ILENA AMBROSIO | Se dietro le fotografie non scriviamo nomi / e cognomi, già nel giro di due / generazioni sarà tutto un coro / un infinito coro di chini sulle foto / a dire e questo? e questa? e questo / bambino? fratello? cugino? ma di chi? […] una lontana zia? / Ma quale zia e zia! / Ero io io io! / Sono io la mia fotografia! – Vivian Lamarque
Quanto conta fissare la memoria della memoria? Quanto è importante cioè, per un singolo, per una famiglia, per una collettività tenere bene a mente il nome di un volto, la collocazione geografica e temporale di una immagine? A voler dire che l’appartenenza di un ricordo è parte del ricordo stesso, aggancio ineliminabile della sua stessa permanenza.
Poggia i propri presupposti su questa convinzione il progetto di Digital Library realizzato da Riverrun a Montesacro, nel Municipio III di Roma: un contenitore digitale in continuo aggiornamento che raccoglie la memoria storica del quartiere.
Riverrun è un hub di innovazione culturale che opera dal 1997 applicando i processi creativi dell’arte a progetti sperimentali che possano avere un forte impatto sociale. Attraverso il teatro, la gamification, le nuove tecnologie, lo storytelling, il podcasting e l’arte relazione realizza progetti che spaziano dall’educazione non formale allo sviluppo locale, dall’innovazione sociale alla rigenerazione urbana, dall’economia circolare alla democrazia partecipativa, tutti accomunati da un’attenzione massima verso la sostenibilità.
Questo anche l’identikit della Digital Library di Montesacro. Lungo le strade e nelle piazze di un luogo, negli spazi identitari o di aggregazione sociale, sono stati collocati piccoli mosaici in pietra incastonati negli intonaci dei muri. Si tratta di QR Code artigianali, realizzati da bambini e ragazzi del posto secondo la tecnica del mosaico artistico: un ibrido tra l’artigianalità dell’arte e il digitale. È sufficiente inquadrarli con il proprio smartphone per essere subito catapultati dentro l’archivio digitale della comunità, anch’esso realizzato grazie alla collaborazione tra i giovani del territorio, che hanno digitalizzato i materiali, e gli anziani che ci abitano, che li hanno resi disponibili. Ogni sezione raccoglie e racconta un particolare aspetto della vita degli abitanti: foto, video, audio, documenti, diari, lettere, ricettari. Tutti materiali che, grazie a una semplice procedura telematica guidata e assistita, chiunque può inserire direttamente nella digital library contribuendo ad arricchire l’archivio. Non uno statico archivio storico ma un prodotto comunitario continuamente aggiornato.
Sui presupposti e il valore globale di questo progetto, abbiamo interrogato Lorenzo Mori, presidente di Riverrun.
Lorenzo, qual è stata la scintilla che ha fatto nascere questo progetto?
Il progetto viene da lontano, da una telefonata e da un incontro che risalgono a quattro anni fa. Riverrun è stata contattata e coinvolta sul territorio per realizzare un’attività di narrazione partecipata al Tufello, nel Municipio Roma III: una mappatura del quartiere e della sua storia raccontata dagli abitanti attraverso podcast e QR code artigianali in mosaico di marmo disseminati tra strade e piazze dell’antica borgata. In quei quattro anni abbiamo raccolto molti materiali e abbiamo pensato che sarebbe stato giusto restituirli alla comunità attraverso un mezzo che fosse nuovo e opensource; per di più c’erano in corso le problematiche legate al Covid-19 ed era urgente trovare un sistema di fruizione culturale collettiva che potesse non essere soggetto a restrizioni. Da qui è nata la Digital Library del Tufello/Val Melaina. Il risultato ha poi spinto la giunta municipale, con cui abbiamo lavorato benissimo, a considerare la possibilità di estendere il progetto a un’altra parte del Municipio III, Montesacro/Città Giardino Aniene, in occasione del centenario della nascita.
Eccoci qui a raccogliere materiali e riportarli sul web, passando di casa in casa in un processo pressoché infinito, che risponde alla nemesi lanciata da Christian Raimo, allora assessore alla cultura, quando iniziò il progetto: “Da qua non ve ne andrete mai!”, e in effetti, dopo quattro anni, ci siamo ancora.
Con Riverrun operate utilizzando mezzi artistici in progetti dal valore comunitario. In che modo, secondo il vostro fare, il teatro, l’arte, le nuove tecnologie devono incontrare e raccontare il sentire di una comunità?
