GIULIA BONGHI | Dopo Toteis e Peter Pan – The Dark Side, Dorian Gray è la terza opera commissionata dalla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento a compositori dell’Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino. Con la direzione artistica di Matthias Lošek, la programmazione dedicata all’opera ha mosso dei passi coraggiosi nel segno dell’innovazione e della sperimentazione, raggiungendo obiettivi importanti come la vittoria del Premio Abbiati per la messa in scena dell’opera Written on skin, l’ideazione del concorso Fringe e la realizzazione di tre importanti produzioni. Il progetto Dorian Gray, con la musica di Matteo Franceschini, libretto e regia di Stefano Simone Pintor, sarà in scena al Teatro Comunale di Bolzano sabato 16 e domenica 17 marzo 2024.
Ho avuto il piacere di intervistare il regista, di ritorno dal ritiro di un premio a Parigi. L’Académie des beaux-arts ha assegnato il Grand Prix – des membres libres al regista Robert Carsen, che doveva devolvere il riconoscimento in denaro a tre artisti di cui apprezza l’operato. Si è rivolto alle nuove generazioni, indicando la regista e coreografa Eleanor Burke, lo storico della moda Alexandre Samson e l’autore e regista Stefano Simone Pintor.
Mancano ormai pochi giorni al debutto. Come procedono le prove?
Le prove procedono bene. Siamo giunti alla fine della terza settimana e devo dire che siamo dove dobbiamo essere. Abbiamo una settimana ancora di prove in cui dobbiamo sistemare molto lavoro da un punto di vista tecnico, però sta funzionando tutto bene e siamo tutti molto contenti del percorso. Si prospetta un’opera molto promettente.
L’interesse specifico per il romanzo di Oscar Wilde com’è nato?
All’inizio è stato Matthias Lošek che ha commissionato a Matteo Franceschini un’opera nell’ambito di un progetto della Fondazione Haydn. Sono giunti all’idea di creare un’opera su Dorian Gray, idea che, diciamo così, Matteo coccolava da tempo. La cosa si spiega da sola: ovviamente è un romanzo di Wilde incredibile. Poi sono subentrato. Avevo fatto già, nel 2018, un’opera scritta da Roberto Vetrano, sempre edita da Ricordi, che si chiamava Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse. Era venuta in tournée al Teatro Sociale di Trento con la Fondazione Haydn. Dopo mi è giunta la commissione di fare la regia di Falcone – il tempo sospeso del volo di Nicola Sani, sempre al Teatro Sociale, due anni fa, in occasione del trentennale della strage di Capaci.
Abbiamo lavorato, io e Matteo, lungamente per elaborare la struttura dell’opera e poi per scriverla insieme. Naturalmente io il libretto, lui la musica, ma sempre con un continuo scambio.
Può anche essere sensato che la prima messa in scena di un’opera scritta da un librettista e un compositore, venga effettivamente messa in scena da uno dei due. Anche delle prime opere, quando la figura del regista non esisteva, chi curava la messa in scena era chi l’aveva scritta.
In realtà mi capitano un po’ tutte e due le cose. È bello vedere come ci interpreta un terzo elemento. Alla fine, la ricchezza viene dallo scambio. D’altro canto, hai ragione anche tu, cioè quando l’opera la metto in scena io, vado a fondo di tante cose.
Gioco sempre un po’ su questo, ma in realtà è una vera filosofia: quando scrivo, cioè, considero l’uno e l’altro – lo scrittore e il regista – due persone diverse. Quando scrivo l’opera non penso mai alla soluzione registica, perché credo che sarebbe un gioco di economia che mi aiuterebbe verso una soluzione e che però tarperebbe le ali alla creatività della scrittura e viceversa. Invece, il regista si trova a dover risolvere un testo per la scena. È risolvere il problema a dare adito alle idee migliori; quindi, non ci penso mai più di tanto all’inizio e dopo mi ritrovo a chiedermi «adesso come lo faccio questo testo?».
Ci si deve mettere in difficoltà.
Sì, esatto. Parole sante. Poi non tutti sono proprio d’accordo. Però sì, io questa cosa la sposo in pieno.
