RENZO FRANCABANDERA | Si è tenuta il 15 marzo 2024 scorso nel Ridotto del Teatro Metastasio nell’ambito del progetto DA VIVI – il miracolo della finitezza, la conferenza sul tema Lasciar andare: memoria e racconto. Il pensiero e la parola a confronto con il distacco. Si tratta del quinto incontro, organizzato dal Teatro Metastasio in collaborazione con e a cura di Mechrí – Laboratorio di filosofia e cultura, all’interno del progetto “Da Vivi”, curato da Mario Biagini e Elisa Sirianni insieme a una serie di altre realtà del territorio che stanno sostenendo questo pionieristico percorso sul tema del fine vita, indagando le implicazioni etiche, poetiche, normative e sociali che stanno intorno a questo argomento centrale per l’essere umano.

L’incontro ha accolto in particolare gli interventi di Riccardo Conte (avvocato civilista, membro del comitato scientifico di Mechrì e del comitato scientifico della rivista di Magistratura Democratica Questione giustizia), Carlo Sini (socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, già docente di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano, direttore scientifico di Mechrí) Florinda Cambria (docente di Filosofia del Presente e di Filosofia della Storia all’Università dell’Insubria e di Filosofia ed Epistemologia alla Scuola di Psicoterapia Comparata di Genova, presidente di Mechrí, membro del Direttivo della rivista Nóema e dei Comitati scientifici delle riviste Mimesis Journal e Il Pensiero) e Tommaso Di Dio (autore, poeta, critico letterario e traduttore, membro del comitato scientifico di Mechrí).

Abbiamo avuto la possibilità di intervistare sui temi del suo intervento il professor Carlo Sini.

Nel corso dei suoi studi per molti anni lei si è occupato di segni, con particolare riferimento anche a quanto ci è arrivato dei nostri antenati preistorici. Secondo lei esistono ancora flebili tracce di quelle antiche ritualità con riferimento al tema della morte o la contemporaneità ha abraso totalmente quanto i progenitori poterono pensare su questo tema?

Mondo preistorico è una nostra espressione: quel mondo
ovviamente non sa di essere preistorico. Quindi si tratta di un oggetto dei nostri saperi paleoantropologici, archeologici ecc. Sulla base di segni e delle nostre plausibili interpretazioni cerchiamo di farci un’idea di quelle vite da noi remote; certamente non possiamo, oltre a costruirle come un oggetto di un sapere, anche riviverle.

Questo però non significa che una profonda e oscura catena vivente non continui a operare ancora in noi, dallo stupore curioso e pauroso dei bambini per il mondo animale alle feste, ai riti, alle fantasie napoletane per la liquefazione del sangue di San Gennaro giunte sino ai nostri giorni (si veda il bel libro di Daniela Lepore, Il corpo di Napoli, 2023), alle odierne danze e urla collettive nei cosiddetti concerti da stadio e così via.

La modernità teme più la morte di quanto non avvenisse prima del nostro tempo? È la vita ad aver acquisito troppo valore?

Non direi che la vita abbia acquistato troppo valore, se consideriamo che non abbiamo altro al mondo, comprese le fantasticherie sulla non vita. Quello che mi pare sia accaduto è la sempre più accentuata privatezza dei decessi. Per moltissimo tempo, da sempre, per quel che ne sappiamo, la morte era vissuta come un fatto pubblico, come un evento sociale, come un passaggio essenziale non del singolo ma di tutta la collettività. Di qui la spettacolarità rituale e sacrale della morte, con la partecipazione collettiva variamente e solennemente regolata. Oggi tutto ciò sta sempre più scomparendo. Ricordo ancora, quando ero un ragazzo, i portoni delle case di Milano ricoperti da un grande baldacchino nero e argento per segnalare che nell’edificio c’era un morto. Una cosa oggi inconcepibile. Si muore nelle cliniche, negli ospedali. Si libera il letto e buona notte.

Che sentimento ha lei personalmente con quello che accade dopo la morte? Come si è evoluto in lei nel tempo questo pensiero o questa convinzione?

Da quando ero giovanissimo non credo sensato pensare a una vita dopo la morte. Che tipo di vita sarebbe? A quale età saremmo inchiodati per l’eternità? Con quali compagni, quali sì e quali no? Una pura assurdità, solo a rifletterci. Naturalmente conosco le contorsioni teologiche cristiane per superare questi imbarazzi, il corpo di luce di Paolo, e poi Agostino e Tommaso e così via. Una cosa comprensibile, dato che la novità esclusiva ed esplosiva del cristianesimo fu proprio la promessa della vita eterna. Il che non toglie la sensazione di uno sforzo patetico per salvare la promessa dalle sue contraddizioni. Non mi aspetto rivelazioni dell’ultima ora: in quale lingua? Da parte di chi? Con quali argomenti? Non mi aspetto spiegazioni: quali mai? La vita basta a se stessa, disse Chaunchey Wright.

Quali sono secondo lei i segni che con maggior frequenza l’umano ha abbinato all’esperienza del fine vita e perché?

L’esperienza del nostro essere mortali accompagna ogni cultura, credo da sempre. Infatti ciò è connesso alle figure del nostro stesso sapere, fondato da sempre sull’arte della parola, del discorso, del racconto: è semplicemente questa arte a renderci mortali, cioè, come diceva Heidegger, capaci di morte. Un’arte che è iscritta nei segni del ricordo, cioè nell’arte di riportare al cuore ciò che non c’è più, il vissuto, ogni vissuto di partenza. «Ieri dicevamo…». Evocandolo, la parola dice che “ieri” è per sempre perduto: perduto perché detto, perché è saputo. Non c’è esperienza viva della morte: si muore agli altri, ha detto Gentile; la morte è un sapere, non un fatto, diceva Epicuro. Naturalmente questo sapere si è declinato nei modi più vari e suggestivi nelle innumerevoli società e culture del pianeta.

Per chi sopravvive, il rito del commiato pare essere un elemento centrale della pacificazione con il distacco. È uno dei pochi riti che ancora le comunità compiono e attorno alle quali si coagulano parvenze di aggregazioni familistico-sociali che altrimenti le società contemporanee hanno quasi cancellato. La morte è aggregativa oltre che partitiva?

I riti del decesso sono da sempre la difesa più efficace dal dolore causato dalla perdita delle persone care. Ho già ricordato che in passato questi riti erano collettivi e pubblici; oggi sono sempre più privati e personali. Questo non toglie affatto la necessità di fruire di commiati e di consolazioni da parte dei morenti e dei superstiti, in favore di coloro che devono poi elaborare la sofferenza del lutto. Non credo che essa sia oggi “diminuita” rispetto al passato; solo si esprime altrimenti, almeno nelle culture di tipo occidentale.

 

DA VIVI è prodotto dal Teatro Metastasio e sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Prato.

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