RENZO FRANCABANDERA | Sarà senza dubbio una delle più giovani direttrici artistiche in Italia, alla guida di un teatro così grande come il Teatro Fontana di Milano e inserito in un circuito di carattere nazionale come quello di Elsinor, Ivonne Capece, annunciata al nuovo ruolo in una conferenza stampa di poche settimane fa.
Dopo gli anni impegnati nella costruzione del progetto bolognese (S)blocco5, insieme alla visul artist Micol Vighi, da cui è nata anche una scuola di teatro, e nel Festival Lucy, rassegna di teatro e arti performative technologically oriented, ecco ora l’opportunità per l’artista di prendere la direzione artistica di una realtà che negli ultimi anni, grazie anche alla precedente direzione di Rossella Lepore, era molto cresciuta per pubblico e programmazione, diventando davvero un punto di riferimento per la prosa d’autore (classica e contemporanea) in dialogo con stimoli registici particolari.
Impossibile elencare chi è passato di qui in questi ultimi anni, ma sicuramente, esclusi i grandi teatri di rilevanza nazionale del capoluogo meneghino, inconfrontabili per risorse e spazi, il Fontana è stato nell’ultimo decennio uno dei luoghi di maggior sperimentazione sulla prosa nella città.
Certamente l’avvicendamento porta una ventata di novità importante, proponendo, come succede anche negli stabili, un’artista alla direzione artistica, considerando che Capece è regista e performer lei stessa.
I milanesi, che hanno già potuto vedere alcune sue recenti regie nella programmazione del Fontana della passata stagione, il 20 e 21 aprile potranno assistere alla performance omaggio alla visioni del genio di Derek Jarman e al suo capolavoro cinematografico Blue, film sulle ultime fasi della sua malattia.
La creazione, che prende il nome dell’artista e che vede la stessa Capece in scena insieme a Giulio Santolini, è stata anche finalista a Biennale College Teatro 2021 a Venezia, e si avvale, grazie alle cuffie wireless con cui si fruisce lo spettacolo, di un’ntensa parte sonora realizzata da Simone Arganini: è una riflessione sull’uomo, vittima e carnefice del suo stesso stare sulla terra, ma anche uno spettacolo sulla malattia, sull’HIV, sulle epidemie lecite e illecite, sull’omosessualità, sulla lotta per i diritti civili e sugli atti creativi come forme di resistenza.
Sul come intende interpretare il nuovo ruolo, ma anche sulla sua personalità artistica e umana, abbiamo intervistato Ivonne Capece.
Nel panorama italiano sei una delle poche persone alla direzione artistica di un teatro di questo calibro anagraficamente under 40, e fra le pochissime donne. Questo significa qualcosa per te? È un tema su cui riflettere o è un tema su cui si parla troppo e si fa poco?
Sicuramente hai ragione nel dire che la scelta di Elsinor ha qualcosa di atipico in Italia. In questi giorni sto chiacchierando con tanti artisti, anche importanti e già affermati, della mia generazione e tutti mi dicono, con molto entusiasmo, una cosa che trovo significativa: è molto incoraggiante condividere le idee con una direttrice artistica nuova, della stessa età, con cui è possibile avere un dialogo alla pari – cioè tra persone della stessa generazione – cercando di costruire insieme un percorso possibile.
Più in generale, non vorrei mettere l’accento né sul mio essere donna né sulla mia età. Voglio porre l’attenzione sulle capacità che una persona può possedere o che ha creato nella sua carriera. La giovinezza come il sesso sono forse semplicemente un privilegio, perché ti permettono di vedere le cose da prospettive diverse. Penso che il nostro sia un tempo di opportunità, perché come tutti i momenti di forte crisi è anche un momento di rottura.
Mi piacerebbe lavorare su questa rottura e prendermi cura del teatro che mi ha accolto e voluto, da tutti i punti di vista: artistico, distributivo e produttivo. Il teatro attualmente non è un sistema inclusivo. Pensa alla logica stringente delle selezioni per le accademie di recitazione, le uniche tra tutte le categorie di arti e studi ad accogliere un numero ridicolo di allievi; né le università a numero chiuso, né le accademie di Belle Arti hanno numeri così bassi di iscritti: poche classi da 15/20 persone con pochissime scuole distribuite sul territorio nazionale.
Già questo ci fa capire che “fare teatro” non è considerato in Italia una possibilità tra le altre, ma un “privilegio”. Chi riesce a studiare recitazione in modo professionale è un privilegiato, più di chi vuole studiare in modo professionale matematica o fisica. Una logica che ha dell’incredibile. L’esclusività del teatro, prima che sul sesso e sull’età, si manifesta in modo alquanto singolare già sul piano della formazione.
