ESTER FORMATO e ELENA SCOLARI | EF: Dopo Il gabbianoprima tappa di un progetto che terminerà con Il giardino dei ciliegi, Leonardo Lidi firma il suo Zio Vanja programmato al Piccolo di Milano a distanza di qualche mese dal suo debutto al Carignano di Torino.

ES: Ricordo brevemente le coordinate del testo: siamo nella proprietà del professor Serebrijakov, è estate e si combatte con il caldo e le zanzare; l’illustre (e anziano) scienziato è appena tornato a casa con la sua seconda moglie, la giovane e bella Elena. Il loro arrivo scuote le abitudini del resto della famiglia “allargata”, composta da Vanja, sua nipote Sonja e sua madre Maria, la vecchia balia Marina, l’ex proprietario terriero Telegin, ora in miseria, e il dottor Astrov.

EF: La vastità del Teatro Strehler obbliga all’uso dei microfoni e forse ciò, almeno all’inizio, distoglie il pubblico dalla profonda intimità che si ravvisa nel teatro di Anton Čechov. D’altro canto, lo Zio Vanja di Lidi si sviluppa in uno spazio scenico (di Nicolas Bovey, come le luci) estremamente minimale, nel quale, all’apertura, tutti i personaggi sfilano silenti, sedendosi su una lunga panca di legno di betulla, come la liscia e alta parete che circoscrive questo solo e unico ambiente.

ph. Gianluca Pantaleo

ES: Lo spazio scenico è ridotto in profondità, la scenografia si può dire minimale perché semplice, forse, ma è decisamente imponente per dimensione e per la capacità fisica di soverchiare i personaggi. Stanno perlopiù seduti su quella panca come ad aspettare l’autobus, sono perennemente in attesa di qualcosa che passi per poterlo perdere. Un po’ come la panchina de Il gabbiano dalla quale si osserva il lago, ma anche la vita che scorre.
Ci sono due piantane a vista che reggono pannelli di luci (repentinamente calde o fredde): quel posto è dunque una metafora, non c’è niente di naturale, nonostante il legno.

EF: Nessuna tonalità chiara e delicata caratterizza gli abiti di scena (curati da Aurora Damanti), né tantomeno il colore pallido o bianco, che nella maggior parte degli allestimenti cechoviani predomina nella mise dei protagonisti; al contrario, essi vestono colori sgargianti ed esuberanti appaiono le acconciature femminili di metà secolo scorso, tali da smarcare il testo dall’originaria collocazione cronologica.
Ma quando Astrov (Mario Pirrello) recita la battuta «Da quand’è che ci conosciamo, Nanja?» rivolgendosi alla vecchia domestica, da lì il testo dell’opera zampilla con ritmo armonico e i personaggi, messi lì quasi fossero in cerca d’autore, si animano fra le maglie della drammaturgia cechoviana. Schiacciati dalla rigida scenografia, benché orfani di quegli interni a cui sono saldamente cuciti, fanno scorrere sotto i nostri occhi il microcosmo inconsistente delle loro esistenze, carico di una pesante e concreta infelicità, che pare sempre di poter toccare con mano. Forse, adesso più che mai.

ES: C’è, a mio avviso, una correlazione tra la soluzione scenica severa, lo spazio costretto e i colori squillanti degli abiti: c’è una brillantezza intrinseca in ogni figura, che non trova, però, lo sfogo corrispondente nella vita reale. L’appiattimento cui ti riferisci è bilanciato dalle scene che non vediamo e che si svolgono dietro quella parete legnosa, uno spazio a noi ignoto che rappresenta la dimensione invisibile. È lì l’estensione di cui lamenti l’assenza: è ciò che nemmeno i personaggi riescono a vedere e quindi ad abitare.
Tra l’altro, c’è un prolungamento significativo che raggiunge gli spettatori dal palcoscenico: il cane nero che entra in scena con Vanja scenderà poi in mezzo alla platea e, zampettando, porterà tra noi la buffa perplessità con cui – più volte – guarderà quella sconsolata compagine umana.

EF: Dicevo di Astrov perché – per come solitamente lo si pensa e rappresenta – quello di Mario Pirrello lascia inizialmente un po’ sconcertati: c’è un’esuberanza nuova che Lidi intravede in questo personaggio, spesso ritratto con quell’umbratile involucro dal quale traspira il fascino che lo astrae dalla circostante mediocrità, almeno secondo lo sguardo di Sonja e di Elena. Qui invece fa capolino un uomo dagli abiti eccentrici, dalla capacità affabulatoria quasi straripante che con scaltrezza dissimula la propria insoddisfazione esistenziale. Disilluso eppure appassionato e combattivo difensore dei boschi e dell’ambiente, irrompe nell’angosciante patina che permea la casa del professor Serebrjakov, ipocondriaco egoista che Maurizio Cardillo non esita a ritrarre come un omuncolo sbracato senza più arte né parte.
Accanto a quest’ultimo, che un tempo passava come grande luminare, vive la bellissima moglie Elena (Ilaria Falini) dalla capigliatura importante, che finisce per catalizzare i gesti, i movimenti, le tensioni e le attenzioni di Astrov, oltre che del protagonista Vanja, suo antico spasimante. Massimiliano Speziani, attraverso lo sguardo del regista, lo porta sulla scena intercettando con fine bravura le complesse sfumature delle sue nevrosi. Questi, infatti, si presenta spesso con le mani congiunte fra le ginocchia, scomposto, accovacciato o sdraiato, a rappresentare con le inclinazioni del corpo la sua dimensione esistenziale. Privo di spina dorsale, dà concretezza a quel senso di vuoto e vanità che gli attraversa l’anima, contrapponendosi al pur nevrotico vitalismo del suo vecchio amico Astrov.

