RENZO FRANCABANDERA | Fondata nel 2004 a Torino da Giorgia Cerruti e Davide Giglio, Piccola Compagnia della Magnolia è una compagnia indipendente di teatro contemporaneo riconosciuto per un’identità artistica fondata sul lavoro dell’attore in dialogo con la parola. Chiunque sia appassionato di teatro in Italia ha avuto sicuramente modo in questi venti anni di incontrare questo sodalizio artistico, che ha condotto indagini sempre profonde e dense sia sui grandi classici del teatro che sulla drammaturgia contemporanea. Un festival, un teatro off, una rassegna. La Magnolia ha resistito per vent’anni.
Si tratta di un’impresa a tenace, ostinata “conduzione familiare” in cui le attività – artistiche, tecniche, organizzative, amministrative – sono gestite dagli artisti stessi della compagnia, uniti da un progetto di vita e teatro a lungo termine.
Resistere per tanto tempo in uno scenario nazionale sempre più desertificato e preda degli interessi e degli scambi dei grandi teatri nazionali non è certo impresa facile che mira a mantenere viva una rigorosa e appassionata indagine a cavallo tra codici teatrali e ricerca, affrontando con sguardo contemporaneo la materia teatrale.
Abbiamo intervistato Giorgia Cerruti.
Ha senso e se sì perché festeggiare un anniversario di pratica nell’arte? Sembra quasi un brindare allo scampato pericolo e alla tenacia di avercela fatta in una realtà così complessa.
Un anniversario si festeggia sempre! È un’occasione di allegria, e per dire dei grazie. E poi…ammettiamolo…una compagnia indipendente che festeggia 20 anni di lavoro non è una semplice “azienda familiare” che ce l’ha fatta, è un vero e proprio miracolo in questo disastrato paese; è frutto di lavoro, testardaggine, utopica resistenza, lealtà, fratellanza, rinunce incalcolabili e inesauribile euforia progettuale. Stiamo sulle sabbie mobili, facendo progetti per il 2027 ma sapendo lucidamente che domani potrebbe svanire tutto. Senza paracadute o piani B cui aggrapparsi.
Eppure siete un duo che ha faticato e ancora fatica per mantenere il proprio diritto alla pratica artistica, pur essendo basati in una regione tutto sommato ricca. Che indicazione sistemica si può ricavare dal vostro vissuto esperienziale?
Io e Davide Giglio, mio compagno d’arte e prezioso attore, non ci siamo mai considerati solo un duo, nel senso che Magnolia è un organismo semiliquido.
Certamente entrambi rappresentiamo l’anima artistica e l’origine e certamente la progettualità ideologica è figlia dei nostri desideri, ma credo di poter dire che negli ultimi vent’ anni abbiamo attraversato momenti di gruppo intensi e solidi, sempre in perenne mutazione, tra avvicinamenti, abbandoni, appartenenze più o meno strette. Intendo dire che ogni persona (figura artistica, amministrativa o organizzativa) che ha attraversato e/o attraversa oggi la Compagnia semina una traccia profonda, che riverbera costantemente. Ogni progetto è una sorta di banchetto, impastato da molte persone con molteplicicompetenze, alcune sono presenze fisse, altre temporanee, tutte convergenti verso il lavoro artistico e la sua cura. Microsocietà ideale? Spero di sì, ma anche riserva indiana e gruppo di amici sodali.
Venendo al Piemonte, trattasi di una regione ricca ma contraddittoria, che racconta una sudditanza dilagante e nazionale delle arti verso tendenziose politiche definite “di welfare” che mischiano barbaramente le carte, chiedendo ai teatranti di abbandonare la propria specificità per rientrare in bandi che non sostengono la produzione artistica ma altri settori, altre competenze, … In breve, le Fondazioni ormai ci dettano come operare e le alternative per produrre non sono molte…
E poi c’è il tema della tutela dei propri artisti! In questo senso la distribuzione è l’anello più ignorato del ragionamento, e se non si inverte la rotta, rendendo vantaggioso per i teatri ospitare le compagnie indipendenti e la loro ricerca non mainstream, il futuro vedrà la scomparsa delle compagnie di giro, anima del teatro italiano.
Ma qui si apre un tema più ampio e doloroso, che ha a che fare con il sostrato culturale della nazione, con l’anima profonda di un paese piegato, retto ad ogni livello da interessi particolari, alito fascista, solidarietà tra cabale, incompetenza, scarsa ambizione, gusti omologati, consumo stereotipato, silenzio tombale sugli esclusi dai circoli gourmet. Siamo quarantenni e oltre, belli adulti ormai, e da questa posizione osserviamo disillusi l’orizzonte prossimo, preoccupandoci delle future generazioni. Crediamo ci vorranno ancora trent’anni prima di trovare un clima ripulito da tutto, un clima che scopra nuovi METODI, un nuovo senso del sacro, un clima più giusto dove si alleggeriscano le indegne disparità cui assistiamo – anche – nel piccolo mondo del teatro.
