GIORGIA VALERI* | Il Teatro Menotti di Milano, dal 9 al 14 aprile scorsi, ha proposto Le spose – Le nozze del secolo di Fabio Bussotti per la produzione della Società per Attori e Goldenart Production, a un anno esatto dal debutto all’Off/Off di Roma. È la storia del primo matrimonio gay della storia, anzi, lesbico, per non sminuire l’apporto femminile alla vicenda: Elisa Sánchez Loriga e Marcela Gracia Ibeas si sono sposate l’8 giugno 1901 nella Chiesa di San Jorge, La Coruña. O, meglio, Marcela Gracia Ibeas e Mario Sánchez Loriga, secondo i registri della Chiesa. Nonostante le tumultuose vicende che precedettero e seguirono il matrimonio, perché vennero presto scoperte e incarcerate, il loro matrimonio non venne mai annullato, rimanendo effettivamente il primo esempio di matrimonio queer della storia. Per giunta, cattolico.
Gli spunti di riflessione e di celebrazione di una vicenda del genere sono molteplici, ma la regia di Matteo Tarasco ha volutamente cassato il classico schema drammatico e pedante per un approccio insolito, volutamente ironico e cabarettistico. La comunità LGBTQIA+ lo sa, la maggior parte della filmografia o della teatrografia a tematica gay comporta toni estremamente drammatici.
Non è la prima volta, ad esempio, che questa storia viene adattata: nel 2019, Isabel Coixet ha prodotto per Netflix Elisa y Marcela, in gara per l’Orso d’oro al 69º Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Il film ha avuto un’accoglienza tiepida, ai limiti dell’indifferenza: il potenziale della vicenda si traduce in una riduzione agli estremi del paradigma assoluto di bene-male, giusto-sbagliato. Non ci sono sfumature di carattere o mezzitoni nei sentimenti delle due protagoniste, sicure del proprio amore e risolute a combattere il mondo ostile, bigotto e crudele della Spagna di inizio Novecento. Un viaggio dell’eroe amputato della possibilità di empatizzare con le protagoniste, perfette e integerrime nel perseguire il proprio obiettivo. Ai limiti della credibilità.
Al confronto, la scelta registica di Tarasco poteva quindi rivelarsi vincente, se si fosse fatto forza del fatto che un approccio più leggero e disincantato non era ancora stato proposto. Eppure, a conti fatti e a spettacolo concluso, anche qui qualcosa sembra non tornare.
Marinella Bargilli (Elisa alias Mario) e Silvia Siravo (Marcela) fanno uno splendido ritratto di molteplici personaggi, entrando e uscendo dalle protagoniste per vestire i panni vicendevolmente dei propri carnefici: i genitori, i preti, i giudici, la polizia, la gente comune. Ruotano, ballano, si vestono e svestono, si abbracciano e si baciano tra le balle di fieno sparpagliate sulla scena, sollevando una nuvola di paglia con le morbide gonne nere.
Il travestitismo è una tematica, ma anche un elemento scenografico: Bargilli e Siravo non escono mai di scena, si cambiano a vista, con un’abilità impressionante, rendendo estremamente fluidi ed esteticamente piacevoli i passaggi tra una scena e l’altra, un costume e un altro, come fosse parte integrante della narrazione.
Le recitazione sposa perfettamente i toni del testo di Bussotti: concitata, lievemente spinta, a tratti grottesca e kitsch, tutto in nome della leggerezza narrativa e fruitiva voluta da Tarasco. Non mancano piccoli rovelli drammatici, ma sono confinati in porzioni di testo salienti per lo svolgimento della storia: «Una puttana può essere degna di riguardo ogni tanto; una lesbica mai».
Quando, a inizio spettacolo, le luci di sala si abbassano, resta la proiezione blu ghiaccio dello schermo retrostante che richiama un paesaggio lontano, atono, che si misura con l’arancione sottostante, preludio di un tramonto o di un’alba. È lo schermo a dare il ritmo e il tono luminoso alla narrazione, volutamente astratta per restituire la vicenda a un tempo universale da consegnare ai posteri.
Ed è proprio l’universalità della vicenda che non viene rispettata dai toni con i quali viene raccontata. L’irriverente ironia depotenzia la tematica trattata, dà per scontato che molto di quanto accaduto sia superato e di gran lunga migliorato. Si rientra, di nuovo, nel paradigma del perfettamente giusto e del perfettamente bigotto. Ma la realtà non è questa: lo è per la comunità LGBTQIA+, non per la società tutta. La quarta parete teatrale, in questo caso, protegge, allontana, crea distanza, esattamente come lo schermo cinematografico.
Finché il linguaggio si rivolge soltanto al pubblico di riferimento, si corre il rischio di creare prodotti e non performance. Lo spettacolo non produce domande, non interroga gli spettatori, non li mette nella posizione scomoda di dover fare i conti con sé stessi e con la contemporaneità. Fornisce, piuttosto, risposte pronte all’uso, che mal si adattano al contesto reale in cui viviamo, ben più sfaccettato e complesso.
Si perde, quindi, quella possibilità di partecipazione attiva e riflessiva alla vicenda insita nelle possibilità del teatro, in questo caso più necessarie che mai. Tutt’oggi in oltre 60 Paesi del mondo appartenere o riconoscersi nella comunità queer è reato: Elisa e Marcela hanno molto ancora di cui parlare, molto ancora di cui soffrire.
LE SPOSE