ES: A me l’abbigliamento di Pirrello, accattivante in quanto amabilmente cialtrone, ha ricordato un poco la tracotanza dell’Alex Drastico di Antonio Albanese; è un uomo che non è più certo nemmeno della sua competenza professionale, mortificato dall’incidente del paziente deceduto sotto cloroformio. Se nel Gabbiano non tutti gli attori indossavano il proprio ruolo con la stessa efficacia, qui, invece, ogni personaggio è perfettamente assegnato: la Elena cotonata di Falini gestisce con distacco le avance degli ammiratori e legge sé stessa con una lucidità sempre controllata, anche durante l’apparente momento di abbandono cui si lascerà andare, sottolineato dalle risate registrate, come in una sit-com eccessiva e sgraziata. La balia Marina di Francesca Mazza, in vestaglia fuxia, bigodini e sigaretta spenta, si muove con la svagatezza della vecchiaia che ogni tanto la incanta, come se per un attimo vedesse gli altri senza la sfocatura della cataratta. Giordano Agrusta è un Telegin morbido, una presenza che dà equilibrio, quasi sovrannaturale è il guardiano muto di Tino Rossi; Angela Malfitano è Marija Vasil’evna, la madre “dritta” di Sonja, sempre con un libro in mano, quindi sempre altrove. Sono tutti inadeguati ai tempi in cui si trovano, quali che siano.

EF: Infatti, la cura dei costumi corrisponde a una specificità psicologica che la regia pare esprimere con minuzia. Ognuno risponde in maniera differente alla consapevolezza di aver vissuto a metà o di non aver vissuto; illusi da un passato gravido di felici premesse, per loro presente e futuro consistono nella deflagrazione di tali illusioni, e quindi ora, consapevoli della propria meschinità, si arrabbattano senza trovare via d’uscita. Insieme, certo, ma ciascuno con il proprio essere.
Lidi lo sa e per questo motivo, pur destinandole a uno spazio scenico sclerotico, non perde di vista la grande umanità che si cela in queste minuscole creature. Non lo dimentica perché la triste Sonja, quando parla del suo Astrov, quasi prende il volo e, per impedirlo, lo zio Vanja la tiene per una mano; perché Sonja ed Elena hanno bisogno di ritrovarsi occhi negli occhi e scovare l’una nell’altra una parte di loro stesse; perché Astrov, quando vuole strappare la morfina a Vanja, con la quale vuol farla finita, lo tiene stretto, corpo a corpo, lasciando che chi guarda intraveda quell’assonanza intellettiva, quell’afflato di stima che li accomuna, fino a giungere alle ultime battute di Sonja interpretata da Giuliana Vigogna che riesce molto bene a incarnare il pudore, la lucidità e la rassegnazione che immortalano questo piccolo grande personaggio.

ph. Gianluca Pantaleo

Sì, è vero, ci sono l’indolenza e la mediocrità di piccoli borghesucci di provincia in questa storia, ma anche quell’irriducibile slancio al desiderio, alla vita stessa che ancora ci fa accorrere a vedere Čechov.

ES: La smagliante vitalità dei testi di Čechov è testimoniata dalla quantità di allestimenti che stiamo vedendo in queste ultime stagioni: da Muta Imago a Ferracchiati, da Lidi a Simona Gonella, da Rustioni a Serra. Questo Zio Vanja solleva tutta la maestosa acutezza di un drammaturgo che conosce gli uomini e le donne, ne prende in giro con ironia incomparabile le invidie, schiaffeggia con indulgenza le piccinerie, schernisce le vanaglorie con affetto. Lidi dirige un allestimento originale, grazie anche alla bella e vibrante traduzione di Fausto Malcovati, che sa far brillare l’intelligenza di un’opera in cui si trovano alcune tra le più acuminate riflessioni sull’uomo: «Vanno bene anche i miraggi, quando la vita non ha più senso», per citare una delle sconsolate battute di Vanja, cui un grande Speziani regala disperazione, humour, istinto, noia verso sé stesso. E parteggiamo per lui anche quando spara, goffamente, a quello stolto del padrone di casa, certo!
Il titolo ce lo presenta da subito come zio, è legato mani e piedi ai suoi parenti, non mai è solo “Vanja”. Eppure, è lui che arriveremo a conoscere meglio di tutti, lui che si lamenta di sé perché è diventato un brontolone, e lui che ha il coraggio di dire, a proposito di Elena: «È immorale tradire il marito vecchio, ma non lo è tradire la giovinezza?». E come si fa a non amare uno zio così?
In fondo, nessuno crede completamente a sé stesso: Astrov e le sue tirate proto-ambientaliste sono una scusa per dire che l’uomo «distrugge per noia e indolenza» e, infatti, sono nullificate da quei disegni infantili – proiettati sulla parete di assi – che dovrebbero sedurre Elena; Vanja con lei un po’ ci prova, ma più per nostalgia che per vero desiderio, e rivendica l’egoismo dei vecchi che gli è negato per troppo senso di responsabilità; Serebrjakov si scruta nelle mutande dubbioso che sia rimasta vita, lì; Sonja si condanna alla sopportazione, perché è l’unica via che sa percorrere.
Tutti sperano nel riposo, un giorno.

ZIO VANJA
Progetto Čechov, seconda tappa

di Anton Čechov
regia Leonardo Lidi 
traduzione Fausto Malcovati
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna 
scene e luci Nicolas Bovey 
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e con Spoleto Festival dei Due Mondi

Piccolo Teatro Strehler, Milano | 16 aprile 2024