Siete passati anche per la gestione diretta di uno spazio fisico. Perché lo avete mollato? Rimpiangete quella scelta?
Abbiamo gestito e programmato tre teatri di provincia (Rivara, Bosconero, Avigliana) in circa quattordici anni di lavoro. Quelle case ci hanno permesso di avere uno spazio permanente dove fare ricerca libera e pura, dove produrre h24, dove costruire un ufficio, dove stipare le scene, dove lavorare sul territorio e ospitare cartelloni di grande ricerca e innovazione, dove “fare compagnia”. Senza le economie per affittare sale o depositi, questo lungo passaggio è stato fondamentale e esprimiamo gratitudine per la fiducia ricevuta. Ma va anche detto che gestire e programmare sale è un tipo di lavoro, mentre produrre e fare giro è un’altra cosa. Occuparsi di entrambi gli aspetti ci ha fagocitati e forse soffocati. Nel tempo ci siamo accorti che, con le esigue forze numeriche a nostra disposizione, forse abbiamo sottratto fuoco e fiamme alla nostra ricerca. Nel 2018 abbiamo detto stop, ritornando ad essere pura compagnia di produzione, dedita alla tournée, focalizzata sui propri desideri artistici e sull’incontro con i palchi e il pubblico. Non rimpiangiamo affatto questa scelta che ci ha riportati interamente sulla nostra missione, diremmo sulla nostra vocazione.
Avete sempre avuto un piede anche in Francia. Come e perché si è data questa cosa?
Mi sono formata a 19 anni al Théâtre de l’Epée de Bois, alla Cartoucherie, con il maestro Antonio Dìaz-Floriàn. Ho cercato con tutte le mie forze quel tipo di segno etico ed estetico, ho voluto fortemente costruire la mia identità teatrale in quel posto, con quelle persone, convinta com’ero che la festa del teatro potesse realizzarsi dentro ad una troupe, ossia con una progettualità lunga, lenta, condivisa. Quando io e Davide abbiamo scelto di costruire la nostra Compagnia, abbiamo trovato in quel teatro la casa madre da cui ricevere appoggio, coraggio, fiducia e spinta.
Va detto che abbiamo anche coprodotto alcuni lavori con il Théâtre de l’Epée de Bois, tra questi il nostro amuleto porta fortuna La Casa di Bernarda Alba, il Malato Immaginario e poi un Arrabal in tempi più recenti.
In generale negli anni il rapporto con la Francia è sempre stato denso, si è reso autonomo e differenziato, permettendoci di coprodurre, di realizzare progetti transfrontalieri e di portare i nostri lavori in molti teatri e festival autorevoli. E ci auguriamo che questo rapporto possa proseguire e rinvigorirsi, in Francia e in generale all’estero. Stiamo lavorando in maniera mirata per intensificare un processo di internazionalizzazione da sempre auspicato.
Fare teatro oggi, per chi lo fa da più di 10-15 anni ma non è ancora anziano significa riferirsi a mitologiche figure novecentesche di cui si è vista brillare la coda della cometa. I vostri lari della casa chi sono? E come si fa a scegliere chi illumina il proprio percorso come ispirazione?
I nostri lari sono pochi, alcuni vivi e altri morti, alcuni divorati sui libri e altri assorbiti ponendoci come colleghi e/o spettatori e/o allievi, tutti tra loro accomunati dall’essere stimolo alla creazionee alla riflessione. Citeremmo insieme in ordine confuso Jacques Copeau, Danio Manfredini, Ariane Mnouchkine, Antonio Latella, Louis Jouvet, Michele Di Mauro, Antonio Dìaz-Floriàn, Massimo Castri.
I maestri non sono divinità, sono colleghi che ami in maniera parziale e incontrollata, sono innamoramenti, scintille, la cui esperienza non è replicabile, agiscono per contagio. Non trattengono.
Siete sempre tenacemente aggrappati a un teatro di parola e di interpretazione, spesso confrontandovi con archetipiche figure del classico teatrale, fondamentalmente lontani da sperimentazioni tecno-digitali. Avvertite un gap generazionale nel vostro pubblico? Che effetto hanno le vostre scelte artistiche sulle giovani generazioni?
In Italia non esiste il pubblico! Non siamo un paese curioso. Siamo chiusi e diffidenti a priori, sennò non avremmo mandato al governo un clan di rozza gentaglia che della diffidenza ha fatto vessillo.
