MATTEO BRIGHENTI | «L’idea di trovare salvezza nell’arte è solo una stupenda illusione. Non possiamo farne a meno, come esseri umani, ma non può bastare, come nessun’altra cosa». Emanuele Aldrovandi la pensa come il protagonista del suo romanzo d’esordio, Il nostro grande niente, da poco uscito per Einaudi Stile Libero. Nemmeno l’amore ci salva, perché neanche questo sopravvive al tempo. «Il titolo del libro è un paradosso che mi è venuto in mente – racconta – ascoltando Questo nostro grande amore de I Cani. Ho pensato di sostituire la parola niente ad amore perché il romanzo parla proprio del fatto che un sentimento così forte, così importante e anche così specifico (“nostro”) può di colpo sparire nel nulla, diventare “niente”». E poi aggiunge: «C’è anche una lettura più verticale e filosofica, dove “nostro” non riguarda solo i due protagonisti e “niente” non si riferisce solo all’amore. Però, non mi piace farmi le esegesi da solo, spero che ogni lettore lo possa cogliere leggendo il romanzo».
Nato a Reggio Emilia nel 1985, Aldrovandi è traduttore, sceneggiatore, regista e soprattutto pluripremiato autore teatrale (Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli, Premio Nazionale“Luigi Pirandello, Premio Hystrio, Premio Fersen e Mario Fratti Award). Con Il nostro grande niente prosegue la sua indagine sulla natura delle relazioni, mettendo per la prima volta su carta, invece che in scena, la storia di un’ossessione che sfiora o ha sfiorato chiunque: possiamo ancora amare sapendo che non siamo insostituibili per chi ci sta accanto?
L’intervista che segue nasce e si sviluppa da un incontro pubblico che abbiamo avuto qualche tempo fa a Firenze, alla Libreria Fetrinelli di Piazza della Repubblica, su invito di Cinzia Zanfini. L’occasione è stata la VII edizione di IDENTITIES. Leggere il contempor@neo, ideata e organizzata dall’associazione culturale La Nottola di Minerva. Matilde Zavagli e François Meshrekid della compagnia Teatri D’Imbarco hanno letto alcuni brani da Il nostro grande niente, scandendo un dialogo che, dallo sguardo del libro e sul libro, ha toccato la teatralità e il senso della scrittura di Emanuele Aldrovandi, fino ai “no” che lo hanno aiutato a essere pubblicato da un’importante casa editrice come Einaudi.
Prima di incontrarci ero sull’autobus. Mi ero messo rivolto verso il fondo, con le spalle al guidatore, e quindi al senso di marcia. Avrei dovuto vedere la strada già percorsa, quella che ci stavamo lasciando indietro. E invece, per un gioco di riflessi su una superficie trasparente, vedevo il riflesso della strada davanti, quella che stavamo percorrendo. Dunque, pur in direzione del “passato”, continuavo a vedere il “presente”. Il nostro grande niente, allo sguardo di chi lo legge, fa qualcosa di simile?
È una bellissima immagine che ti ruberò per le prossime presentazioni. Nella prima parte del romanzo il protagonista e voce narrante, appena morto, continua a vedere la vita della ragazza che amava, la vede che soffre, i primi giorni, in quella che era la loro casa, poi che lentamente ricomincia a vivere, esce con le amiche, incontra altre persone, s’innamora di nuovo, ha dei figli, cresce, invecchia e il ricordo di lui diventa sempre più sfocato, come una vecchia foto in un cassetto. Allo stesso tempo, però, questo racconto è intervallato da momenti del passato, della loro vita insieme, che si mescolano e si sovrappongono, come fossero appunto riflessi sullo stesso vetro.
Il protagonista è un drammaturgo. Così, attraverso la sua voce, costruisci un teatro della mente, che avviene negli occhi di lettrici e lettori. Si rivolge sempre a un “tu”, cioè io che leggo. E di volta in volta divento fidanzato/ta, amico/ca, padre/madre, nonno/a… con una intergenerazionalità e una intersessualità assolute, proprio come succede a teatro, dove un attore o un’attrice possono diventare chi vogliono. Siamo di fronte, quindi, a un romanzo teatrale?
Non saprei. A livello di approccio questa narrazione è completamente diversa rispetto a tutti i testi teatrali che ho scritto finora. Nel teatro (almeno, in quello che mi piace vedere e che cerco di scrivere) c’è sempre azione drammatica, i personaggi agiscono dei conflitti, a volte grandi, a volte piccoli, che li portano a modificare sé stessi o il mondo circostante. E le parole sono solo la punta dell’iceberg che emerge rispetto alle azioni sottostanti.
