EUGENIO MIRONE | Martedì 7 maggio si è conclusa ufficialmente la settima edizione di FOG Triennale Milano Performing Arts, il festival di Triennale Milano dedicato alle più innovative espressioni della live art internazionale tra teatro, danza e musica. Dall’8 febbraio, per tre mesi, negli spazi del Palazzo dell’Arte di Viale Alemagna ed in parte del territorio milanese, il pubblico della città ha potuto assistere ai lavori di 48 artisti e compagnie provenienti da 14 paesi del mondo (Giappone, Brasile, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Francia, Svizzera, Grecia, Portogallo, Capo Verde, Italia, Australia, Islanda, Stati Uniti), per un totale di oltre 15.000 presenze. Sono numeri importanti se si considera che a Milano la scighera (nebbia) è cosa ormai rara a vedersi.
Dal 2018 FOG però ha saputo imporsi nella scena contemporanea italiana e internazionale con un progetto in grado di favorire l’interazione tra discipline artistiche e il dialogo con la città. «Anche questa edizione – dichiara Umberto Angelini, direttore artistico di Triennale Milano Teatro – forte della presenza di grandi artisti, coproduzioni internazionali e grande partecipazione di pubblico, consolida il radicamento del festival nel panorama europeo. Un successo che premia il lavoro di squadra e la capacità di attivare positive collaborazioni cittadine e internazionali».

Foto di Laurent Philippe

Dopo aver assistito nella giornata di apertura del festival alla prima italiana di La Sposa e Buonanotte Cenerentola di Carolina Bianchi (qui la recensione per PAC), siamo tornati al FOG in occasione della presenza a Milano di (LA)HORDE per la chiusura del festival. Trattandosi di un collettivo di coreografi e artisti visivi, nell’intenzione dei fondatori Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel il nome scelto alla nascita di (LA)HORDE, avvenuta nel 2013, voleva riprendere l’idea di gruppo aperto potenzialmente in grado di creare qualcosa più grande dei singoli performer. L’aggiunta dell’articolo femminile francese tra parentesi, invece, ha lo scopo di avvicinare il pubblico alle questioni di genere esprimendo il pensiero non binario del collettivo.
In poco più di dieci anni di attività il collettivo (LA)HORDE si è imposto come una delle realtà performative più dirompenti della scena internazionale, come dimostrano le collaborazioni con artisti del calibro di Madonna e Sam Smith. Al centro dell’indagine del gruppo francese c’è la componente politica che si riscontra nelle diverse forme della danza, dai rave alle danze tradizionali, con particolare attenzione al panorama relativo alla danza in seguito all’avvento di internet.

Al pubblico del festival è stata data la possibilità di conoscere a fondo la poetica di (LA)HORDE grazie alla proiezione dei lavori audiovisivi più iconici del collettivo. Ed è proprio dallo sviluppo di uno dei video in rassegna, il cortometraggio Novaciéries (2015, Best short film all’InShadow Festival di Lisbona), che nasce To Da Bone, la performance costruita appositamente per gli spazi della Triennale.

La galleria al primo piano dell’edificio ha uno sviluppo a ferro di cavallo, gli spettatori vi accedono completamente avvolti da un denso strato di fumo sul sottofondo di un beat techno martellante. Al centro esatto dell’emiciclo si trova, infatti, una postazione audio dove il dj Boe Strummer produce la sua musica con indosso una maglietta con la scritta “nobody is free until Palestine is free”. Il pubblico si dispone sui lati del corridoio accanto a freddi tubi a led che con la loro luce fendono l’ambiente nebbioso contribuendo alla creazione di un’atmosfera straniante.
Già, perché undici ballerini vestiti con tute multicolore e scarpe sportive si aggirano quieti per il centro della galleria. Poi a intermittenza ciascuno dei performer comincia a esibirsi in sequenze di diversi balli dell’era “post-internet” tra cui Tekstyle, lo Shuffle, l’Hakken. Il protagonista principale è però il Jumpstyle, un ballo nato all’interno del genere musicale electro dance alla fine degli anni ’90 in Belgio.

