ENRICO PASTORE | Al Teatro Astra di Torino è andato in scena Tre sorelle di Muta Imago, una riscrittura del celebre dramma di Anton Čechov a opera di Riccardo Fazi e per la regia di Claudia Sorace.
All’inizio di quella che non è una recensione, ma una semplice riflessione senza intenzione giudicante, ci sarebbe da chiedersi cosa ci sia in Čechov da attirare così tanti artisti nel nostro momento storico. In questi ultimi anni sono andate in scena numerose riscritture e interpretazioni dei vari drammi dell’autore russo: i due Platonov di Mulino di Amleto e Liv Ferracchiati, Il giardino dei ciliegi di Alessandro Serra e di Kepler 452, Tre sorelle di Simon Stone, Il Gabbiano di Leonardo Lidi e in questi giorni la riscrittura sempre del Gabbiano di Ferracchiati, solo per ricordare alcuni degli spettacoli più significativi.
È come se i sogni infranti, le aspirazioni deluse, le potenzialità inespresse che caratterizzano i personaggi cechoviani venissero a rispecchiare una generazione sospesa tra un vecchio mondo in frantumi ma incapace di abbandonare le luci della ribalta e un futuro atteso ma di là da venire. O forse quei drammi laceranti immersi in un fiume ininterrotto di feriale banalità ci rappresentano ancor di più, così come le schegge di poesia che emergono con abbagliante luminosità nel flusso di una mediocre quotidianità senza sviluppo o cambiamento.
Non è superfluo ricordare come i principali drammi di Čechov andarono in scena dal 1896 (Il gabbiano) al 1904 (Il giardino dei ciliegi) in un periodo turbolento della storia russa, prima dei grandi moti del 1905, in cui la società era percorsa da grandi aspettative ma scissa nel suo animo come incapace di decidersi se abbracciare un futuro capace di scardinare l’immobilismo e l’arretratezza del paese o abbandonarsi alla rassegnazione e al qualunquismo del tanto non cambia mai nulla.
In Tre sorelle di Muta Imago questa gabbia è evidente: la scorgiamo nella scenografia in quel tappeto quadrato, quasi un ring da boxeur in cui si aggirano senza via d’uscita le sorelle, a sua volta blindato da un fondale d’interno borghese; e la vediamo nella riscrittura dove il testo cechoviano si trasforma in un sorta di flusso di coscienza condiviso da Maša, Olga e Irina, ma in cui confluiscono le parole di tutti i personaggi.
In questo hortus conclusus la vicenda non è vissuta nel tempo presente, ma nel passato di un ricordo, come se non si fossero ancora chiusi i conti con quanto è già avvenuto. Si cerca ancora una via d’uscita. Gli stati d’animo, le insoddisfazioni, i fallimenti, i piccoli tradimenti, tutto è ancora presente, come un trauma non rielaborato e assorbito, e pertanto rivissuti in un loop senza fine. Le tre sorelle, prima di abbandonare quella vecchia casa e incontrare il proprio futuro, dovranno digerire quei ricordi dolorosi e rancorosi.
È forse questo lo stato d’animo della giovane generazione di artisti? Bisogna fare i conti con il Novecento, con i maestri, per trovare una via d’uscita? Rielaborare tutto in dettaglio come in una seduta di psicanalisi lasciando perdere i gesti dirompenti da avanguardie storiche? Il passato crea così tanta sofferenza da soffocare il futuro?
Forse è per questo che i lacci sono tanto più tenacemente avvinti ai tre personaggi e la loro fatica per liberarsene è tanto più spossante e nervosa. Siamo infatti lontani da quella conversazione piana e quotidiana, persino banale, di Čechov. Siamo ben distanti dalla sua ironia dolorosa, dalle sospensioni, dai silenzi gravidi. I movimenti sono scontrosi, nervosi, i toni sono più accessi, persino irosi e disperati, e sappiamo quanto Čechov volesse tenersi distante dalla disperazione. Così scriveva alla Knipper: «la confessione di Maša […] eseguila nervosamente, ma senza disperazione, non gridare, sorridi, seppur di rado, e soprattutto esegui in modo che si senta la stanchezza della notte».
Lo scarto dall’originale è salutare. Bisogna sentirsi liberi di confrontarsi con un testo in tutte le direzioni anche violando le intenzioni del drammaturgo. Quel che appare evidente però è quanto questo fremente e tormentoso ricordare appaia opprimente rispetto ai dialoghi originali, in cui il chiacchiericcio crea un piano su cui si possano stagliare i picchi emotivi, e come la sua mancanza ci renda incapaci, noi spettatori, di tirare il fiato qua e là in questa lunga corsa. Si avverte la mancanza di ossigeno, ci si sente sopraffatti da tanta disperata volontà d’essere altrove e felici. Unico elemento addolcente è la tessitura sonora (curata da Riccardo Fazi), eseguita dal vivo da Lorenzo Tomio, anche se accompagna il crescendo senza contrappuntare mai.
Il disegno luci (Maria Elena Fusacchia) è interessante soprattutto laddove si avvale di soluzioni “povere” con materiali luminosi utilizzati e guidati dalle stesse attrici come spesso usa Muta Imago.
Unico neo forse le strobo troppo insistite, ulteriore elemento di nervosismo in una scena già satura di toni vibranti.
Un plauso alle tre attrici Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli capaci di dare corpo a questo flusso continuo e di dar voce alle diverse voci, attraverso la semplicità, sapienti nel dosare senza strafare e senza cadere nel macchiettismo.
Da ultimo una considerazione sul pubblico per la maggior parte costituito da persone appartenenti a una generazione precedente a quella degli artisti in scena: le tre sorelle si dibattono contro un passato vissuto e costruito proprio da chi sedeva in platea eppure non si è stabilito un confronto, non si è scatenata quella che Milo Rau chiama interpellation, ossia una vera messa in questione di uno status quo. Forse bisognerebbe chiedersi se oggi vi sia una lingua comune tra pubblico e scena, un idioma capace di interrogare le coscienze intorpidite di noi tutti trascinati dalla corrente della storia e ormai rassegnati e incapaci di vedere quella luce abbagliante che avvolge nel finale le tre sorelle, in cammino verso un futuro tutto da costruire.
TRE SORELLE
uno spettacolo di Muta Imago
di Anton Čechov
regia Claudia Sorace
drammaturgia e suono Riccardo Fazi
con Federica Dordei, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli
musiche originali eseguite dal vivo Lorenzo Tomio
disegno scene Paola Villani
direzione tecnica e luci Maria Elena Fusacchia
costumi Fiamma Benvignati
produzione INDEX, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa in collaborazione con AMAT & Teatri di Pesaro per Pesaro 2024. Capitale Italiana della Cultura
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
Teatro Astra, Torino | 1 febbraio 2024