Le tematiche del romanzo. Nel Dorian Gray abbiamo l’arte come specchio, la vita come forma d’arte, la vanità, l’apparenza, la paura di perdere la bellezza e la gioventù, l’influenza e la corruzione, l’omosessualità. Quali sono quelle che hai affrontato di più, che ti interessano di più, che magari sono ricorrenti nella tua vita artistica.
In realtà le abbiamo affrontate praticamente tutte. Anzi, senza praticamente. Ne abbiamo anche aggiunte altre. Perché è un po’ uno spaccato della nostra società e noi viviamo una società molteplice, multimediale e frammentaria. Tutto questo influenza la nostra vita quotidianamente.
Dopo aver studiato a fondo il romanzo, la cosa più importante che è venuta fuori è che cosa succede fra Dorian Gray e gli altri o, meglio, chi è Dorian Gray per gli altri. Anche leggendo un paio di citazioni e che poi ho messo all’inizio del libretto. Una è una risposta che diede Oscar Wilde a un critico: «ognuno vede i propri peccati in Dorian Gray». Quali siano i peccati di Dorian Gray, nessuno lo sa. Li vede colui che li ha commessi e in realtà è questo il motivo della continua attualità dell’opera.
Oscar Wilde aveva capito perfettamente che non c’è niente come la potenza dell’immaginazione del lettore che completa il racconto, con le proprie esperienze e il proprio portato emotivo. È un’opera che diventa senza tempo, perché ciascun lettore di ciascun tempo la completa, come dicevo, proiettandoci i propri demoni o desideri più reconditi. E così fanno anche gli altri personaggi rispetto a Dorian Gray. Hanno delle ossessioni quasi patologiche nei suoi confronti. Dorian funge un po’ da detonatore delle pulsioni degli altri. Per cui è venuta fuori l’idea di questa inversione logica, che poi un’inversione non è perché è dentro al romanzo, di avere Dorian con la sua stessa vita che diviene il ritratto delle vite degli altri. Lo specchio.
L’altra citazione è quella della prefazione famosissima al libro: «è lo spettatore e non la vita che l’arte realmente rispecchia». Quindi tutto il nostro spettacolo doveva divenire una sorta di grande ritratto del pubblico. Da qui è nata l’idea di avere una struttura molto corale, a capitoli, ciascuno dedicato a un personaggio secondario, potremmo dire, della storia. Ciascuno di loro vede il proprio Dorian Gray in una maniera diversa e si proietta in esso.
Ogni capitolo è nominato con il nome di un personaggio che abbiamo selezionato: Basil Hallward, il pittore; Sibyl Vane, l’attrice; Alan Campbell, il chimico; Gladys Monmouth, che racchiude un po’ tutti i personaggi femminili della storia; James Vane, il fratello di Sybil; Harry Wotton, il filosofo. Ripercorrono ognuno la storia dal punto di vista del personaggio e si intrecciano fra di loro.
Si incrociano le storie, a volte si rivedono degli episodi che già avevamo visto in un altro capitolo, ma riprendendoli un pochino prima o un pochino dopo e anche, soprattutto, dal punto di vista di un altro. Dorian rimane in tutto questo immantinente, immutabile, non si coglie. Per citare Aldo Busi e la sua bella prefazione al Dorian Gray, nell’edizione Mondadori, è il «Mephisto assente», che c’è e non c’è. Non si capisce se sia vero, se ci sia o non ci sia, se sia una proiezione, oppure se sia un personaggio, una persona a caso, un ragazzo appena arrivato a Londra, in questa società che si auto dipinge come perfetta ma in realtà diventa coercitiva nei confronti degli altri.
È esemplificativo come inizia e finisce il libretto: «We… You… I… They… He… She… Dorian». Sembra davvero che Dorian sia una proiezione di tutti gli altri personaggi. Sembra che lottino da soli, contro sé stessi.
