RENZO FRANCABANDERA | È sempre entusiasmante quando l’arte, la filosofia sono capaci di ricollegarsi alla scienza, in alcuni casi addirittura di anticiparla magicamente. Democrito aveva pensato agli atomi duemila e cinquecento anni fa, per citare proprio un caso eclatante. La scienza stessa si nutre di intuizioni nate fuori dal percorso scientifico: Einstein aveva sognato la relatività, alcuni postulati comportamentali delle scritture di Saint-Exupery sono stati poi fondati di consistenza scientifica: tante scoperte scientifiche sono venute dopo le intuizioni letterarie o filosofiche di qualche pensatore.
Mi sembra sia anche il caso di Pirandello con La vita che ti diedi, dramma che adatta in forma teatrale due sue novelle di sei-sette anni prima, ovvero La camera in attesa (1916) e I pensionati della memoria (1914).
Rappresentato per la prima volta al Quirino di Roma nel 1923 con il desiderio dell’autore di affidarne l’interpretazione alla Duse (che invece non lo recitó mai), il testo impiegò quasi vent’anni perché fosse ripresentato al pubblico, nel 1942, con Paola Borboni nel ruolo della protagonista.
Fra queste due date, precisamente nel 1935, Erwin Schrödinger invece inventò il famoso esperimento mentale del gatto nella scatola, con lo scopo di illustrare come la meccanica quantistica fornisca risultati paradossali se applicata a un sistema fisico macroscopico.
Cosa dice Pirandello nel suo testo? Racconta la storia di una madre che, trovandosi di fronte all’incalcolabile dolore della perdita di un figlio, decide sostanzialmente di cambiare punto di vista e di continuare in qualche modo assurdo a tenerlo in vita nel pensiero e in gran parte anche nelle azioni.
Teorizza ai suoi vicini e familiari il pensiero per cui il figlio, che ogni umano percepisce come proiezione di sé nel futuro, sia in realtà ancora vivo e che, se la ragione dice morte, il cuore può continuare a tenere in vita, sviluppando una dimensione limbica, degna della migliore meccanica quantistica, per la quale alla fine lo stato effettivo in cui l’altro essere umano si trova, finisce per essere indeterminabile.
E l’esperimento di Schrödinger descrive per l’appunto un apparato, nascosto da un contenitore, in cui un gatto è collegato a un sistema fisico che ne determina la morte se in esso si verifica spontaneamente un evento subatomico con una certa probabilità in un dato tempo. Secondo la meccanica quantistica, finché non viene fatto oggetto di esplicita osservazione da parte di un agente esterno, un tale sistema si trova in una sovrapposizione degli stati “evento avvenuto-non avvenuto”; da questo deriva che anche l’animale dovrebbe trovarsi nella stessa condizione, con la conseguenza paradossale che gli stati di gatto vivo e morto sarebbero entrambi presenti contemporaneamente.
Le idee inconsapevolmente visionarie ma profondamente umane di questo testo di Pirandello sono radicate nel sentire inconscio di molte specie viventi, a ben pensare, e comunque cercano una verità che va oltre il razionale, si aprono a dimensioni che non possono essere tutte e solo descritte dalla dicotomia vero/falso: esiste qualcosa oltre, una via quantistica del sentire.
Assistendo quindi alla replica ospitata presso l’Arena del sole de La vita che ti diedi per la regia di Stéphane Braunschweig (regista di fama internazionale e direttore dell’Odeon di Parigi), che ha deciso di affidare il ruolo visionario e drammatico della madre a una poderosa Daria Deflorian, ho pensato sia a Schrödinger che a un altro mio conoscente che – sono quasi certo senza averne avuto ispirazione dallo studio di Pirandello – ha sempre sostenuto di vedere nei nipoti il suo 25% di eternità (defalcava matematicamente ad ogni grado di discendenza una percentuale che si dimezzava, senza però sparire mai). E Pirandello in alcune battute dice infatti che quando muore un figlio noi non piangiamo per la morte del figlio, ma proprio perché vediamo spezzato quel filo che spinge l’animalesca propensione della vita e del sè a portarsi avanti.
Le scene, dello stesso Braunschweig in collaborazione con Lisetta Buccellato che firma anche i costumi, sono assai tradizionali e d’antan: in proscenio uno spazio per gli incontri e le dinamiche fra vivi, sul fondo della scena, separato da un tulle che la rende oscura, c’è la stanza del figlio. Più audace è il disegno luci Marion Hewlett e sottilmente cupo ma non ossessivo il suono di Filippo Conti.