Nello scrivere questa storia, invece, ho sentito la necessità di indagare l’introspezione dei personaggi in modo esplicito e di concedermi lunghi momenti senza “azione drammatica”. È stato questo il motivo per cui ho scelto la forma romanzo, che mi sembrava più adatta. E se dovessi fare un adattamento per il teatro o per il cinema dovrei riscrivere tutto daccapo, mantenendo i temi e il plot ma cambiando completamente il tipo di narrazione.
A livello di “lingua”, invece, ho cercato di scrivere tutto il romanzo come se fosse un racconto “in soggettiva”, come se il protagonista morto fosse effettivamente lì che parla. Per fare questo non bastava passare in modo fluido dal racconto al dialogo e dal presente al passato, ma c’era bisogno di una specifica costruzione delle frasi, per avere un ritmo e un andamento che fossero sia coerenti rispetto alla lingua parlata, sia omogenei e specifici dal punto di vista letterario. Per ottenere questo esito – che risulta poi facile da leggere ma non è stato affatto facile da scrivere, soprattutto perché in questo processo non volevo sacrificare la profondità e la complessità – ho attinto a tutto il lavoro per la scena. Se devo individuare un punto di contatto con il teatro, forse è questo.
Dopo il “tu”, parliamo dell’“io” del libro, l’io narrante. Il nostro grande niente si regge appunto sulla soggettiva “dialogante” del protagonista, ovvero un maschio bianco, quarantenne, eterosessuale. Mi sono indentificato in lui non solo per questo o perché ha le Clarks come me, ma anche per come affronta la fine e della sua relazione e della sua stessa vita. Hai scritto un romanzo maschile e generazionale? A Silvia Nucini, nel bel podcast Voce ai libri di Chora Media, tra l’altro, hai raccontato di una tua amica che ti ha ringraziato per non aver descritto la figura del personaggio di lei.
Sì, la mia amica, che poi è Serena Sinigaglia – visto che qui siamo in un ambiente teatrale faccio nomi e cognomi, quando esco fuori dalla nostra piccola nicchia ho sempre la sensazione che nessuno conosca gli esponenti del mondo del teatro, neppure i più importanti, quindi evito di trovarmi in situazioni imbarazzanti tipo: “Ah, sì Strehler, che poesie aveva scritto?”. Beh, Serena ha letto il romanzo in anteprima e mi ha detto che ha apprezzato il fatto che la protagonista femminile non fosse mai “descritta”, ma sempre “fatta agire”, e questo, in un certo senso, la fa essere “indipendente” dal punto di vista maschile, cioè quello del narratore. Il narratore coglie una parte di lei, quella che racconta, ma è consapevole di non coglierne mai la totalità: non c’è pretesa di oggettività e questo vale per tutti gli altri personaggi, ma su di lei credo che sia una scelta ancora più importante, visto il ruolo che ha all’interno del romanzo.
L’ultimo, straordinario romanzo di Alessandro Baricco, Abel (Feltrinelli), affronta, tra i tanti temi, quello del tempo. L’idea che porta avanti è che non esista il prima e il dopo, ma solo l’adesso. La nostra vita, quindi, non sarebbe una tensione verso una qualche meta, ma piuttosto un ritorno a dove siamo già stati. Ne Il nostro grande niente c’è una scansione molto particolare del tempo, che varia dalla prima alla seconda parte. Qual è la differenza tra le due sequenze numeriche? E come sono legate alla restituzione del tempo presente? Perché, in fondo, ogni giorno, nonostante passi in maniera diversa, è comunque sempre al presente.
Nella prima parte il passaggio dei giorni è caratterizzato dalla formula X + X + 1, che ho scelto per rappresentare l’espansione esponenziale del tempo che scorre in avanti. Ogni intervallo di giorni fra una scena e l’altra, infatti, è appena più lungo del doppio del tempo trascorso fra le due scene precedenti. La distanza diventa sempre più grande e si dilata, man mano che il momento della morte del protagonista si allontana e la memoria della ragazza con gli occhi grandi si affievolisce.
Nella seconda parte il passaggio dei giorni è scandito dalla sequenza di Fibonacci (1, 1, 2, 3, 5, 8…), che fra i molteplici significati e rimandi è presente in natura all’interno di fenomeni di crescita come, ad esempio, la disposizione delle foglie lungo il ramo di una pianta o la distribuzione a spirale dei flosculi delle margherite e dei semi di girasole. Gli intervalli di tempo, in questa seconda parte, sono più sincopati, perché non raccontano un’esponenziale progressione in avanti ma un cambiamento interiore, ramificato. Una spirale, appunto, da cui il protagonista non riesce a uscire.
Un altro indizio della teatralità del romanzo: come uno spettacolo, ogni giorno ricomincia daccapo, ha qualcosa del giorno precedente, però, al tempo stesso, va incontro a qualcosa di nuovo. Come mai non spieghi la differenza tra le due successioni temporali nel risvolto di copertina o nella prima pagina ma nelle note di chiusura?