Chi è questo Dorian? Questo doppio di ciascuno di loro? Studiando e immergendomi nella letteratura del doppio, che era cara alla letteratura Vittoriana – basti pensare a R. L. Stevenson, a soggetti come Dr Jekyll e Mr Hyde, ma anche alla nascita della psicologia freudiana – mi sono imbattuto nella teoria del doppelganger, che, caso vuole, ha lo stesso acronimo di Dorian Gray. C’è stata questa, diciamo, illuminazione e Dorian Gray, a quel punto, è veramente diventato il doppelganger di tutti gli altri personaggi.
Alla fine, chi sia questo Dorian Gray nessuno lo sa e sta allo spettatore stabilirlo. Ma non è neanche importante, cioè è più una domanda che viene lasciata a ciascuno di noi. Ne viene fuori uno spaccato di sei personaggi la cui ispirazione è nel libro, ma soprattutto è nella nostra quotidianità. Mi sono ispirato ai testi di Oscar Wilde, soprattutto al De Profundis, le lettere dalla prigionia, oltre che, naturalmente, al romanzo stesso, Il ritratto di Dorian Gray. Ma la cosa che più mi ha lasciato senza parole è stato leggere i quotidiani, dove si trovano veramente dei tali che sembrano i personaggi del Dorian Gray, ma portati all’oggi.
Quindi abbiamo un Basil Hallward che sostanzialmente non riesce più a riconoscere qual è il confine fra un’ossessione per una Musa e un’ossessione per un ragazzino e quindi diventa uno stalker. Abbiamo una Sibyl Vane che fugge nel mondo delle ombre, usa il teatro e l’arte come una sorta di terapia per problemi familiari latenti e proietta davanti a sé l’idea di un Principe Azzurro che non esiste; quindi, sostanzialmente, vive in un mondo allucinato. Harry Watton è il tipico narcisista manipolatore. Ci sono storie così, nella nostra quotidianità, che sono terribili e da questo punto di vista potremmo anche definirla una tragedia contemporanea la nostra.
Ciascun personaggio in un qualche modo incarna uno dei nostri vizi contemporanei, la deriva sociale della nostra società. Non sono vizi del singolo individuo, ma sono vere e proprie derive sociali. Ci sono state ispirazioni anche dal testo di Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, che individua appunto le derive della nostra società, come consumismo, sociopatia, diniego. Tra queste, per esempio, il diniego è stato quello forse che, perlomeno a me, fa più paura di tutte.
Trovo che ci sia un senso di universalità. Trattare tematiche che dipingono la nostra società, che hanno a che fare con tutti, compreso il grande tema dell’ignoranza, ad esempio. Possiamo definirlo un carattere peculiare della tua ricerca artistica?
Mi verrebbe da dire una specie di attivismo artistico. Oggi viviamo in un’epoca dove non esistono più le grandi narrazioni. Non esistono più i grandi intellettuali di un tempo. Non si crede più, le religioni sono sempre meno seguite, oppure seguite in maniera estremizzata. Non si ascoltano i filosofi. Quindi agli artisti, secondo me, è dato il compito di portare avanti una domanda su noi stessi. Noi ci rifugiamo nel leggere i libri, nel guardare film e serie-tv, nell’ascoltare musica. Quanto l’artista ha salvato con il proprio lavoro il mondo?
L’arte ci salva.
È una vera e propria missione. Perché noi abbiamo bisogno delle storie per comprenderci. Quindi in realtà credo veramente che l’intellettuale moderno possa essere in questo momento l’artista, e quindi quello che pone delle domande. È attivismo e anche lavoro politico, nel senso di indagine sulla nostra società, sulla nostra polis.
Dorian Gray è pieno di argomenti che, rispetto a due secoli fa, oggi sono esplosi. Per esempio, consideriamo solo quello della bellezza. Per me è stato abbastanza chiaro vedere come la bellezza fosse conseguenza di un’ossessione per il tempo che svanisce. All’inizio Dorian Gray, quando vede il suo ritratto, dice «perché non posso fare che sia lui a invecchiare al posto mio? Perché non posso rimanere sempre lo stesso?». Quando sei così giovane sei nel massimo della tua potenza biologica e puoi fare tutto. Pian piano, man mano che invecchi, non è altro che un decadimento fisico, corporeo, a volte mentale.
