RENZO FRANCABANDERA | Mephisto è il titolo di un romanzo di Klaus Mann. Fu pubblicato la prima volta nel 1936 dalla Querido Verlag di Amsterdam, nazione dove l’autore si era rifugiato in fuga dalla Germania nazista.
Parliamo di una storia triste e che non finisce bene. E con questo alludiamo sia alla vicenda del libro che alla biografia dello scrittore. Già di suo non è mai facile essere figli di un premio Nobel con un conclamato successo. Questo porta di solito, nella vita dei figli, tantissimi complessi e anche velleità che quasi mai sono accompagnate da talento pari a quello del genitore che si vuole emulare. Se poi ci si trova a essere figli di uno scrittore ebreo in Europa ai tempi del nazismo, la faccenda assume un ulteriore grado di complessità. Se, infine, l’orientamento di genere si condensa in una natura omosessuale, già adesso in più di metà del mondo questa cosa sarebbe problematica: figuriamoci un secolo fa, quando in Germania si faceva presto a bollare esistenze e vicende umane come degenerate.
D’altronde, nonostante il talento del giovane Klaus, che fin dall’inizio degli anni ’20 pubblicava libri di racconti ed esercitava una scrittura critica su diversi giornali tedeschi prima dell’avvento di Hitler, la sua omosessualità lo porterà presto al conflitto anche con l’incombente figura paterna che, pur condividendo la stessa natura, l’aveva celata dietro scelte di convenienza sociale, cosa che evidentemente il figlio non aveva alcuna intenzione di fare.
Proprio nel 1936 Klaus emigrò negli USA, stabilendosi a Princeton, nel New Jersey, e poi a New York. Partecipò, poi, negli anni della Seconda guerra mondiale, arruolandosi nell’esercito USA, alla resistenza, e divenne cittadino statunitense nel 1943.
Ma, come anticipavamo, questa storia non finisce bene: Klaus Mann morì suicida, per overdose di barbiturici, a Cannes nel 1949. Proprio nel 1936, anno della sua fuga negli USA, pubblicò Mephisto, il romanzo che ci interessa ai fini di questa riflessione, perché oggetto di numerosi riadattamenti, fra cui uno filmico celebre del 1981 diretto da István Szabó, e oggi anche in Italia quello teatrale, per la regia di Andrea Baracco, di cui intendiamo appunto parlare. Peraltro, anche le vicende legate al romanzo, riadattato per la scena dallo stesso Baracco insieme a Maria Teresa Berardelli, non furono meno rocambolesche e sfortunate della vita di chi lo aveva scritto.
Il protagonista è Hendrik Höfgen, un attore, ma in realtà è il ritratto letterario caustico e satirico della vicenda umana e professionale dell’amico, e poi cognato, Gustaf Gründgens, che fu marito della sorella di Klaus Mann, Erika, fra il 1926 e il ’29. Non è certo una scelta facile scrivere un libro prendendo di mira il talentuoso, ma vanitoso e opportunista (ex) cognato: costui, quando Adolf Hitler salí al potere, si convinse, in cambio di nomine e carriera in importanti teatri tedeschi, ad adattarsi al nuovo regime, diventando anche uno degli artisti preferiti di Hermann Göring, praticamente il maggior corresponsabile, con Hitler, dell’indirizzo politico criminale del nazismo.
L’ambizioso artista, così come il protagonista della vicenda romanzata, abiurerà gli ideali giovanili, rassegnandosi, in cambio di potere e visibilità, alla eliminazione di tutte le sue amicizie prossime, da quelle amicali a quelle (omo)sessuali. Ma il romanzo, forse, sarebbe stato dimenticato se non fosse che il figlio adottivo di Gründgrens, a guerra finita, intentò causa per proibirne la ristampa, dopo la prima edizione tedesca nel 1956. Dopo una battaglia legale durata sette anni, la Corte Costituzionale tedesca bandì l’opera, con il voto di tre giudici contro tre. Praticamente in Germania si è dovuto aspettare il 1981 (anno di uscita del film) per avere la ripubblicazione del romanzo a cura di un altro editore, su cui non ricadeva la sentenza precedente, e contro il quale non fu intentata alcuna nuova causa.
