RITA CIRRINCIONE | Nato nell’ambito del programma dedicato al decennale della scomparsa di Franco Scaldati come progetto laboratoriale con la finalità di esplorarne in chiave contemporanea le potenzialità drammaturgiche e musicali, Indovina Ventura, uno dei testi più importanti del drammaturgo palermitano, è stato riproposto recentemente allo Spazio Franco per Scena Nostra ’24 nella riscrittura che ne è scaturita e che ha visto in scena 24 performer selezionati tra gli oltre 40 partecipanti al laboratorio.
Nell’articolo su Dicembre Scaldati – il primo di un mio “involontario” trittico dedicato al poeta-sarto – oltre a scrivere di questo testo-scrigno rappresentato per la prima volta nel 1983, avevo introdotto l’originale lavoro di studio e di ricerca condotto dai registi Massa, Ortolani, Provinzano e dai musicisti Ganci, Mangiaracina, Sicurella, riservandomi di scriverne più specificatamente in questa occasione.
Seppur contraddistinti da un linguaggio scenico contemporaneo e da inedite soluzioni drammaturgiche, i tre episodi indipendenti l’uno dall’altro in cui è articolata questa performance multiforme, portano tutti il segno dell’inconfondibile sigillo scaldatiano ora nelle presenze reali o immaginarie di fantasmi, santi e angeli che si mescolano in una comunità di vivi e di morti; ora nei nomi dal suono antico che riecheggiano qua e là – Siroru, Gelsomina, Opalina – che solo lui poteva inventare; ora nei riferimenti alla fame e alle distruzioni causate dalla guerra o nel grido Indovina ventura! declinato in tutte le sue sfumature a esprimere la disperazione, la speranza e il senso di mistero e di imponderabilità dell’esistenza umana.
Indovina ventura! Indovina ventura! Indovina ventura! L’invocazione con cui si apre la prima pièce – …passat’a porta Siemu un Filu i Fumu… con la regia di Margherita Ortolani e la musica di Angelo Sicurella – è un grido lacerante che squarcia l’aria e che sembra stridere con il personaggio al centro della scena: una figura femminile angelicata con tanto di ali, coroncina e tunica virginale che, cedendo alla richiesta di un adorante corteggiatore, evolve in sposa con velo e bouquet di fiori.
A far da sfondo al quadretto romantico, una schiera di donne in atteggiamento sfrontatamente seduttivo disposta in fondo alla scena. Ben presto, in un crescendo di sopraffazioni, l’idillio tra la coppia degenera in vera e propria violenza da parte della figura maschile e la giovane sposa luminosa cade a terra straziata dalle urla.
Tocca, u me corpu tocca, tocca, tocca/ Tocca, u me corpu tocca, tocca, tocca/ Tocca, u me corpu tocca, tocca, tocca/Senza i to manu u corpu miu unn’ esisti.
Il mantra reiterato dalla schiera di donne che avanzano sulla scena sembra implorare il contatto con l’altro, in un bisogno di alterità senza la quale l’Io-corpo non esiste, ma alla fine il loro resta solo un richiamo inascoltato, disperato e sterile.
La città è crollata! La nostra terra sparisce! Tolta la benda che per l’intera durata della performance Ortolani (testimone prima, Tiresia profeta di sventure, dopo) in un angolo della scena ha tenuto sugli occhi, fa risuonare il suo urlo. L’immagine dolorosa della donna, reificata e amputata trova un’altra eco che sembra propagare la sofferenza della condizione femminile (e in ultima analisi umana) nella dimensione più ampia di una terra devastata da una logica maschile di sopraffazione, di guerra e di morte.
Se Margherita Ortolani, regista e attrice, mette in luce la parte oscura di un mondo patriarcale a cui Scaldati in qualche modo apparteneva (fondamentale l’ausilio della voce e dei suoni di Angelo Sicurella), l’altro apporto femminile del progetto – quello musicale di Serena Ganci nella seconda pièce Va’ Va’ luci, con la regia di Giuseppe Provinzano – prende una direzione più leggera e giocosa già a partire dal titolo che, separando in sillabe il termine siciliano di lumache, vavaluci, diventa un poetico Va’ va’ luci!