Ci interroghiamo continuamente sul senso di essere comunità oggi e sui rischi insiti in questa vecchia parola. In generale preferiamo definirci come un collettivo che utilizza gli strumenti artistici per produrre trasformazione sociale e culturale, ma ciò non elude il discorso sulla comunità, anzi per certi versi lo amplifica. Ciò premesso, oggi più che mai registriamo un fortissimo bisogno di comunità nelle persone, bisogno che cresce con l’aumentare dell’impoverimento relazionale causato dall’estrattivismo e dalla parcellizzazione capitalistica. Di contro sentiamo anche tutto il pericolo che il nostro operare possa servire a rafforzare vecchie comunità privilegiate, patriarcali, bianche, esclusiviste, e questo non ci piace. Ci piace che i nostri progetti aprano il discorso problematizzando le comunità che incontriamo, mettendo in discussione vecchie regole e valori, aprendo a nuove istanze: quelle del transfemminismo, della permacultura, della sociocrazia, dell’ecologia intenzionale e dei beni comuni, tutte esperienze che stiamo incontrando lavorando nei luoghi cosiddetti marginali, quanto di più fecondo, creativo e davvero rigenerativo ci sia in giro per l’Italia. Per far questo bisogna allargare il senso di appartenenza al di là del proprio “recinto identitario” e lanciare le comunità, a partire dal garantire uguali diritti a chi abita un luogo (che siano o no cittadine o cittadini), verso orizzonti davvero nuovi, così ampi da superare la distinzione tra ciò che è umano e ciò che non lo è, per arrivare a comprendere la biosfera stessa. E per far ciò non esiste niente di meglio del teatro, arte sociale che da quando è nata è sempre servita proprio a questo: rivedere e ridiscutere i propri valori e credenze per immaginare collettivamente un futuro migliore! Non è un caso che Riverrun provenga dal teatro e che per certi versi continui a praticarlo: se vai in una comunità e attivi (regista) un processo partecipativo, dove lo storytelling che si genera (copione) è quello che le persone compongono con te giorno per giorno diventando sempre più (attori e attrici) consapevoli del proprio ruolo (rappresentazione), se lo fai andando a vivere là, dove il genius loci unisce in quel modo unico persone, luoghi e forme dell’abitare (drammaturgia e spazio scenico), che cosa stai facendo se non teatro contemporaneo?
Il progetto si poggia come evidenza sul terreno dello scambio: tra generazioni, tra strumenti analogici e digitali, tra il fuori e il dentro di una comunità, tra centro e periferia. Quale valore artistico e sociale ha per voi questa parola?
Ha lo stesso valore che hanno oggi parole come simbiosi, ecosistema, osmosi, relazione. Lo scambio è il principio della vita. Senza scambio si muore. Dovrebbe bastare questo per ricordarci tutti i pericoli insiti nella gentrificazione, turistificazione e musealizzazione in atto in tantissimi quartieri delle nostre città. In questo senso il progetto di costruzione della digital library si pone agli antipodi, divenendo una pratica di resistenza urbana, perché il vero valore del progetto è quello di utilizzare la memoria per riattivare la socialità nel qui e ora, a partire da una considerazione quasi banale: la memoria non è ferma, non è musealizzabile, proprio perché se non la spendi la perdi, non c’è una terza via. Prendiamo come esempio Città Giardino Aniene, nata nel 1923, che ha appena compiuto 100 anni: in vita ci sono gli ultimi e le ultime abitanti over 100 che ne posseggono la memoria delle origini, abitanti che stanno scomparendo a causa dell’età e che stanno dando un contributo fondamentale per l’elaborazione collettiva e corale del “chi eravamo e chi siamo”; se non facilitiamo ora questo scambio intergenerazionale sarà persa per sempre, questa è un’istanza importante da tenere a mente nel nostro presente storico e vale per tutta l’Italia non solo per Roma.
Per ciò che riguarda il valore della parola scambio all’interno del nostro fare artistico, dirò solo che Riverrun da anni ha rinunciato all’idea dell’artista genio, dalla sensibilità unica, del demiurgo (sempre maschio) che plasma, firma e sigilla l’unicità dell’opera; è un discorso molto denso che abbiamo provato a raccontare in un podcast dove parliamo proprio di arte contemporanea.
In che modo la conservazione della memoria e la creazione di una autobiografia diffusa nel progetto di Digital Library hanno a che fare con il desiderio, quasi performativo, di autorappresentazione della comunità?
I simboli, i riti, i miti e le feste sono la diretta espressione del genius loci di una comunità. Tutte forme di rappresentazione, parola che sta anche alla base della nostra democrazia, che non a caso si definisce rappresentativa. Autorappresentarsi significa prendere posto nel mondo, assumere responsabilmente e consapevolmente una forma espressiva e creativa che genera un modo di vivere, una forma-mondo unica e irripetibile, questo è il desiderio e il fondamento alla base di ogni comunità che voglia dirsi tale. In questo senso il nostro progetto assume un valore di empowerment e awareness molto forte, parole che possiamo tradurre dalla lingua del “progettese” all’italiano con l’espressione autoconsapevolezza e capacità di agire in modo efficace per la propria comunità. Si capisce molto bene allora come l’archivio digitale sia solo un pretesto, o se si vuole, uno scarto di questo processo di autodeterminazione, un po’ come lo sono le scene e i costumi di uno spettacolo, necessari ma non sufficienti affinché l’atto performativo accada; e il risultato performativo è proprio la festa, la celebrazione condivisa, il patto rinnovato nel qui e ora del chi siamo e chi vogliamo diventare.
Tra l’altro il processo di costruzione dell’archivio si scontra con tutta una serie di resistenze che la dicono lunga sulle dinamiche culturali sedimentate nel ‘900. Nel nostro caso lo sforzo che chiediamo alle persone è quello di cedere dei beni privati (le proprie foto di famiglia, oggetti, documenti) alla collettività, restituirli al bene comune superando la dicotomia pubblico-privato che tanto ha indebolito le nostre forme sociali da almeno due secoli (XIX e XX).
In uno degli incontri che abbiamo realizzato per condividere il progetto con la comunità e per fare festa, una delle signore che ha fornito le sue foto di famiglia, Carla, ha detto una frase significativa che citerò cercando di non sbagliare: “A me vedere le mie foto sullo schermo non fa sentire che ho perso qualcosa, che valgono meno. Ora le sento più mie”. In questa frase sta tutto il senso del progetto, perché creare una digital library, una sorta di enorme album di famiglia, un puzzle che si compone di tutte le storie del quartiere , questo neverending project è di fatto uno strumento per raggiungere l’unico obiettivo culturale e performativo che per noi di Riverrun oggi ha senso: far si che l’arte, qualsiasi forma d’arte, contamini il nostro reale profondamente in crisi, riattivando la capacità creativa e immaginativa nelle persone, sempre più ingabbiate in narrazioni tossiche e catastrofiste che spesso subiscono con una passività disarmante.
La condivisione del privato tramite le nuove tecnologie è qualcosa alla quale siamo oramai abituati. In cosa il vostro progetto si differenzia da ciò che è tipico dell’era dei social?
Citiamo uno degli abitanti protagonisti dell’autonarrazione del quartiere, Mauro (alias DECLE) che in un muro di Città Giardino ha scritto: “I nostri baci contengono tutti i big data del mondo”. La questione dell’uso dei dati privati e del pericolo nel renderli pubblici è un paradigma culturale obsoleto che ci tiene ancorati a un passato dove una cosa o è pubblica o è privata. Abbiamo urgentemente bisogno di superare tutto ciò perché il pericolo insito in questo modello categoriale è che ci si smetta di baciare, per paura che ci rubino i dati (sto al gioco di DECLE), senza accorgerci che i dati sono da sempre rubati, come i baci. Voglio dire che siamo già tutte e tutti dentro questa tecnosfera fatta di dati, reti, nodi e interconnessioni, non ha nessun senso sprecare tempo ed energie per proteggersi da qualcosa che già ci avvolge completamente e l’arte ha un ruolo enorme in questo perché ci può aiutare a inventare pratiche che usano i dati in modo meno estrattivo e passivo, ma più generativo e creativo. Tutta la riflessione sui beni comuni, sugli usi civici urbani, sull’hackeraggio giuridico e sull’arte digitale in corso in tantissimi luoghi d’Italia e portata avanti da attiviste e militanti serve proprio a superare vecchi paradigmi culturali e forme del pensare obsolete e siamo in prima linea con loro nel nostro lavoro quotidiano, anche in questo progetto che rafforza il senso del bene comune e dice alle persone non abbiate paura del digitale perché è solo uno strumento e come per tutti gli strumenti vale come lo usi, che cosa ci fai.