A un certo punto Dorian dice: «questo ritratto mi ha rubato il tempo».
Il tempo in quest’opera è trattato in vari modi dalla scrittura musicale di Matteo Franceschini, che ha fatto veramente un’indagine personale artistica sull’utilizzo del tempo. L’ho fatto anch’io, a mio modo, applicato al testo, all’intersezione fra le storie dei vari personaggi. Il tempo si dilata anche nel libretto, vi sono parti che svaniscono e che poi ritornano; quindi, anche graficamente c’è la rappresentazione di questo. Come vediamo mille Dorian Gray diversi, ognuno di noi percepisce anche il tempo e sé stesso nel tempo in maniera diversa.
L’opera lirica è una forma artistica che si presta a raccontare grandi storie.
C’è anche l’astrazione della musica che ti permette in qualche modo di parlare a un livello diverso, ma mantenendo tutta la potenza, anzi aumentando la potenza del linguaggio teatrale.
Tra l’altro, c’è tantissima musica nel romanzo di Dorian Gray. Sono citati per esempio dei momenti in cui Dorian suona dei duettini al pianoforte, o quando va all’opera a vedere il Lohengrin. Oltre a citare, ovviamente, Shakespeare, o altri testi come À rebours di Huysmans, che aveva tra l’altro ispirato tutto il libro di Wilde, insieme alla leggenda faustiana. Cita l’arte in molti ambiti; sappiamo che il discorso sull’importanza dell’arte per le nostre vite, per Wilde è fondamentale.
La macchina scenica che state creando – lo scenografo è Gregorio Zurla, i costumi sono di Alberto Allegretti, Fiammetta Baldiserri firma le luci e Virginio Levrio il video design – è semplice in quanto estremamente efficace, ma allo stesso tempo complessa e articolata.
La sensazione che ho tentato di costruire è un linguaggio filmico, magico e misterioso. Abbiamo questa grande cornice sul boccascena che racchiude all’interno i vari mondi, tempi, spazi, storie, eventi, personaggi che andiamo a creare. Quindi vari quadri o ritratti di personaggi. Però ci sono tanti altri micromondi che a volte coesistono fra loro. Ci sono tante cornici che si intersecano, proprio come le vite o gli eventi di questi personaggi. Con l’andare e venire di cornici e con l’utilizzo della macchineria teatrale, un continuo passare senza soluzione di continuità da una parte all’altra. L’effetto è veramente interessante e molto fluido. Ogni capitolo è autoconclusivo, però è intrecciato agli altri.
Lo trovo molto fedele a Oscar Wilde negli intenti, il che non vuol dire che sia fedele o che debba essere fedele necessariamente nella linea narrativa, perché è un altro strumento il teatro, rispetto al romanzo. C’è un’economia diversa di scrittura e quindi gli eventi possono anche cambiare. I personaggi possono avere una biografia anche parzialmente diversa. Però gli intenti, almeno per come li ho ricevuti io da lettore, erano questi e questa è stata la nostra traduzione.
D’altronde, il significato di un’opera non si esaurisce nell’opera in sé e neppure negli intenti dell’artista. L’arte è sempre una questione di domande.
L’intento è proprio quello di lasciare delle domande. Ecco, il ruolo dell’artista.
DORIAN GRAY
Musica di Matteo Franceschini
Libretto di Stefano Simone Pintor
Dorian Gray Laura Muller
Basil Manuel Nuñez Camelino
Sibyl Giulia Bolcato
James Ugo Tarquini
Alan Alexandre Baldo
Gladys Elena Caccamo
Harry Mathieu Dubroca
Orchestra Haydn di Bolzano e Trento
Direzione d’orchestra Rossen Gergov
Regia Stefano Simone Pintor
Scenografia Gregorio Zurla
Costumi Alberto Allegretti
Luci Fiammetta Baldiserri
Video Design Virgilio Levrio
Teatro Comunale di Bolzano
Sabato 16 marzo, ore 20.00
Domenica 17 marzo, ore 17.00