CHIARA AMATO* | Era il 1844 quando Karl Marx, nei Manoscritti economico-filosofici, scriveva che ‘con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce sé stesso e il lavoratore come una merce’. Questo concetto è fondamentale per capire e sentire a pieno lo spettacolo in scena al Teatro Grassi di Milano, con la regia e l’interpretazione di Francesco Alberici, dal titolo Bidibibodibiboo. L’opera ci racconta di Pietro, fratello dell’autore, che – felice di essere assunto a tempo indeterminato da una grande azienda e poi preso di mira da un superiore – precipita lentamente in una spirale di dolore e paura durante le ore trascorse al lavoro, dove la sua performance è sempre monitorata.
La premessa di verosimiglianza della vicenda ci viene fornita al principio dello spettacolo quando Alberici e Daniele Turconi ci svelano che il primo vestirà i panni di Pietro, in quanto nessun attore potrebbe interpretarlo meglio di lui, e invece il secondo interpreterà Alberici stesso. I nomi dei personaggi non sono quelli reali e sotto consiglio dell’avvocato (interpretato da Andrea Narsi) non vengono raccontati dettagli sull’azienda in questione. La vicenda si sarebbe conclusa con il tentativo della ditta di indurre Pietro a rassegnare le dimissioni in modo che non possa poi avere nulla da pretendere dall’ex datore di lavoro.
La scena (di Alessandro Ratti) è allestita con scatoloni di diverse dimensioni che vengono aperti durante lo svilupparsi della recita e celano all’interno gli oggetti di scena veri e propri e in due casi anche gli attori (Narsi e Maria Ariis). Il palco si popola poi di altri elementi: un pianoforte, strumento molto caro ai due fratelli, un tavolo da pranzo con le sedie in frassino, un lavello da cucina, una vending machine da ufficio e una caldaia. Quest’ultima vuole ricordare, insieme al tavolo giallo e al lavello anni ’50 (ma senza il protagonista), l’opera Bidibidobidiboo di Maurizio Cattelan del 1996 – alla quale il regista si è ispirato sia per il titolo che per la scenografia – dove uno scoiattolo, in un interno casalingo, si è appena sparato un colpo alla testa. L’installazione genera stupore per l’irrealtà del fatto, uno scoiattolo che si suicida con una pistola, e il riferimento alla formula magica della fata Smemorina di Cenerentola fa pensare alle speranze che quello scoiattolo poteva avere per un fiaba a lieto fine che la vita non gli ha riservato, un pò come Pietro che si scontra con il lavoro sognato risultato poi un incubo.
‘Lo squallore di questo interno rende alla perfezione l’atmosfera che immaginavo mentre scrivevo’ – leggiamo nelle note di regia – ed effettivamente, tranne il pianoforte, tutto appare molto malinconico, agli occhi dello spettatore.
Il primo espediente metateatrale interessante è il libretto di scena consegnato all’ingresso del teatro: qui ci sono gli scambi mail avvenuti fra i due fratelli prima di decidere di parlare di questa storia che non dovrebbe essere verbalizzata. L’ironia di questo passaggio è evidente da un messaggio su video che obbliga il pubblico, a suon di timer, a una corsa di 5 minuti per la lettura del testo fino a un allarme che dà il via libera all’ingresso degli attori. Questi iniziano lo scambio come all’interno di un talk-show televisivo di botta e risposta da inchiesta, generando un effetto comico.
La metateatralità prosegue in questo gioco di scatole cinesi in cui i ruoli si mischiano in modo confuso fino alla fine della pièce, quando sul palco appare “il vero Pietro” (interpretato da Salvatore Aronica) che indossa gli stessi abiti di Alberici. Una serie di messaggi che ci arrivano quindi anche dall’abbigliamento dei personaggi.
Ma lo spettacolo parla davvero “solo” di una denuncia sociale sulle attuali condizioni di lavoro in una multinazionale qualsiasi? Ovviamente no, perché lo stesso meccanismo di “ricatto” professionale lo sente pesare sulle proprie spalle anche il regista stesso alla richiesta di Pietro di annullare tutto la sera del debutto perché questo porterebbe l’autore a sparire dalle produzioni teatrali e dai palcoscenici: gli spiega che anche il mondo dell’arte è pieno di sciacalli che non aspettano altro che venga fatto un passo falso da un collega per poterne prendere il posto e lasciarlo nel dimenticatoio. Aronica/Pietro non se la sente più di parlarne perché umiliato, perché sente che potrebbe subire un risvolto narcisistico da vittima, reiterando un meccanismo molto spesso familiare a chi subisce un sopruso: sentirsi sbagliati e colpevolizzare sé stessi. Ed è proprio questo il meccanismo mostrato da Marx in quel lontano 1866: la svalutazione del mondo degli uomini a vantaggio del risultato economico, della mission, come dicono le multinazionali di oggi.
Altro ruolo cardine della vicenda è quello di Maria Ariis che magistralmente passa dal ruolo di carnefice (la manager di Pietro) alla figura materna che lo ha spinto agli studi universitari, allontanandolo dalla passione per il pianoforte che non gli avrebbe garantito la stabilità a tempo indeterminato. Questo momento di psicoanalisi familiare a tre riflette dialoghi comuni a molte famiglie: i sensi di colpa, gli errori mai perdonati e il coinvolgimento emotivo di una madre verso i suoi figli utilizzando però un linguaggio aziendalistico (‘le policy me lo impongono’, ‘le procedure’, ‘la rescissione del contratto’).
Alberici, Premio Ubu 2021 come Migliore attore/performer under 35, adotta qui una regia che mira al realismo interpretativo: gli attori parlano e si muovono come nel mondo reale, eliminando il distacco teatrale dato invece dagli espedienti scenografici. Si parla di vita vissuta, reale, senza solennità.
Quello che manca è uno scopo chiaro e definito di questo spettacolo: non è prettamente di denuncia, non è un dramma familiare né un percorso interiore ma tutti questi elementi insieme, dove però la motivazione sociale va a perdere la forza che ci si aspetterebbe dagli intenti iniziali. La recitazione non riesce a rendere il dramma che può aver vissuto Pietro, non ne sentiamo la tensione emotiva, ci viene raccontata a parole ma la fisicità delle interpretazioni non supporta quelle parole. È tutto molto misurato, in questa alternanza tra humor e battute di spirito, tra gli urlati di rabbia nelle discussioni familiari e i dettagli della brutta storia che ha vissuto il protagonista e non si ha la percezione della gravità delle conseguenze che subisce un lavoratore in certe dinamiche aziendali contemporanee.
BIDIBIBODIBIBOO
regia e drammaturgia Francesco Alberici
aiuto regia Ermelinda Nasuto
scene Alessandro Ratti
luci Daniele Passeri
tecnica Fabio Clemente, Eva Bruno
con Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi
pianoforte Carlo Solinas (20 febbraio), Ario Sgroi (21 febbraio – 3 marzo)
produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione
in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano
con il sostegno di La Corte Ospitale
si ringraziano Alessandra Ventrella, Davide Sinigaglia e Ileana Frontini
testo creato nell’ambito dell’École des Maîtres 2020/21, diretta da Davide Carnevali finalista alla 56a edizione del Premio Riccione per il Teatro
Teatro Grassi, Milano | 24 febbraio 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.