L’episodio, una sorta di musical nostrano, inizialmente racconta quasi come un mito fondativo la storia di una comunità di uomini-lumache in una remota età dell’oro quando vivevano lenti, spensierati e bavosi a contatto con la terra: quannu l’omini strisciavanu eranu lenti, erano vavusi e li chiamavano vavaluci, per virare poi sulla cronaca di una scampagnata domenicale a Monte Pellegrino tanto cara ai palermitani: Acchianamu acchianamu c’u pitittu e a stanchizza acchianamu, acchianamu.
Per raccontare l’epica acchianata (salita) di questa colorita famiglia allargata di vavaluci, la coppia Provinzano/Ganci attinge alla componente più popolare della drammaturgia scaldatiana dove non mancano i risvolti comici come il continuo sfottò sulle loro antenne cornute o l’insistenza ossessiva sul cibo da procacciare, retaggio di una fame atavica. L’avanzata in schiera orizzontale di questa singolare brigata che procede a passo di lumaca, nell’alternarsi dei giorni e delle notti – e agghiurnava e scurava! – sembra la rappresentazione di una umanità imperfetta con i propri tic e le proprie paure, in cui ogni tanto qualcuno cade e poi si rialza, sotto lo sguardo benevolo di Serena Ganci nelle vesti dorate di Santa Rosalia.
Si l’àncili cantàssiru cà luci e no cà vuci con la regia di Giuseppe Massa e le musiche di Dario Mangiaracina, rappresenta forse il più ardito esperimento di attualizzazione di Indovina Ventura con una band di musicisti dal vivo – in schiera diagonale con gli attori, tutti in total black – che riprende in chiave punk frammenti di testi scaldatiani come le classiche abbanniate dei mercati palermitani e i coloriti epiteti in uso in certi ambienti popolari o l’alternarsi del giorno e della notte, del buio e della luce – È notti ancora e canta l’usignolu… L’allòdola canta e annuncia ‘a fini da notti… s’un minni vaju moru – come nel poetico brano L’usignolo di ispirazione shakespeariana.
Dopo un prologo scandito da una “punteggiatura” martellante che aggiunge pathos a un testo in cui ritornano gli angosciosi ricordi della miseria, della fame, dei pidocchi in tempo di guerra, entra in scena con la sua bici sgangherata, come arrivando da un altro tempo, Indovina Ventura – Giuseppe La Licata un po’ barbone, un po’ veggente – che, accolto dalle risate e dagli sghignazzi del gruppo di ragazzi impegnato nel rito dell’aperitivo, prova invano ad annunciare le sue predizioni.
Quando avvolti dal buio si abbandonano nudi a un disperato erotico amplesso collettivo, sembrano la rappresentazione vivente di una generazione dominata dalle “passioni tristi” in attesa che giunga l’apocalisse in una oscurità rischiarata dai palloncini illuminati che Indovina Ventura distribuisce a ciascuno di loro e che dopo un po’, uno dopo l’altro, si spengono.
INDOVINA VENTURA
performance multiformi
…passat’a porta Siemu un Filu i Fumu…
regia di Margherita Ortolani
musiche di Angelo Sicurella
con Tea Bruno, Angelica Di Pace, Alessandra Falanga, Chiara Gambino, Dario Muratore, Joy Smith
Va’ va’ luci
regia di Giuseppe Provinzano
musiche di Serena Ganci
con Julia Jedlikowska, Giancarlo Latìna, Daniela Macaluso, Oriana Martucci, Alessia Quattrocchi, Luigi Maria Rausa, Riccardo Rizzo, Esdra Sciortino Nobile
Si l’àncili cantàssiru cà luci e no cà vuci
regia di Giuseppe Massa
musiche di Dario Mangiaracina
con Ibrahima Deme, Paolo Di Piazza, Giuseppe La Licata, Sofia Lalicata, Valeria Sara Lo Bue, Simona Sciarabba, Nancy Trabona
e con Roberto Calabrese e Carmelo Drag
Palermo, Spazio Franco
22 marzo 2024