Venendo, quindi, all’allestimento scenico di Andrea Baracco, uno degli artisti che compone la direzione artistica di MAT, Movimenti Artistici Trasversali, sodalizio toscano erede dell’antico progetto del Teatro Del Carretto, il regista gioca dentro una macchina scenica che sviluppa teatri nel teatro come in un gioco di matrioske, frutto di un interessante lavoro scenico a opera di Marta Crisolini Malatesta e Francesca Tunno, che lavorano bene anche sui costumi, e del bellissimo disegno luci di Orlando Bolognesi. Dietro il primo sipario ce n’è un altro, che ha la platea rivolta verso la scena, in stile Cinema Cielo, e questo diventa il teatro verso il quale si rivolgono gli attori quando raccontano il loro recitare per professione. Noi spettatori li vediamo come se fossimo nascosti dietro una tenda a fondo palco.
Bolognesi, oltre ad assecondare questi molteplici campi, dispone quasi in proscenio una serie di piantane con fari a vista e poi altri tagli luminosi trasversali capaci di creare una molteplice serie di ambientazioni emotive, che vanno dal calore iniziale della vita allegra e combriccolosa del giovane teatrante, con amicizie comuniste e amori trans, al suo evolvere fino al tradimento di questi rapporti umani, e al suo abbraccio con il potere (indimenticabile la risoluzione video che Baracco sceglie – avvalendosi della proficua collaborazione di Luca Brinchi e Daniele Spanò, per questo momento dello spettacolo, quando fa finire l’attore che interpreta il protagonista, un profondo e perturbante Woody Neri, peraltro di nero vestito, fra le mani plaudenti di un gerarca nazista proiettato gigante a fondale).
Non è l’unica proiezione e nemmeno la più dura da vedere, considerando che di lì a poco verrà raccontato dell’incontro del teatrante, comunque sfiorato dagli scandali sulle sue amicizie omosessuali, niente meno che con Hitler. Il suo sembiante, proiettato e leggermente mosso con qualche artificio da intelligenza artificiale, ha qualcosa di dolorosamente inquietante, che non può lasciare indifferenti e rende quanto mai attuale, pur nella storicizzazione iconica, tanto la vicenda di Mann, quanto del suo romanzo trasposto per la scena.
L’esito teatrale è affidato, oltre che all’interpretazione di Neri, anche a una vorticosa coralità, di cui si fanno assai validi interpreti gli altri attori in scena, Ian Gualdani, Anahì Traversi e Giuliana Vigogna. Lo spettacolo, che ha debuttato di recente a Viareggio al Teatro Jenco, e che ora prosegue con una serie di repliche di circuitazione e rodaggio, è un lavoro di pregio, assai potente sia dal punto di vista scenografico che registico-interpretativo, affidato a una compagine giovane, ma robusta, capace di intonare in modo accurato la satira sociale sottostante il testo. Soprattutto, riesce ad attualizzare quel modo opportunista, ambiguo, spietato che si dà nei cambi di potere, quando esiste sempre quella parte della società che, abiurando i valori in cui è nata, abbraccia per sete di potere o di gloria le ragioni dei regimi, spesso fino a conseguenze disumane.
È un tema questo di stretta attualità, che vorremmo sempre considerare come riservato alle nazioni in cui il concetto di democrazia è più lasco, ma che in realtà riguarda anche le nazioni con una storicità della democrazia parlamentare più consolidata. Mai come in questo momento, messe sotto scacco dalla comunicazione social, sembrano fragilissime e pronte a trasformarsi in simil-dittature, violente e autoriferite, con esiti imprevedibili.
Questo Mephisto, quindi, brucia, è veramente caustico: è ben diretto, scenicamente risolto e ben interpretato.
Da programmare.
MEPHISTO
Romanzo di una carriera
di Klaus Mann
adattamento Andrea Baracco e Maria Teresa Berardelli
regia Andrea Baracco
interpreti Ian Gualdani, Woody Neri, Anahì Traversi, Giuliana Vigogna
voce dell’autore e voce di Amleto Lino Musella
ideazione Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta, Francesca Tunno
suoni e musiche Giacomo Vezzani
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
disegno luci Orlando Bolognesi
produzione MAT
13 marzo 2024 | Teatro Jenco, Viareggio