È stata una proposta dell’editore. Io avevo fatto una “nota” che avevo inviato in un file separato, ma non pensavo di pubblicarla. Volevo che fosse una di quelle cose nascoste che colgono solo i lettori più attenti. Poi, però, gli editor mi hanno fatto notare che la maggior parte delle persone avrebbe pensato che i numeri erano casuali e quindi abbiamo scelto di inserire la nota.
Oltre al protagonista e alla protagonista, ai familiari, ci sono gli amici del protagonista. Rappresentano il coro tragico? Sono gli specchi del protagonista attraverso cui vede le possibili scelte alternative che a volte segue ma il più delle volte no? Hanno dei nomi, o meglio, dei soprannomi, come ‘banderuola’, ‘il violento’, ‘amarezza’. Perché loro sì e gli altri personaggi no, a cominciare dai due protagonisti?
I personaggi non hanno nomi per evitare querele. Scherzo, questa è una battuta che faccio spesso, quando me lo chiedono perché molti personaggi sono ispirati a persone reali, che poi nella narrazione ho estremizzato e modificato. Ma il vero motivo risiede in quanto detto prima, cioè che la storia è vista da un punto di vista completamente parziale, quello del narratore, che appunto conosce tutto il resto del mondo solo attraverso il filtro del suo sguardo. Quindi le persone diventano “i soprannomi che lui dà a loro”. Anche lei, in realtà, ha un soprannome, che è “la ragazza con gli occhi grandi”.
In tutto questo, l’azione della scrittura che valore rappresenta all’interno del romanzo? E per te?
Nel romanzo si parla spesso di quel baratro che a volte sentiamo sotto di noi, prima di dormire, quando pensiamo al tempo che scorre e alla finitezza di tutto. Il protagonista ha cercato soluzioni nella filosofia, nella fede, nel piacere e anche nell’arte, che nel suo caso è concretizzata dalla scrittura: a un certo punto della vita si è illuso che la scrittura potesse “salvare alcuni momenti dalla costante opera distruttiva del tempo”, e probabilmente ha iniziato a usare le parole proprio per quello, con la speranza che potessero essere una specie di antidoto alla morte. Però, quando noi pensiamo, non so, alle opere di Dostoevskij, non stiamo creando nessun legame con lui, perché lui non è da nessuna parte e dal momento in cui è morto, quello che ha scritto non ha più nessuna connessione con la sua persona, ma solo con il suo nome scritto su una copertina.
Una volta arrivato al manoscritto, quale percorso hai fatto per arrivare alla pubblicazione? Tra l’altro non con una casa editrice qualsiasi ma con Einaudi.
Secondo me il punto non sta nel come si ottengono i “sì”, ma nel modo in cui si gestiscono i “no”. Io ne ho sentiti tantissimi di “no”, sia in teatro (e continuo a sentirli, nonostante tutto il lavoro che ho fatto), sia quando ho iniziato a proporre questa storia sotto forma di romanzo.
Ma non ho mai reagito dicendo “Ah, non mi capite”, “Ah, è tutta una mafia”, mi sono sempre chiesto come potevo migliorare le mie storie – senza cambiare di una virgola i temi che volevo affrontare e lo sguardo con cui volevo farlo – rendendo le narrazioni più efficaci, più precise. Credo che questo sia l’unico modo per imparare. E “imparare” non è una parola brutta: non mi ricordo chi l’ha detto, ma ogni forma d’arte è 1% ispirazione e 99% traspirazione.
Anche per il romanzo è stato così: dopo alcune delusioni e tantissime riscritture, ho finalmente trovato un agente che ha spedito il manoscritto a vari editori. Da Einaudi Stile Libero si sono dimostrati interessati però mi hanno suggerito di riscrivere completamente circa metà libro. Non mi hanno detto “come riscriverlo”, ma mi hanno spiegato perché per loro “non funzionava”. È stato un momento duro, perché pensavo di essere arrivato a una versione definitiva e una parte di me avrebbe voluto reagire dicendo: “Siete voi che non avete capito, il romanzo va bene così”. Ma rileggendolo a mente fredda mi sono reso conto che avevano ragione, che alcune cose non funzionavano e c’era ancora del lavoro da fare.
Quindi, mi ci sono messo, ho riprovato due, tre, quattro strade differenti, ho buttato di nuovo via decine e decine di pagine, e dopo più di un anno, quando finalmente ero convinto, gliel’ho mandato di nuovo. E loro hanno deciso di pubblicarlo. Lì è stato facile dire: “Sì, che bello!”. Il difficile è stato prima.