MARIA PAOLA ZEDDA | A Zurigo gli Swiss Dance Days hanno restituito singolari visioni della danza svizzera, rilanciando l’appuntamento biennale, quest’anno a marzo, con presenze di rilievo internazionale e lavori di grande interesse.
La piattaforma della danza svizzera promuove le creazioni coreografiche prodotte nell’area elvetica, offrendo una riflessione sul ruolo delle istituzioni nel sostegno della ricerca artistica. Una commissione composta da curatrici, artisti, programmer – Joanna Lesnierowska, Laurence Perez, Simone Truong, Laurence Wagner, Emanuel Rosenberg – ha operato una selezione transgenerazionale che guarda alla coreografia come specchio della complessità del mondo in cui viviamo.

Quindici i lavori presentati nel programma, cui si aggiungono i Salons d’Artistes, momenti di dialogo, confronto e pitching dove autori emergenti che necessitano di un sostegno produttivo vengono presentati agli operatori internazionali. L’attuale edizione ha visto presenti Ernestina Orlowska, Catol Teixeira, Juliette Uzor, Muhammed Kaltukd.

Tra le presenze emerge Alexandra Bachzetsis, coreografa di origini greco-turche, di base a Zurigo. La sua ricerca affonda in una sensualità torbida, in un linguaggio erotizzato ed erotizzante che guarda ai codici del BDSM, non solo come a elementi di seduzione, ma anche come a metafore di una violenza, meno esplicita ma non meno profonda, insita nelle relazioni sociali e personali quotidiane quanto nel linguaggio performativo e nel lavoro dei corpi della scena.

2020 Obscene, ph. Melanie Hofmann

In 2020: Obscene, lavoro presentato a Zurigo, Bachzetsis appare nel suo corpo scultoreo e seduttivo, assunto nella consunzione, dominatrix che non concede nulla all’abbandono e al passaggio del tempo, piuttosto lo esplicita, ci gioca, lo domina, lo piega. Disciplina del rigore, come lo sono la danza e la coreografia, atti di determinazione dello sguardo, del campo di azione, della durata. 2020: Obscene infatti indaga l’ambiguità semantica tra scena e osceno e, in particolare, con le parole dell’autrice “la relazione tra la messa in scena del corpo eccedente e il suo consumo da parte dello sguardo bramoso e della testualità opprimente”.

Da un lato, il lavoro esamina i problemi del teatro come macchina di manipolazione per quanto riguarda la seduzione, l’attrazione e i giochi di identità sessuale; dall’altro, esplora il corpo performativo stesso come luogo di alienazione e limitazione dell’essere umano. L’opera, quindi, non solo mette in discussione il sovversivo e il normativo nella performing art, ma si rivolge anche alla comunicazione attraverso l’eccesso come interruzione radicale di formati, gesti, modelli culturali e archetipi.

2020 Obscene, ph. Melanie Hofmann

Nella scena, costituita da accese superfici viniliche, entrano diversi piani di visione e di consumo mediatico: l’uso di set di moda e televisivi rimanda a un apparato brechtiano, alla spietatezza realista di John Cassavetes o ai paesaggi torbidi di Nicolas Windning Refn, ma anche ai dispositivi social dell’erotismo fatto in casa di OnlyFans. Le immagini proiettate in diretta sono confessioni mediatiche, giochi pericolosi a tre e a quattro, in un’architettura di ammiccamenti che si svolge su un catwalk rilucente, dalle tinte infuocate di rosso, giallo, fucsia, con costumi di lattex e pvc, che giocano con la scena, sfondando la parete, riverberandola in giochi di luci e assonanze, mimetizzandosi in essa.

Il corpo, il tempo, la seduzione sono esposti con una violenza chirurgica, fredda, crudele. La seduzione sadomasochista qui appare come invito a sostare nelle pieghe del perturbante, a sottrarsi alla banalizzazione del perbenismo, nella ricerca di un femminile che si autodetermina, attraverso il culto di un rigore che non concede spazio alla norma e che attiva – nel farsi e disfarsi di un corpo senza organi – una costruzione costante del sé, come esercizio e metro disciplinare di dominazione della genetica.

