RENZO FRANCABANDERA | Una sorta di camposanto di casse di frutta, dove gli immaginari loculi sono illuminati da candele in un desolato paesaggio di campagna. Al centro, quasi in proscenio, a pendere dal soffitto, un pezzo di pelle conciata d’animale, ma potrebbe essere un pezzo da macello, come in Rembrandt o Bacon. A sinistra e destra, a creare installazioni simmetriche, rispettivamente un pianoforte verticale con la meccanica a vista e una sorta di postazione-altare, a sovrastare la quale una piccola “capuzzella” di ovino.
Dopo un inizio di sola contemplazione e musica, da un ingresso laterale della sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna (ERT coproduce il lavoro), arriva in guisa di zampognara, ma con una mise fra lo sportivo, l’erotico e lo zotico, la performer Roberta Lidia De Stefano.
L’artista è sicuramente una delle presenze performative più interessanti della scena italiana, perché unisce alla presenza scenica una serie di abilità, frutto di una formazione tecnica solida (scuola “Paolo Grassi”), e una determinazione al fare arte crossmediale che spinge un corpo versatile verso la body art con grande naturalezza e disinvoltura. L’avevamo già apprezzata in questo stesso spazio l’anno scorso con Kassandra di Sergio Blanco, dove ugualmente aveva messo in mostra le sue doti poliedriche di interprete, musicista e cantante.
Qui ripropone, in un riadattamento con nuova produzione, una creazione del 2020, una installazione performativa realizzata con il coreografo Alexandre Roccoli e che affonda le radici nell’intenzione di indagare la triade lavoro-potere-violenza che ancora oggi stringe e soffoca i corpi dei più «fragili». Si tratta di un assolo che parte dal racconto di una donna della Ciociaria, una lavoratrice povera e deprivata della possibilità di decidere il proprio destino, che poi si allarga, soprattutto nella parte musicale e sonora, a tutta la tradizione del canto dei campi e di protesta delle donne operaie (fra le altre, Fimmine Fimmine canzone di protesta delle tabaccaie salentine), o le voci che sembrano rimandare al film La Ciociara di Vittorio de Sica, con i due personaggi femminili di Cesira e Rosetta, oggetto di tragici abusi e soprusi nel periodo della seconda guerra mondiale.
L’artista, di origini calabresi, ma abile in un poliglottismo di matrice regionale che la porta a interpretare la femminilità popolare con estrema forza, anche in questa, come spesso nelle sue rese scenico performative, utilizza non solo il suo timbro canoro da mezzo soprano, ma anche la sua abilità da polistrumentista, arrivando a corredare il fatto artistico di una serie di tecniche recitative messe al servizio della scena.
Tutto lo spettacolo si sviluppa intorno al recupero etnomusicologico dei canti popolari del Sud Italia, legati ai movimenti e ai gesti di lavoro che animano con un fare ripetuto l’azione della performer, accompagnata delle voci off e dalle musiche di Benoist Bouvot. Bello e tragico il disegno luci di Lucia Ferrero che porta il gesto artistico dentro un antro notturno, che ha a che fare con il rito, anche religioso.
La vicenda della protagonista, Rosetta, omonima della figlia di Cesira, la protagonista de La Ciociara, è quella di una donna che cerca invano di cambiare la propria sorte, serrata nelle logiche patriarcali del mondo della cultura agricola, paesana e religiosa, che non la rende mai donna emancipata, ma al più sposa iconica, ritratta in un’infantile nudità: dovrà continuare a lavorare come bracciante, senza poter rivendicare i propri diritti.
Come spesso si apprende dalle cronache delle ancora tante donne coinvolte dai caporali nel lavoro nei campi, lamentarsi dei soprusi subiti spesso costa abusi e la perdita stessa del lavoro, e in alcuni casi anche della vita. L’abuso di potere e gli stati post-traumatici sono quindi il focus della creazione, ambientata in un contesto antico e rurale.
La performance inizia con la De Stefano avvolta in tessuti pesanti e scuri, a simboleggiare il peso delle aspettative sociali e culturali che gravano sulle donne. Con movimenti lenti e controllati, al suono della zampogna, inizia una progressiva, ma inesorabile spoliazione: una lenta e umiliante denudazione, ben lontana da qualsivoglia progressiva liberazione dalla coercizione e dalla repressione. Finirà nel fango, sporca di terra, a subire forme implicite, ma affioranti, di dominazione.
I gesti e i movimenti diventano, nel mimare il lavoro, sempre più reiterati, estenuanti, creando un senso di rituale che riflette sia l’oppressione sistematica che la ripetitività del lavoro quotidiano, con il corpo illuminato dall’alto, quasi a voler alludere al controllo di chi le sta sopra (la voix du patron, sottotitolo dell’opera). Utilizzando elementi di danza contemporanea e mimo teatrale, la performer esprime la sua lotta contro la violenza e la sottomissione, alternando momenti di forza e vulnerabilità.
Le casse di frutta illuminate da candele creano un’atmosfera suggestiva e allo stesso tempo inquietante, richiamando la dualità tra la natura sacra e profana del contesto chiuso e opprimente, incapace di far evolvere la femminilità e la sessualità della donna, se non nella forma dell’abuso. Tutti i simboli in scena rimandano alle strutture oppressive che devono essere superate, elementi che, pur con qualche ridondanza, aggiungono ulteriori strati di significato e complessità alla narrazione.
La seconda parte racconta quasi di un’anima duale, moderna, che non arriva a evadere da questa prigione, che canta quasi una sua voglia di autodeterminazione (sebbene alcuni segni risultino didascalici o superflui, come l’esecuzione a pianoforte di un estratto della colonna sonora di un film di Myazaki: il lavoro può farne a meno senza perdere forza, anzi).
Nell’insieme, la performance risulta comunque una potente esplorazione delle dinamiche di potere di genere e delle tensioni tra tradizione e progresso, viste dal lato della donna. Attraverso la sua espressione artistica audace e provocatoria, la performer sfida gli spettatori a riflettere sulle esperienze delle donne nel mondo contemporaneo, eppure ancora così antico nelle sue forme di sopruso, e a interrogarsi sulle strutture di dominio e controllo che ancora persistono.
La De Stefano è figura assai peculiare del panorama della performatività scenica, con un codice personale che va evolvendo e caratterizzandosi, ed è interessante seguirla in questo percorso, per conoscerne il segno.
DI GRAZIA
(la voix du patron)
disegno luci Lucia Ferrero
fonica Gerarda Avallone
direzione di scena Luca Piga / Elena Piscitilli
tecnica luci Elena Piscitilli
scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttore Tiziano Barone
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Benedetta Monetti, Sarah Menichini, Bianca Passanti
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, A short term Effect / Espace des Arts, Scène Nationale
Teatro Arena del Sole, Bologna | 20 febbraio 2024