Ti aspettavi questa chiamata dal gruppo di lavoro di Elsinor? Che caratteristiche di affinità ti legano a questa squadra e cosa pensi che il management di Elsinor abbia visto in te?
Ho iniziato facendo esattamente ciò che tanti artisti in questo momento stanno facendo con me: inviare una mail con un video di presentazione di una mia regia. Con ammirazione posso dire che Elsinor, nella figura della direttrice uscente, Rossella Lepore, ha mostrato un’accoglienza e un ascolto della mia sensibilità artistica che non ho ritrovato in persone e luoghi a me più vicini, e che avrebbero potuto conoscermi di più, dimostrando un’apertura verso “una sconosciuta” che in questo settore è rara. Non per amicizia o parentela o affinità ideologiche o politiche ci siamo incontrati, ma perché lei mi ha aperto la porta dell’ascolto senza chiedermi in cosa credevo, chi amavo o chi votavo. Questo è un grande gesto politico. Scegliere per merito.
Sono molto felice di questo incarico, che è di grande responsabilità, ma anche di grande bellezza, e spero che Elsinor abbia visto in me una manager capace di accompagnare il Teatro Fontana nel futuro.
Sei una direttrice, ma anche una regista, un’interprete. Questa cosa negli anni per molti teatri anche nazionali è stata ragione di conclamati conflitti di interesse e alcune derive patologiche del sistema di produzione. Si può fare direzione artistica mantenendo le mani pulite o invece è proprio lo sporcarsi le mani la cifra del lavoro che va fatto?
Dal punto di vista pratico, Elsinor è un centro di produzione che ogni anno dà supporto economico e progettuale a tantissimi artisti, solo quest’anno riesco a contare almeno nove progetti produttivi che vedono il supporto di Elsinor, da Come gli uccelli a La Ferocia, che hanno riscosso un’attenzione di critica e pubblico notevoli, o artisti che fanno parte della tradizione di Elsinor, come Michele Sinisi, fino a progetti sperimentali o legati a artisti più giovani, come Caterina Filograno, Giovanni Ortoleva, la Compagnia Biancofango. Questo ascolto di voci multiple proseguirà anche nei prossimi anni, e naturalmente tra questi ci sarò anch’io: perché non dovrei, se sono un’artista come loro?
La tua vera domanda è sul potere e sul controllo: è possibile staccare l’essere umano dal suo ego? Una riflessione molto più profonda che affonda le sue radici nella vita di tutti noi, nella politica e non solo nel teatro. L’accesso alle risorse non dovrebbe trasformarsi in un monopolio assoluto di quelle stesse risorse. Il problema non è essere direttori e artisti. Il problema è credere di essere i soli artisti, insieme a pochi altri, su cui valga la pena di investire.
Se dovessi distillare le cose che ti fanno scegliere un progetto, uno spettacolo da proporre agli spettatori, quali indicheresti come quelle di maggior rilevanza?
La tua vita precedente ti ha vista molto impegnata in un’altra geografia, quella emiliana, a cui peraltro sei molto legata. Dovrai tagliare il cordone ombelicale con (S)blocco5 o pensi sia possibile che sopravviva come esperienza. E se sì, come?
(S)blocco5, in effetti, non è un luogo e non è una compagnia – anche se nel tempo è diventato l’uno e l’altra insieme: è un contenitore in cui ho messo la mia visione poetica in questi anni. Una visione in cui la formazione e la ricerca hanno avuto un’importanza determinante. Oggi (S)blocco5 è un centro di formazione prezioso, non solo per la comunità di giovani bolognesi che si avvicinano alle arti performative, ma per me stessa, che posso tornare lì per raccogliermi nelle mie riflessioni nel silenzio della mia casa e dei luoghi che più profondamente conosco, quelli che mi hanno vista nascere come artista. Sicuramente qualcosa nella sua struttura dovrà essere modificato, perché possa procedere il suo cammino anche senza la mia presenza costante, ma farò del mio meglio perché continui a esistere, e crescere insieme a me.
Qualche giorno fa un’allieva mi ha detto: «Sono tanto orgogliosa di te, ma sono disperata all’idea che questo luogo potrebbe non esistere più», io ho sorriso e le ho detto che questa cosa non accadrà mai. (S)blocco5 è ormai un grande punto di riferimento per i ragazzi che a Bologna vogliono avvicinarsi al mondo del teatro e sviluppare degli strumenti preparatori ad affrontare i percorsi accademici più strutturati; tantissimi ragazzi che oggi fanno teatro hanno iniziato a (S)blocco5, e questa presenza è una speranza di inizio che è radicata nella coscienza della città e che estirpare sarebbe un danno enorme. Quello che vorrei è realizzare un ponte, un dialogo sempre più fitto e costante tra Milano e Bologna, che possa diventare il dialogo tra due realtà affascinanti e profondamente diverse.