Altro lavoro a emergere nel programma è SACRE!, diretto di Teresa Vittucci e Annina Machaz, realizzato in collaborazione con Theater HORA, teatro di Zurigo riconosciuto a livello internazionale per il suo importante lavoro con persone con disabilità intellettive.

A La sagra della primavera (Le Sacre du Printemps), celebre balletto del 1913 con le coreografie di Vaslav Nijinskij e con le musiche di Igor Stravinskij, è dedicata la performance. Una bocca, una vagina, un ano solare, una grotta – un rimando al mito di Platone, forse – , un orifizio da cui entrano ed escono corpi, domina la scena. Denti come stalattiti pendono dai lati, una lingua rosa si allarga sul pavimento. L’origine del teatro e della coreografia convergono in una “danza alla rovescia” dove protagonisti sono i corpi e le partiture composte ed eseguite dai performer in scena. Corpi anarchici, fuori da ogni codice, come lo fu al tempo la grande rivoluzione che Nijinskij portò al corpo della danza classica in questa coreografia.

SACRE! ph Philip Frowein

Chi dovrebbe essere sacrificato? E soprattutto: chi non dovrebbe? Questa la domanda che sottende il “reenactment”, in una nuova scrittura scenica, disarmante, umoristica, vitale e perturbante, dove la storia del sacrificio di una giovane donna che danza drammaticamente fino alla morte viene stravolta. Sono ripresi alcuni cenni della coreografia originaria nelle scosse elettriche, nelle partiture gestuali delle mani, irriverente e sapiente atto di rimandi, che gioca con il repertorio senza celebrarlo. La primavera si rivela nel suo aspetto terrifico, violento, disarmante. Ci chiediamo se sia robot o dea e ci interroghiamo sulla natura di questo rituale, che tra artigli, canini, e organi fuori posto, riverbera una energia sorgente, punk, gioiosa e furiosa insieme, mentre un dito fantasma si aggira per il palcoscenico. L’intero è rotto, siamo fuori e oltre la pretesa di un possibile ritorno all’unità del corpo, dello spazio, del rito

SACRE! ph. Philip Frowein

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Il tema della disabilità in scena e per la scena è affrontato anche dal coreografo Alessandro Schiattarella, seppur in uno spazio con alcune complicazioni, in Zer-Brech-Lich, traducibile con Fra-Gi-Le, un lavoro sui punti di rottura, dove tre interpreti con disabilità fisiche, a volte apparentemente impercettibili – Victoria Antonova, Alice Giuliani e Laila White – intraprendono un personale statement interrogandoci sulla normatività dello sguardo nei confronti dei corpi non conformi. Una performatività ad alta tensione dispone il pubblico sulle soglie del pericolo, sui crinali della percezione, avvicinandolo alla potenza non subordinata e non subordinabile delle performer nell’esposizione della loro fragilità, che qui innesta una relazione vibrante, erotica, politica, con la materia dei corpi.

Di altra temperatura la proiezione dello spettacolo di Cindy Van Acker Without References in collaborazione con il gruppo giapponese Goat, con il regista teatrale italiano Romeo Castellucci e undici danzatori. In un assetto algido, la coreografa svizzera mette in campo una riflessione sulla temporalità, indagando un assetto performativo e coreografico che incrina il tempo e l’unità dello spazio, attraverso una partitura di effrazioni, slittamenti, accenti e disallineamenti percettivi secondo una trama di tracce, echi, asincronie.

Without References, ph. Magali Dougados

La programmazione è stata puntellata da lavori di grande intensità che raccolgono la vividezza della scena svizzera contemporanea, grazie all’acutezza e alla sensibilità di una commissione che ha saputo restituire nel programma momenti di accensione, rigore, intensità, inclusione, con cura delicata e vitale. Tra questi non possono essere dimenticati l’esuberante e intenso lavoro Open/Closed di Pierre Piton, il vibrante e politico catwalk performativo Monkey off my back or the Cat’s Meow Dancers di Trajal Harrell composto per il Schauspielhaus Zürich, la grazia coreografica di Efeu di Thomas Hauert, e il brulicante Présage di Élie Autin.