ANNA CRICHIUTTI* | Tra lo sguardo corrotto di una società cieca di fronte alle proprie verità e un’idea di giustizia sempre più irrimediabilmente alterata, lo spettacolo Wonder Woman di Antonio Latella e Federico Bellini mette in luce una delle ferite ancora aperte del nostro secolo, scrutando e analizzando con precisione il tessuto concreto di una realtà che scuote le fondamenta della credibilità giudiziaria. Da giovedì 11 a domenica 21 gennaio è stato presentato in prima nazionale al Teatro Astra di Torino per la produzione di Teatro Piemonte Europa e per la regia dello stesso Latella nella stagione Cecità del TPE diretto da Andrea De Rosa.
Insieme a I tre moschettieri e Zorro, Wonder Woman costituisce un capitolo di una trilogia teatrale scritta e diretta in Germania da Antonio Latella, insieme a Federico Bellini per la drammaturgia. Noto per le sue regie spesso orientate verso un rilettura anche radicale dei testi della tradizione classica, questa trilogia rappresenta un’eccezione nel repertorio del regista che lo spinge a interrogarsi su cosa significhi essere un supereroe ai giorni nostri. In tutti e tre i capitoli, fatti concreti e realistici sono stati materiale di una riflessione più ampia che nel caso di Wonder Woman affronta una ferita culturale che ancora nel «VENTUNESIMO SECOLO» stenta a chiudersi e rimarginarsi.
Le premesse anticipano che la Corte d’Appello del Tribunale di Ancona, composta da quattro giudici donne e convocata in seguito all’accusa di stupro nei confronti di una giovane ventiduenne di origine peruviana, delibera l’assoluzione degli imputati considerando la vittima “troppo mascolina” e, dunque, troppo poco avvenente per riuscire a scatenare anche solo il desiderio sessuale in un gruppo di ragazzi da cui, per di più, era stata soprannominata “il Vichingo” — considerazione «CHE LA FOTOGRAFIA NEL FASCICOLO PARE CONFERMARE». In un secondo momento la Corte di Cassazione ha ribaltato la sentenza, condannando gli autori della violenza.
Dall’emblematico fatto di cronaca, raccontato, immaginato e teatralizzato da Latella e Bellini, emerge un accorato appello umanitario, incarnato nella figura di una Wonder Woman del nostro tempo, il cui coraggio diventa il lazo distintivo attraverso cui rivendicare una verità troppo spesso negata.
Allora, l’urgenza è quella di fare luce. Si fa luce su un palcoscenico spoglio e illuminato a giorno, attraversato dal passo sincronizzato di quattro giovani attrici — Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti — vestite di nero e con tacco rosso, il simbolo della lotta per i diritti delle donne e contro la violenza di genere — costumi di Simona D’Amico. In questo contesto, censura e negazione sono rigorosamente escluse, e l’oscurità, limitata nel suo tentativo di avvolgere anche solo la platea, è impotente nel suo sforzo di offuscare la chiarezza e la verità di questo spazio.
Schierate una al fianco dell’altra, come guerriere, le attrici occupano il proscenio in posizione frontale. Ai loro piedi, un cavo rosso che collega i quattro microfoni quadrati: è il lazo con cui il personaggio immaginario dei fumetti di William Moulton Marston e Harry G. Peters estorce ai nemici la verità; è una linea di confine tra le nefandezze del nostro mondo e la loro Isola Paradiso — abitata, secondo la tradizione, dalla società matriarcale delle mitologiche Amazzoni dopo essere state schiavizzate, stuprate e in gran parte uccise da Ercole e il suo esercito.
Inizia così, tra indignazione e disgusto, un monologo a più voci che ripercorre in maniera puntuale la vicenda della vittima, a cui si dà il nome di Nina — traendo ispirazione dalla protagonista de Il Gabbiano di Anton Čechov, emblema di una gioventù tradita e soffocata.
Le attrici, in schiera, raccontano la sera dello stupro in una coreografia corporea composta solo di sintetici movimenti e scambi di sguardi pregni di significato. Il battito accelerato del cuore scandisce il ritmo di un testo incisivo e diretto, composto da interventi che si alternano e si intrecciano con precisione, creando una concatenazione fluida, integrata talvolta da interventi musicali minimali — nel pensiero sonoro di Franco Visioli.
«Tutti dicono che l’ho voluto io» dice la ragazza.
Poi, il coraggio di denunciare si trasforma in una condanna di fronte al paradossale interrogatorio della polizia, feroce nel tentativo di scovare la menzogna nel suo resoconto post-traumatico. Domanda standard: «Ti sei bagnata?» — «Scusi, ma è necessario se vuole essere creduta». «Com’ero vestita? Che cazzo c’entra com’ero vestita». Poi, l’insistenza su dettagli senza alcuna rilevanza giuridica, volti esclusivamente all’umiliazione colpevolizzante. «Come si fa a restare lucidi mentre ti chiedono se ti sono entrati dentro prima con le dita se mi hanno leccata lì prima di entrare o forse sono entrati subito con il pene».