Quali sono le cose della tua persona che, senza inutile celia e falsa modestia, ti hanno portato a essere dove sei oggi?
Grande resistenza fisica ed emotiva: nello studio, nel lavoro, nei rapporti interpersonali. Non è un mestiere che lascia spazio alle fragilità, non è un mestiere che lascia il tempo alla paura e al dolore. Se vuoi affrontarlo, devi chiuderli fuori dalla stanza. Non devi temere le ferite, perché arrivano da tutte le parti. Non devi temere la fatica e non devi perdere tempo. Cosa mi ha portato a essere dove sono? Una forza di volontà enorme. Non mi interessano le porte chiuse: sono come l’acqua, filtro attraverso le fessure.
Milano. Era un tuo sogno o non ci pensavi? E ora, come ti sembra vista da dentro?
Non ho mai pensato a Milano, anche se gran parte della mia famiglia d’origine vive in questa città. Ma non avevo neppure mai pensato a Bologna quando mi ci sono fermata per farne la base del mio futuro, mentre tutti gli amici che ci vivevano e ne decantavano le doti se ne sono andati. Io non avevo mai pensato di restare a Bologna e invece è diventata la mia terra, una parte fondamentale della mia identità artistica. Non avevo mai pensato a Milano finché Elsinor non mi ha proposto la direzione del Fontana, amo i luoghi piccoli e sul mare. Però l’esistenza del Fontana fa diventare possibile quella di Milano, così come l’esistenza di Sblocco5 ha reso indispensabile l’esistenza di Bologna.
É una cosa molto emozionante pensare che non sono i luoghi, ma i sogni a rendere quei luoghi indispensabili ai nostri occhi, a donargli o negargli la bellezza, a concedergli il nostro desiderio. Detto così sembra iperbolico, però è la verità: amo Milano perché è il luogo in cui il Teatro Fontana esiste.
Finiamo sull’artista Capece, figlia d’arte peraltro. Hai legato il tuo nome e la tua esperienza in scena all’utilizzo della tecnologia. Eppure, il tuo stile di direzione e recitazione ha qualcosa di profondamente espressionista. È possibile un espressionismo digitale? Non è una contraddizione proprio nell’epoca in cui l’intelligenza artificiale prefigura il transumano?
Proprio a Milano tempo fa vidi una mostra molto famosa di Bill Viola, che come saprai si chiamava Rinascimento Elettronico: è una delle cose più rinascimentali che abbia mai visto in vita mia. La tua definizione “espressionismo digitale” è davvero suggestiva, d’altronde non avrebbe potuto essere altrimenti, essendo un artista visivo anche tu. Mio padre è un pittore professionista, sono cresciuta tra le tele, i musei e i colori a olio, e questo incide nelle suggestioni estetiche dei miei lavori, che hanno sempre qualcosa di pittorico prima di tutto, nel senso del “non reale”, del figurato.
Per questo anche la mia direzione degli attori (e quando sono in scena io, anche la mia recitazione) non punta mai al realismo, alla verosimiglianza dei sentimenti: gli attori sono sempre “figure” del reale, espressioni di un occhio interno che non è mai affascinato dalla riproduzione verosimile del mondo.
Hai ragione a definire espressionisti i miei lavori, perché cercano sempre di dare immagine a moti che sono all’interno di me con l’intento di trasmettere uno stato interno, più che un contesto. Io sono molto affascinata da quello che tu definisci il transumano, che non è negazione dell’essere umano, ma estensione dell’essere umano a ciò che non lo è: uno strano trionfo dell’umanesimo che prende la direzione contraria, che non ha più bisogno dell’uomo per esprimersi.
Imprimere nella meccanica della materia inerte la struttura del ragionamento umano, perché diventi capace di ragionare autonomamente secondo i nostri schemi emotivi. Non c’è niente di più espressionista del digitale, dell’organizzazione concettuale della pura luce (lo schermo non è altro che luce organizzata) al fine di evocare evidentemente un mondo emotivo interno alla mente, con possibilità di narrazione espressiva infinita. Arriverà, forse un giorno, anche un espressionismo del transumano: la capacità artistica di esprimere il nostro mondo interno senza bisogno di noi. Un’opera d’arte potrebbe non avere bisogno della mano di chi la crea?