Con la Deflorian sono in scena in grande tensione emotiva e con una partecipazione corale davvero encomiabile Federica Fracassi (interprete giusta di una femminilità più razionale e spigolosa), Cecilia Bertozzi, Fulvio Pepe, Enrica Origo, Caterina Tieghi, Fabrizio Costella, a realizzare un affresco di figure umane composito.
La presenza di una figura sacerdotale fra coloro che all’inizio raccolgono i deliri materni è suggestiva, perchè il credo cristiano è fra quelli che teorizzano la speranza, anzi la certezza della vita oltre la morte, e invece questo personaggio si àncora alla ragione dei fatti terreni, senza nemmeno immaginare di poter menzionare, neanche a titolo consolatorio, la questione. L’era del disincanto, tutta addosso al personaggio della sorella della madre, Florina (Fracassi) è quella che ha bisogno di affrontare il trapasso come evento baumaniano, da archiviare il prima possibile, per tornare a una normalità narcotizzata. Il suo ritorno nella trama, qualche giorno dopo la tragedia, la vede in una mise che non ha più nulla della condoglianza in senso etimologico. Arrivano anche i figli di lei, provinciali in città, tutti tirati per l’occasione, che, prima di andare dalla zia, si sono affrettati a fare compere nei magazzini alla moda, palpabilmente educati a valori assai distanti da quelli della protagonista, a cui invece si avvicina nella sua semplicità ingenua e sensibile la giovane ragazza che il figlio aveva scelto come fidanzata.
A Pirandello bastano poche pennellate per accennare tutti questi caratteri, rendendoli palpabilmente connotati: è per questo che le prove attorali di ciascuno risultano rilevanti anche nel poco.
Al di là del dramma materno, infatti, c’è tutta una precisissima ma oscura costruzione, verrebbe da dire di meccanica quantistica, che aiuta con piccolissimi tasselli a creare proprio la sospensione filosofica che porta al finale, a specificare quello stato limbico che la protagonista è capace di trasmettere anche alla giovane fidanzata del figlio deceduto, che si scoprirà esserne rimasta incinta, inverando quindi il tema del figlio che in qualche modo è ancora vivo. Simboliche sono le presenze floreali ossessive con cui la madre riempie la stanza del figlio.
Il dilemma della seconda parte della creazione ruota proprio intorno alla relazione fra la madre e la giovane donna, al tentativo di convincerla a tenere il figlio e a rimanere con lei, invitando anche lei a tenere in vita il figlio, in modo tanto convincente che alla fine, in una battuta, la giovane arriva a dire: “sì, lo vedo”, come se quella presenza ormai svanita tornasse a materializzarsi.
La recita, pur di impianto assolutamente tradizionale, gioca sul ruolo, anche straniante a primo sguardo, della vicenda ricostruita dentro un ambiente così retrò, come se questo pensiero fosse in certa forma storicizzato in un ideale tempo pirandelliano, un piccolo mondo antico, in una scrittura e di un gesto scenico lontani da noi.
Ma questo effetto paradossale che l’ambientazione conferisce alla vicenda, con l’andare della drammaturgia, finisce per rafforzare la parola di Pirandello, capace di sovrastare il connotato geografico e di farsi spazio psichico assoluto, cosa a cui il regista arriva effettivamente nel finale quando tutto questo segno evapora per lasciare lo spettatore con una visione quasi metafisica in cui la donna sdraiata sul letto viene svegliata e accarezzata dal figlio morto, una sorta di pietà al contrario, in cui il morto vivificato tiene in vita con la sua essenza spirituale, il vivo mortificato.
La reazione della platea è stata sempre calorosa nelle recite che si sono fin qui succedute, e certamente continuerà ad accompagnare questo lavoro anche nelle prossime repliche, riconoscendo il giusto tributo a tutta la squadra di interpreti, che comprende sia attrici e attori di grande esperienza che i giovanissimi: questi pur con le loro piccole parti, sono impegnati ad attribuire a quei pochi tratti di pennello il valore tonale capace di far sbalzare quelle figure e di inserirle in maniera appropriata nel delicatissimo equilibrio di pesi e contrappesi immaginato da Pirandello: uno spettacolo che vale assolutamente la pena di vedere.
LA VITA CHE TI DIEDI
di Luigi Pirandello
regia Stéphane Braunschweig
con Daria Deflorian, Federica Fracassi, Cecilia Bertozzi, Fulvio Pepe, Enrica Origo, Caterina Tieghi, Fabrizio Costella
scene Stéphane Braunschweig in collaborazione con Lisetta Buccellato
costumi Lisetta Buccellato
luci Marion Hewlett
suono Filippo Conti
assistente regia Giulia Odetto
produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale