CHIARA AMATO* | Dopo molti anni dal suo debutto, torna a Milano, sul palco del Teatro della Contraddizione, lo spettacolo ‘A Cirimonia, drammaturgia di Rosario Palazzolo.
In scena due personaggi indefiniti, ‘U masculu (interpretato inizialmente da Palazzolo stesso) e ‘A fimmina (Anton Giulio Pandolfo), sono immersi in un u-topos senza tempo: in mutande rovistano in una pila di abiti abbandonati, quegli stessi abiti da indossare per rivivere la cerimonia per l’appunto, che avviene uguale tutti gli anni lo stesso giorno. ‘Ma quale è questa cirimonia?’ Ossessivamente i protagonisti si domandano e si sforzano, attraverso il gioco ‘u Mi ricordu, di giungere a verità: chi siamo, cosa festeggiamo, perché dovremmo essere festosi? I loro volti coperti di cerone e logorati dalla stanchezza della vita, ricordano due vecchi clown che cercano un tempo che non esiste più (richiamano alla memoria i felliniani Ginger e Fred), ripetendo convulsamente un rituale nel rituale, che però è senza uscita.
Ulteriore elemento che detta il ritmo di questo spettacolo, è il progetto musicale, di Gianluca Misiti: la reiterazione della canzoncina infantile -nel buio di una scena illuminata solo da tre punti luce blu-, la loro canzone d’amore e le voci fuoricampo (Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo), che annunciano accadimenti nefasti, creando angoscia in sala, come solo i vecchi carillon sanno fare.
Non si arriva alla verità che inseguono, perché inafferrabile, ma la poesia è nella loro ricerca cieca, come cieco è il personaggio interpretato dal drammaturgo. E’ la fimmina che pone dubbi, perché devastata dal non riuscire a ricordare nulla ed esprime questa sua frustrazione alternando nevroticamente sorrisi placidi, pianti e canti di compleanno.
La loro comunicazione ricorda lo stile di Beckett: i dialoghi sono apparentemente assurdi, i due non sanno neanche di preciso che rapporto c’è fra di loro e sono sospesi nell’attesa che arrivi il momento di essere finalmente ‘contenti e festosi’ per mangiare la torta.
I corpi degli interpreti vibrano di tic, di nevrosi e di incagli, nei quali lo sguardo dello spettatore inciampa, passando dalle iniziali risate fragorose fino al silenzio raccolto.
Abbiamo incontrato il drammaturgo, quindi anche regista e interprete per capire il rapporto con quest’opera, dopo il tempo passato dal debutto, per un testo attraversato anche negli anni dalle interpretazioni di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.
‘A Cirimonia compie quindici anni. Cosa ha significato riprendere questo lavoro, sviluppandolo in un’altra fase della vita di voi interpreti e della tua scrittura? Se e come si è trasformato?
Le trasformazioni sono sicuramente più che altro quelle imponderabili e che non possono essere analizzate, perché sono quelle che hanno a che fare con il nostro corpo, con il nostro pensiero. Per cui non abbiamo una capacità di determinare esattamente cosa sia variato. Tecnicamente e scenicamente quasi nulla, anche perché lo spettacolo è uno scrigno e non da grandi possibilità di interpretazioni nuove, o per lo meno non da parte mia, né necessarie. Sarebbero state cose nuove da aggiungere, ma così tanto per farle non valeva la pena. Le variazioni sono più che altro emotive, esistenziali, personali, anche nella relazione con Anton Giulio perché in questi anni sono cambiate delle cose e siamo cambiati noi stessi, perché abbiamo fatto altri tipi di esperienze. Per cui credo che sia molto cambiato, però non so dire come e se in meglio. Non lo so.
Prima parlavi di un lavoro sul corpo che si è trasformato anche se in maniera impercettibile e indefinibile. Che cosa intendi?
Intendo più che altro la nostra consapevolezza da attori. Una cosa è fare uno spettacolo a trent’anni, un’altra a cinquanta. Cambia tutto perché fisicamente tu hai un’altra cognizione di te e hai anche un’altra furbizia. Ti manca una certa energia, però la compensi con uno sguardo più consapevole. Questo non è detto che sia un fatto necessariamente positivo.
Non sempre si migliora…
Esatto! (ride, ndr)
Spesso hai utilizzato la dimensione narrativa del dittico/trittico come un gioco, oltre che per l’ampiezza maggiore e la continuità tematica. Hai creato spettacoli che possono essere visti separatamente, insieme, e invertendosi nell’ordine cronologico di fruizione. Anche ‘A Cirimonia fa parte di una trilogia.
La trilogia dell’impossibilità dove il primo atto è Ouminicch, con l’impossibilità della scelta, il secondo ‘A Cirimonia, con l’impossibilità della verità, il terzo Manichini con l’impossibilità dell’essere.
Sono mai stati presentati tutti e tre insieme?
No perché parliamo di un periodo storico lontano, in cui non c’era questo agio (economico) per essere mostrati tutti insieme, e non nascono per questo. C’è un legame più che altro concettuale, non di storie in sé, ma di personaggi rinchiusi da qualche parte o ostruiti, fondamentalmente da sé stessi, seppure guardassero oltre e immaginassero che da oltre venisse questa chiusura, invece era un’autochiusura.
Hai attraversato, in tempo più recente, un’altro polittico drammaturgico.
Sì, per quanto riguarda me, vengo da un bellissimo viaggio con la conclusione di questo dittico del sabotaggio. Ora ti dico una cosa segreta: è stato molto bello, appassionante, viscerale e adesso dovrei iniziare a scrivere una cosa nuova, ma sono sempre più colto da una pigrizia incredibile. Purtroppo, e faccio una nota a margine, viviamo in un ambiente creativo dove bisogna sempre produrre, sempre produrre.. Noi, io e Anton Giulio, facciamo in modo che gli spettacoli abbiano più vita possibile, e ‘A Cirimonia lo decreta. In generale ci piace avere un serbatoio. Però è chiaro che specialmente i teatri istituzionali ti chiedano ogni anno una cosa diversa, nuova. Ed è una ghigliottina incredibile.
E la tua prossima ghigliottina quale sarà?
Debutteremo in Liguria, a Ottobre prossimo, per uno spettacolo che è già in cartellone da un pò, ma che io devo ancora scrivere e non ho un’idea di cosa sarà. Sarà un monologo dove i produttori sono istituzionalizzati, in parte, ma comunque indipendenti. Io tento sempre di perseguire due percorsi in alternativa: con i teatri stabili e il teatro di giro. È un equilibrio complesso perché ti chiede di donargli il tuo sangue, ovvero lo spettacolo: poi di fatto, quando glielo concedi, non ti appartiene più; invece il percorso più etico che faccio è quello con i teatri indipendenti e con i circuiti off, che mi danno una grande indipendenza e gioia, a prescindere dal fatto artistico. Io comunque artisticamente cerco di trattare entrambi nel medesimo modo, con cura, ma è chiaro che questa distinzione è fondamentale per un percorso. E questo prossimo sarà un percorso indipendente.
Mi collego al tema del sabotaggio, perché leggevo nelle note d’autore di ‘A Cirimonia e in varie interviste, che hai un amore per il fallimento e l’autosabotaggio. In cosa pensi ti possa accrescere il rischio di un fallimento, o è solo mero masochismo?
Per fortuna, non ho problemi da “analisi” di quel tipo (ride, ndr), ne ho altri!
Credo che il concetto di fallimento sia il tentativo disperato, non a caso uso la parola disperato, che l’artista compie affinché smetta la ricerca e cominci a ricercarsi, non facendo cose che già sa fare, quelle di cui è capace e che ha già sperimentato.
Questo è un rischio: siamo in un ambiente lavorativo molto fragile, per cui tendiamo sempre, una volta guadagnatoci una certezza, a maturarla e portarla avanti il più possibile. È chiaro che, per quanto mi riguarda, è un problema annoso, però lo sforzo che faccio è di tentare di fare qualcosa che sposti sempre un pò in avanti il limite di questo precipizio, che può essere il fallimento. Essere portati al fallimento non significa essere masochisti, ma tentare di continuare questo percorso.
Intendi il rapporto con una coerenza, con il tentativo di rimanere “monolitici”?
Non è neanche un discorso di essere poco coerenti. Molto spesso la coerenza viene scambiata con la tua voce: sei coerente con te stesso, no?! Ma la coerenza ha proprio questa capacità di eventualmente essere e proporre la possibilità di una contestazione. La coerenza è lo spirito che poi ti muove a fare le cose, in questo caso a fare teatro. E lo spirito è quel tentativo di spostare l’obiettivo, il panorama, guardare oltre, per non cadere nel rischio di raccontare sempre la stessa cosa in maniera diversa. Io quindi cerco sempre di fallire, ma non il fallimento pratico, che mi fischino in sala o che mi aspettino fuori il teatro per picchiarmi, ma quello per cui finita l’opera mi domando ‘e beh, quindi che ho raccontato? qualcosa che è ho già detto?’. Fallimento inteso con me stesso, non con l’altro.
Chiudo con una domanda forse fuori tema. La tua tesi di laurea è stata su Eduardo De Filippo. Esiste ancora in te il legame con questa figura e se sì in quale modo influisce sulla tua scrittura e sul tuo teatro.
Un legame a doppissima mandata: più vicino al discorso della compagnia, di avere dei legami sulla scena e uno sguardo onnicomprensivo. Vivere continuamente il rapporto con la regia, la scrittura, le maestranze, la scenografia, le musiche, e gli elementi che mi fanno pensare ad un teatro antico, dove gli spettacoli non si compongono come piccole schedine. Parliamo di un teatro che faccia in modo che il discorso che stai costruendo possa essere accolto, compreso e migliorato da tutti quelli che ne fanno parte, per cui il legame che sento è nell’atteggiamento che metto nel teatro. Poi sicuramente anche dal punto di vista drammaturgico c’è stata una mia appartenenza a Eduardo.
’A CIRIMONIA
testo e regia di Rosario Palazzolo
con Rosario Palazzolo e Anton Giulio Pandolfo
musiche di Gianluca Misiti
aiuto regia Angelo Grasso
voci registrate di Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo
Teatro della Contraddizione, Milano | 12 aprile 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.