Generalizzando, intravediamo tre bacini: un’élite autoreferenziale di amici degli amici cosiddetti intenditori, il pubblico dei velluti e il pubblico del teatro commerciale. E non vi è relazione tra i tre. Purtroppo e nella maggior parte dei casi, la generazione degli attuali sessantenni-settantenni a capo delle grandi istituzioni (che gestiscono, orientano e maneggiano gli affari più grossi) non ha saputo essere curiosa e ambiziosa buttando lo sguardo oltre il breve fiato di una triennalità, e così mentre il mondo è cambiato alla velocità della luce, il teatro non ha rinnovato metodi e domande. E pubblico. E non ha intuito che la chiave della fiducia è nella condivisione del processo, a tutti i livelli. Quando si arriva al prodotto è già tardi.
Accanto a questa riflessione sul rapporto tra teatri e pubblico, vogliamo aggiungere, a titolo informativo e per doverosa trasparenza, che negli ultimi anni la Compagnia ha iniziato a coltivare con alcuni teatri pubblici delle belle collaborazioni, grazie alle quali sono nate alcune coproduzioni che stanno pian piano permettendo un’osmosi tra la Compagnia ed un certo tipo di pubblico e di cartellone.
Ma…
…Tornando alla domanda, non sappiamo proprio dirti se vi è un gap. Quando incontriamo gli spettatori, con cosa abbiamo a che fare? Spesso con teste canute o quasi se si tratta di stagioni; se parliamo di festival invece vediamo frequentemente amici, colleghi o coetanei che intrattengono relazioni con universi affini.
Ci chiediamo allora: perché una compagnia? Per tradurre i nostripensieri sulla vita, la morte, l’amore, secondo i modi che anno dopo anno mutano rispondendo ai nostri cambiamenti. E allora crediamo che l’unico modo autentico di affacciarsi ad una platea sia essere sé stessi, portare ciò che si ama, rivelarsi attraverso quell’atto creativo e tentare di dirsi qualcosa.
Scendendo nello specifico nostro, non ci ritroviamo in un teatro di parola e interpretazione, pur praticandoli come MEZZI in maniera diremmo ossessiva. Certo possiamo dire che la nostra carriera spazia dalla rielaborazione dei classici alla drammaturgia contemporanea. Ma ancora una volta questa sintesi affrettata onora un testocentrismo che vede l’autore sopra al resto. E invece uno spettacolo è fatto di tante parti del discorso e di tante competenze messe sul piatto. E l’anello di giunzione è, crediamo, l’attore, che cattura tutte le parti del discorso e vi gioca.
Per ogni spettacolo ci confrontiamo con gli ingredienti che servono a realizzare l’idea, il concetto, cerchiamo di far reagire tra loro degli elementi. Allora può capitare che la parola dialoghi alle volte con suggestioni video (come in Favola), o sia debitrice di visioni e soggettive rubate al cinema e all’opera (come in 1983 Butterfly) o si rivolga alla pittura (come accadrà in Cenci, nuova produzione 2024). Cerchiamo di creare narrazioni sensoriali, nelle quali la parola – strumento certamente primario di relazione tra umani – riverbera emozioni, amplifica simbolicamente la narrazione di fatti, non impone concetti. Proviamo a trasfigurare le drammaturgie come occasioni di presenza relazionale tra tutti i presenti in QUEL momento, in quella sala.
Potete dirci qualcosa di spietato su di voi? Qualcosa in cui non siete riusciti?
Tante cose.
1- Tanti anni fa abbiamo debuttato a Castrovillari con una prima versione di Atridi | Metamorfosi del Rito. Uno spettacolo registicamente non risolto, non riuscito. Nella sua prima versione la torta non uscì come doveva. E sappiamo tutti quanto questo sia frustrante. Fu un momento molto difficile per la Compagnia, giovane e naïf, che venne disapprovata con inutile durezza. Quell’evento ci mostrò che bisogna essere nei salotti giusti o aver maturato – paradossalmente – una certa anzianità per avere diritto all’errore, al confronto forte e costruttivo. E ci insegnò anche e soprattutto che mettere a fuoco il centro del lavoro è la prima condizione per trovare il metodo giusto e le condizioni adeguate per affrontare la dimensione di un lavoro.
2- non arriviamo a fine mese
3- iniziamo la creazione di uno spettacolo con le migliori convinzioni e, una volta nato, già ne siamo insoddisfatti, come se il tragitto tra l’inizio e la fine in qualche modo avesse preso una via a tratti autonoma.
E qualcosa in cui invece siete riusciti?
A non vendere il piacere di fare il nostro teatro.
La vostra creatura in cui vi siete compiaciuti? Il vostro spettacolo manifesto?
Forse HAMM-LET | Studio sulla Voracità. Sentivamo che, giorno dopo giorno, si stava creando il nostro linguaggio, il nostro gusto. Era impattante sentirlo nel corpo, nella testa di notte quando ripensavi alle prove della giornata.
E il prossimo?
Il vero spettacolo manifesto è quello che verrà, di cui ancora non sappiamo nulla. Si chiamerà CENCI_RinascimentoContemporaneo. Sul nostro sito ve lo raccontiamo meglio…