ENRICO PASTORE | Fin dal suo apparire la delusione d’amore e il suicidio di Ofelia hanno commosso non solo il pubblico, ma ha anche incendiato la fantasia degli artisti. Fare una lista delle riprese e varianti su tele, canzoni, testi e spettacoli sarebbe un’impresa quasi impossibile. Dalla seconda metà dell’Ottocento la figura della giovane adolescente impazzita e poi annegata assunse addirittura una colorazione erotica assente nell’originale scespiriano.
La donna morente era considerata seducente e Ofelia lo diventava in maniera particolare, perché univa l’idea della bellezza unita alla morte e alla malattia mentale. Fu proprio questo dualismo a stimolare miriadi di artisti nel secolo in cui la medicina, la nascente psicologia, e l’arte cercavano di ridefinire il ruolo della donna con teorie spesso misogine, e questo parallelamente ai nascenti movimenti femministi, tesi a reclamare diritti e libertà negati all’universo femminile.
Ofelia, languida nell’abbandono alla corrente del fiume, era una costante dei grandi Salon parigini e nelle collezioni di nobili e borghesi. Tutti abbiamo presente l’Ophelia preraffaellita di Sir John Everett Millais, incorporea e incorrotta nel suo fluttuare nelle acque del ruscello che le ha preso la vita. Meno poetica e più allusiva nel dipinto di Madeleine Lemaire, che ritrae una giovane discinta, con il seno impudicamente esposto e le trecce arruffate, o quella di Arthur Hughes, seduta su un tronco con lo sguardo allucinato. Persino la grande attrice Sarah Bernhardt si era cimentata nel soggetto in un bassorilievo in bronzo, una Ofelia con il seno nudo e i capelli sparsi.
Edgar Allan Poe diceva che non vi è nulla di più poetico di una donna che muore, ma di poetico non vi era niente, né vi è oggi, solo una certa pruderie morbosa dell’universo maschile che si compiaceva, e tutt’ora si appaga, nella visione della donna suicida per amore. Se qualcuno nutre dubbi sul potere delle immagini e sulla loro resistenza al tempo, basterebbe ricordare la serie di Andres Serrano The Morgue del 1995, esposta nella Biennale del centenario, dove si ritrae in immagine fotografica il cadavere di una giovane e bellissima adolescente distesa sul tavolo dell’obitorio dopo un’autopsia, e che ricorda l’analogo parigino in gesso di fine Ottocento conosciuto come L’inconnu de la Seine, che usava adornare i caminetti delle case borghesi nella capitale francese.
L’Ophelia firmata da Saburo Teshigawara e Rihoko Sato in prima italiana al Teatro Ponchielli di Cremona è interessante, oltre i suoi meriti e risultati artistici, proprio per misurare la persistenza di una visione che vede nella fanciulla annegata un’immagine poetica.
La coreografia di Sato e Teshigawara non riesce, infatti, a sfuggire alla forza gravitazionale di idee ormai radicate nell’immaginario: Ofelia abbandonata danza imprigionata dal suo abito di sposa ormai inutile; Ofelia appare con i lunghi capelli scomposti e scompigliati; Ofelia è perseguitata dal suono dell’acqua che scorre, e nel finale viene ingoiata dal buio, adagiata su uno specchio luminoso.
Amleto compare come un’ombra o un intruso nel suo sogno-delirio. I due si incontrano solo brevemente, un piccolo bacio sfiorato, poi i contatti sono cercati ed elusi. Amleto sfugge, si distanzia persino nei movimenti: ondulatori, sinuosi e continui quelli di lei, spezzati, sincopati e angolosi quelli di lui. E l’opposizione permane nei costumi: bianche le vesti di Ofelia, nere come la notte quelle di Amleto.
La danza è di grande livello, molto tecnica, precisa, come è consueto nelle opere di un maestro riconosciuto come Teshigawara, spesso affiancato nella creazione, come in questa occasione, da Rihoko Sato. Ciò che lascia perplessi non è dunque la danza, ma l’assenza di varianti. Tutto scorre nel consueto, Ofelia muore sempre suicida, sconvolta dal dolore o, come dice Masumi Kawakita nel programma di sala: «Guardando lontano attraverso un raggio di sole, accettando così una morte piena d’amore». Ma è proprio questo che Ofelia non dovrebbe più accettare. Dovrebbe ribellarsi a un destino scritto non tanto da Shakespeare, ma da artisti e intellettuali di fine Ottocento che trovavano esaltante e seducente che una donna impazzisse e si suicidasse per amore, ribadendo la sua sudditanza al potere maschile.
La nuova coreografia di Rihoko Sato e Saburo Teshigawara misura dunque proprio la persistenza e pertinacia delle idee che ci accompagnano anche senza volerlo. Sono proprio questi archetipi che vanno capiti e disinnescati, proprio perché Ofelia e le sue sorelle finalmente sfuggano al ciclo infinito delle morti per annegamento e possano finalmente trovare il proprio spessore e una vita lontano dall’ombra ingombrante di Amleto. E questo sarà possibile solo con la costruzione di nuove immagini in un teatro che non abbia più bisogno di donne morenti per amore.
OPHELIA
da Hamlet di William Shakespeare
danzano Saburo Teshigawara, Rihoko Sato
regia, disegno luci Saburo Teshigawara
collaborazione artistica Rihoko Sato
costumi Saburo Teshigawara, Rihoko Sato
musiche Saburo Teshigawara
Teatro Amilcare Ponchielli, Cremona | 19 aprile 2024