SOFIA BORDIERI* | A Scenario Pubblico è iniziato il nuovo ciclo di residenze coreografiche inerenti al bando ACASA 2024/25. Il progetto del CRID catanese si propone di sostenere il percorso creativo di coreografi e coreografe over 30 che operano in un contesto legato alla contemporaneità. Per tre settimane di marzo la sala White Box ha ospitato il primo artista selezionato, il danzautore abruzzese Nicola Simone Cisternino, che abbiamo incontrato alla fine della sua residenza.
A Firenze, dove vive da più di quindici anni, si è formato presso l’Opus Ballet entrando a far parte della compagnia giovanile dopo il biennio di formazione. Tra le autrici e gli autori con cui ha lavorato ci sono Abbondanza Bertoni, Cristina Kristal Rizzo, progetto Kinkaleri, Company Blu, compagnia Anton Lachky, Silvia Gribaudi. Il suo percorso artistico è stato segnato dall’incontro con Massimiliano Barachini ed Elena Giannotti, nonché da Virgilio Sieni e Loris Petrillo, coreografi con cui continua a collaborare. Nel 2016 crea il collettivo Sa.Ni. con la danzatrice Sara Sguotti, insieme a Luca Zanni e Maria Vittoria Feltre ha creato il gruppo di ricerca Frames.
Il suo ultimo lavoro My Lonely Lovely Tale (lo abbiamo visto alla Fabbrica del Vapore a Milano, ne parliamo qui) è stato selezionato da NID Platform 2021 nella sezione Open Studios.1.
Il tuo lavoro è una combinazione tra l’essere performer e autore. Quando hai sentito l’urgenza di creare?
In questo momento della mia carriera spesso mi interrogo sul significato di essere interpreti, creatori, autori di sé stessi. Mi ritengo principalmente un performer al quale piace andare più a fondo pertanto considero l’atto del creare come forma di indagine. Non sento di aver fatto un passaggio definitivo verso l’autorialità, il bisogno di creare è subordinato al bisogno di indagare le forme del linguaggio, della comunicazione. Mi piace che ci sia ancora un intermezzo in cui la creazione ha uno scopo soprattutto di ricerca performativa.
Nel lavoro da danzatore hai sempre sentito di avere questa libertà “autoriale”?
Non ho mai avuto una fisicità “canonica” quindi ho dovuto adattare il mio modo di lavorare e questa modalità mi ha portato a una forma di “autoraggio” personale. Oggi il mondo della coreografia è comunque più incentrato sul dialogo con l’interprete, il danzatore o il performer, è più facile indagare le proprie volontà, intenzioni e interpretazioni creative. Infatti, ammetto che a oggi non rientrerebbe tra i miei interessi l’adesione a una costruzione fissa e formalizzata da parte di un coreografo, credo che questa direzione della danza sia una branca di mezzo della contemporaneità in cui la ricerca, così chiamata, chiede di mettere in gioco la propria personale interpretazione. Personalmente i miei progetti di indagine nascono sempre da una ricerca, appunto, e poi si sviluppano in una teatralità e forma scenica con l’obiettivo di comunicare.
Qual è la tua definizione di coreografia?
Credo che parliamo di coreografia quando c’è la ripetibilità dell’intento che va al di là del linguaggio e del segno scelto per essere portato in scena. In altre parole, quando viene strutturata una lingua e il messaggio trasportato, intriso del suo contesto, può essere ripetuto. La questione comunque, nella sua complessità, rimane sempre aperta. Nel mio processo parlo di coreografia perché sono comunque legato a un segno del corpo, ricerco un’estetica e una formalità. Un’altra mia indagine sul tema è la differenza tra sensibilità e concettualità. Rimanendo allacciato alla danza, la coreografia è legata al senso più che al concetto, è qualcosa che viene ricevuto dai sensi. Credo, infatti, che chiunque si interroghi sul movimento a un certo punto passi dallo scoglio di voler tradurre pensieri drammaturgici in movimento e capire quali sono i limiti che sono allo stesso tempo la forza del non verbale. È la percezione di una concretezza, legata a una parte del cervello più antica, a una sensibilità che è un messaggio più ampio che può essere colto e spesso non può essere razionalizzato in parole. Il linguaggio danzato attraversa aspetti sociali e culturali ma non è solo vincolato da essi: per il suo essere non descrittivo produce talvolta nuovi segni.
All’interno delle tue indagini percepisci un archivio di movimenti, gesti, posture, andamenti cui senti di attingere?
Da performer mi chiedo come mai qualcosa comunica più di altro? Nel mio percorso ho lavorato con persone come Virgilio Sieni, autore di un linguaggio estremamente significativo, o Elena Giannotti e altri che mi hanno mostrato quanto complessa sia nella percezione l’interazione tra i tratti fisiologici, estetici, somatici e milioni di altri possibili segni. Questa vastità è uno dei motivi che mi spinge a fare coreografia. Nei miei progetti si tratta ogni volta di accumulare un archivio di gestualità, pensieri, sensazioni, fisicità che per me rimandano a qualcosa di specifico. In questo momento la mia ricerca coreografia si incentra molto sullo scoprire quale archivio di gesti, pose e movimenti sia più aderente alla formulazione di un mio vocabolario. In generale agiamo per imitazione e basta poco per entrare in una linguistica assimilata in maniera inconscia. Bisogna mettere in discussione il proprio linguaggio a partire da ogni singolo elemento. L’autore per me non deve domandarsi cosa debba fare perché funzioni, bisogna partire dalla domanda: cosa sento di voler fare? Poi serve la sincerità di farlo con il corpo.
Puoi dirci qualcosa sul tuo nuovo progetto ROI?
Prima di arrivare a Scenario Pubblico avevo già fatto quattro giorni di residenza con Elena Giannotti che cura la drammaturgia del progetto, con cui ho iniziato un lavoro di brainstorming per questa performance sul concetto del re. Precedentemente avevo fatto un “negativo” su questa figura, avevo cioè cambiato prospettiva per mettermi nel punto di vista dello spettatore, della persona del pubblico che aspetta che arrivi l’evento, che arrivi il re. Queste due cose avevano già introdotto significati e sensi prima di arrivare a questa residenza che è il primo blocco di studio fisico. In questo momento non ho idea di cosa sarà. L’opera inizia a staccarsi e rimane ambigua a sé stessa, ha un cuore pulsante e diventa indipendente anche da me e io stesso non so più come definirla. Questo, secondo me, è uno sviluppo “fisiologico” che riconosco come giusto.
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.