Un unico flusso di parole, privo di pause e punteggiatura, sgorga dalle giovani attrici che, come macchine, sputano e gridano la verità al mondo. Macchine della verità. Macchine di registrazione. Recitano una drammaturgia che si riavvolge come un nastro registrato e si ricomincia. Il testo in maiuscolo, come quello citato in precedenza, è il coro che parla: le quattro voci, all’unisono, portano alla luce le assurdità e i paradossi della vicenda, evidenziati per di più dalla ripetizione di frasi particolarmente paradossali.
«I soldi per le birre li aveva lei
SAREBBE OPPORTUNO APPROFONDIRE QUEST’ASPETTO» intervengono le giudici della Corte d’Appello.
«Non si riscontrano lesioni esterne, né sugli organi genitali, né sul sedere
SAREBBE OPPORTUNO APPROFONDIRE QUEST’ASPETTO» insistono le giudici della Corte d’Appello.
«La vagina non presenta tracce di sperma
SAREBBE OPPORTUNO APPROFONDIRE QUEST’ASPETTO».
«Il sangue non è necessariamente prova di stupro» conclude, infine, la Corte, la Giustizia.
E poi, i media che si accaniscono su questa storia, su tante storie, tutti i media, avvolti in un contrappuntistico «bla bla bla», durante il quale le attrici restituiscono con cadenza sincopata il frastuono monotono del linguaggio giornalistico spesso ridotto a un incessante chiacchiericcio di fondo. Un flusso costante di ricostruzioni a cui spesso si è sottoposti, che anestetizza il pensiero, dove la distinzione tra verità e finzione diventa un enigma perfino per il giornalista, «mentitore specialista», che se anche in un impulso di lucidità riuscisse a fare chiarezza, sarebbe condannato a diffondere falsità per aumentare le vendite e alzare l’indice d’ascolto.
«E giù di pubblicità a sazietà».
«SPEGNETE ‘STA CAZZO DI TV» — insistono più volte le quattro attrici nel tentativo di risvegliare un barlume di lucidità almeno nel pubblico.
Nella rappresentazione di questa drammaturgia il racconto di una verità rifiutata che implora di essere ascoltata si trasforma in un atto di rigenerazione, trascinando attrici, spettatori e spettatrici attraverso trentatré gironi infernali, varcati uno alla volta, per ritrovare uno sguardo rinnovato e carico di umanità.
Infine, stop alla parola. Lo spazio al corpo nella performance finale.
Le quattro attrici, armate di microfono, si dirigono verso il cuore del palco dove ad attenderle, appoggiate a terra, vi sono quattro armature simboliche costituite da collane tradizionali sempre più invadenti, soffocanti. Il cavo rosso dei microfoni, steso lungo il palco ora anche perpendicolarmente, disegna una struttura geometrica di quattro passerelle che si allungano dal proscenio fino al fondale. Allora, tra simulazioni di sfilate e movimenti performanti prende vita una danza tribale, che si evolve nel canto cileno Un violador en tu camino, el violador eres tú: diventato flashmob performato in tutto il mondo e ormai inno contro la violenza di genere, accusa il fallimento del sistema giudiziario nel proteggere le donne.
Il ritmo delle parole è scandito dai tamburi, mentre i gesti esprimono un linguaggio corporeo manifesto delle donne dopo aver denunciato. Qui, su questo palco, si aggiunge il gesto del lazo di Wonder Woman. Una «WONDER MACHINE». Una «TROUTH MACHINE». Ogni azione, che sia una corsa, un atto di difesa, un arresto o persino il passo di un uomo con una sigaretta, si trasforma in un elemento di un’espressione coreografica che si libera da restrizioni morali e ingiusta colpevolizzazione.
Dice il canto:
«Impunità per l’assassino
È l’abuso
È lo stupro
E la colpa non è mia
né dentro casa né per la via
L’assassino sei tu
Lo stupratore sei tu».
Tu, polizia.
Tu, giudice.
Tu, Stato.
Tu, presidente.
Tu, persona comune.
E la performance culmina nel silenzio, nel gesto significativo dell’indice che si rivolge allo spettatore, a un Tu che non accusa, ma illumina come opportunità di cambiamento.
WONDER WOMAN
di Antonio Latella, Federico Bellini
regia Antonio Latella
con Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti
costumi Simona D’Amico
musiche e suono Franco Visioli
movimenti Francesco Manetti, Isacco Venturini
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa
in collaborazione con Stabilemobile
TPE Teatro Astra, Torino | 11 gennaio 2024
* PACLAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.