attoriale che mescola esperienza e vigoria giovanile, composta da Danilo Nigrelli – un Enogabalo traffichino e che diventa via via un Polonio di vulgata, Dario Battaglia – Ottaviano spiritato, posseduto dalla forza del destino, Massimo Verdastro – sempre e da sempre una presenza magnetica in scena, Paolo Giangrasso – contrappunto comico nei suoi diversi ruoli, Noemi Grasso – voce cristallina e vivace serva di Cleopatra, Ivan Graziano – milite devoto ad Antonio, Dario Guidi – un vero eyecatcher da palcoscenico oltre che pregevole musicista, Flavio Pieralice – giovane soldato scuola ERT, Gabriele Rametta – presenza dai buoni ritmi, Carla Vukmirovic – la Ottavia diafana martire del suo ruolo sociale ma con la schiena dritta e in abito contemporaneo.
Il testo offerto in questa combinazione recitativa, insieme ai segni scenici vivaci (alcuni semplificabili), invita gli spettatori a esplorare nuove prospettive sulla storia d’amore e potere di Antonio e Cleopatra, e in controluce si sofferma in particolare sulla complessità del personaggio maschile, con le sue contraddittorie generosità, le debolezze che gli impediscono di affermare lo schema di potere. Il Marco Antonio di Shakespeare che al regista interessa far emergere, a differenza del personaggio di Amleto (di qualche anno prima, 1602) che sceglie di non decidere, decide di fare, sì, ma condizionato continuamente da quello che gli altri gli impongono di fare, ora per sentimento, ora per ragion di stato, ora per fedeltà di ruolo. Finanche il suo darsi la morte, in una giostra beffarda di incastri e giochi estremi, è ben diverso dallo schema con cui Shakespeare aveva drammaturgicamente risolto un decennio prima la vicenda dei due amanti di Verona.
La poetica dell’autore, come è noto, è intrisa di una ricchezza linguistica e concettuale che si presta a interpretazioni sfaccettate e che l’allestimento mantiene con qualche aggiustamento nel senso di una contemporaneità che nel complesso non snatura. La maestria di Shakespeare rimane nella sua capacità di mescolare stili, generi e registri linguistici per catturare la specificità umana: qui il regista dà vita a una rilettura formalmente coerente, decadente, che ricorda immaginari come quello del fotografo David LaChapelle dove il confine fra sacro e profano è sottilissimo ma tangibile.
Il testo originale, permeato da versi poetici, monologhi intensi e giochi di parole, diventa il veicolo per esplorare la drammaticità delle relazioni.
Ma qui le parole scelte da Fusini e Malosti, pronunciate e incarnate con una recitazione grottesca, si trasformano in strumenti volutamente esasperati, cifra spesso connaturata alla forma scenica di Malosti, pur mantenendo sempre un sacro rispetto per la tessitura poetica del drammaturgo; obiettivo è indagare la natura ambivalente e multiforme della condizione umana. La cosa riesce in alcuni casi in modo più felice, e dopo il debutto resta da lavorare sulla tridimensionalità dei caratteri, quelli femminili in particolare, per favorirne l’evoluzione drammaturgica e sviluppare così a tutto tondo l’evoluzione psicologica dei personaggi.
L’idea di fondo ha una sua robustezza: la complessità di questi prototipi umani, soprattutto quelli più compiuti dei due caratteri principali, diventa un terreno fertile per una rilettura a suo modo espressionista. I dialoghi fra Antonio e Cleopatra, carichi di emozioni estreme e contraddittorie, si amplificano attraverso la recitazione di Malosti e Della Rosa, che enfatizzano le sfumature tragicomiche della storia d’amore e potere. Il lavoro della Fusini ha comunque la capacità di non focalizzare solo sui due caratteri principali le questioni portanti di questa rilettura, ma di mettere alcuni giusti accenti di cadenza anche sui personaggi minori che si è scelto di mantenere in scena.
L’ambizione non solo nella scrittura, ma dell’allestimento nel suo complesso, è di disegnare personaggi che si ergono al di là delle epoche, in grado di adattarsi a interpretazioni innovative senza perdere la loro essenza, con una seconda parte dello spettacolo dal ritmo incalzante e assoluto, che parla al pubblico di ogni tempo.
La regia, a suo modo, celebra la maestria del Bardo, e ne intende esplorare le potenzialità transformative, dimostrando che la sua poetica è intramontabile e aperta a reinterpretazioni audaci e accessibili al contempo.
Alcuni segni, la cui definizione arriverà come sempre con l’andare delle repliche, vanno collegati fra loro con più nitore, come quello iniziale del riferimento massmediale che poi evapora (se non per un blando richiamo nel finale, ambientato in un camerino), ma altri sono già completi e restituiscono anche la scelta felice del casting sui personaggi minori, che donano vivacità ora popolare ora lirica alla scena.
Il pubblico di Modena, al Teatro Storchi ha accolto con calore il debutto, sostenendo con gli applausi anche il grande sforzo di Malosti che in queste repliche è andato in scena con un drammatico abbassamento di voce, contro il quale ha visibilmente combattuto con sacrificio: un ulteriore segno della fragilità del suo personaggio, ove mai la vulnerabilità di cui già Shakespeare l’aveva ammantato non fosse bastata.
ANTONIO E CLEOPATRA
coordinatore tecnico di tournée e capo elettricista Umberto Camponeschi
direttore di scena e capo macchinista Marco Giua
macchinista Davide Lago – Leandro Spadola
attrezzista Laura Franciò
fonico Angelo Longo, Pietro Tirella, Luca Martone – Fabio Romano
esecutore del progetto sonoro Andrea Cauduro
elettricista Chiara Zaffiro – Gianluca Di Meo
sarta Maria Vittoria Pelizzoni
trucco e parrucco Claudia Bastia
direttore tecnico Massimo Gianaroli
scene costruite nel Laboratorio di ERT / Teatro Nazionale
responsabile dell’allestimento e del laboratorio di costruzione Gioacchino Gramolini
costruttori Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Davide Lago, Leandro Spadola
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Martina Perrone, Bianca Passanti
costumi realizzati da Maria Vittoria Pelizzoni, Adriana Cottone per ERT /Teatro Nazionale e da Tireili Costumi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Bolzano, LAC Lugano Arte e Cultura
immagine di copertina foto di Laila Pozzo / editing Marco Smacchia
foto di scena Tommaso Le Pera
si ringraziano Gilberto Sacerdoti, Aldo Schiavone