Tutte queste danze, in particolare il Jumpstyle, hanno in comune il legame con il mondo di internet: i praticanti, spesso autodidatti, cominciano con il postare i video girati nelle proprie camerette, la passione comune circola sui social fino a raggiungere spazi fisici. Si creano così gruppi di “jumpers” che filmano le loro sequenze e le pubblicano online alimentando battaglie virtuali che possono sfociare in competizioni reali attraverso gli incontri che avvengono in giro per l’Europa.
A livello tecnico si tratta di danze molto fisiche e intense per chi le pratica, una sequenza infatti non dura mai più di qualche decina di secondi. La parte del corpo maggiormente coinvolta è quella inferiore con le gambe che si agitano in scatti nervosi seguendo il battere di beat binari e martellanti, mentre le braccia e il resto del corpo ne assecondano i movimenti.

Così sul crescere di un remix del celebre brano Blue degli Eiffel 65, gli undici performer, accorpati fra loro, cominciano a danzare in quella che sembra una marcia all’unisono sul posto. Poi mentre il gruppo segue questo pattern, alcuni dei membri si staccano a turno per creare assoli o duetti coreografici tra salti, calci e piroette. I danzatori si allontanano e si ritrovano, si intersecano per creare formazioni geometriche dal perimetro in costante espansione e contrazione.
La danza segue il ritmo della musica nel suo andamento sinusoidale: a momenti più blandi, in cui i performer hanno modo di riprendere fiato, seguono picchi di energia dove le casse vibrano al massimo e la danza esplode. L’apice dell’intensità giunge nel momento di chiusura in cui i danzatori creano un cypher, un cerchio di persone costruito insieme al pubblico che supporta i performer, a turno coinvolti in sequenze freestyle al suo interno.

Foto di Lorenzo Palmieri

Diversi elementi provenienti altri tipi di danze sembrano esser stati integrati per contaminazione all’interno del Jumpstyle: il rigido movimento delle gambe ricorda il ballo tradizionale irlandese, mentre le sezioni corali in cui gli arti inferiori sono sempre i più coinvolti sembrano rifarsi alle danze folkloriche russe. Non di rado i performer danno dimostrazione di saper combinare nella coreografia calci tirati al vento come nelle arti marziali, così, quando il gruppo di ballerini si muove compatto pare di vedere una sessione di ginnastica cinese.
Non mancano però anche movimenti più sinuosi, tra cui anche le piroette, che strizzano l’occhio alla danza classica. Il tutto però è compiuto in uno stile ben marcato dall’energia selvaggia e dirompente con cui viene compito ogni gesto. Alcuni tra il pubblico si lasciano andare ad accenni di danza, il desiderio di sfogo è contagioso.

Ad oggi migliaia di giovani popolano i più famosi festival di musica elettronica o si organizzano in rave, per sfogarsi nella più totale libertà. Quando le casse si spengono, però, spesso accade che ognuno torni a casa scarico, incapace di fare progetti.
Anche To Da Bone è un’energica esplosione di corpi, il passo ulteriore è quello di accendere la miccia in un contesto teatrale, all’interno di un’architettura appositamente studiata e animata da luci e musica elettronica live. In scena si porta la ribellione intima della gioventù generata sui nuovi media che ormai giocano un ruolo essenziale nel mobilitare le folle e nel creare movimenti di opposizione.
Il secolo scorso ha portato alla ribalta il tema della ribellione giovanile, forse che ultimamente ce ne si compiace ancora troppo? È bene ricordare che dalla rottura di un atomo si può ottenere energia, e questa può essere utilizzata per far esplodere bombe o  per illuminare una città. Se è vero che l’energia non si distrugge ma si trasforma, si può pensare che alla fase ribellione ne segua una di costruzione?

TA DA BONE

regia e coreografia (LA)HORDE
dj Boe Strummer
dancers Magali Casters, Quentin Gars, Kevin Martinelli, Paweł Nowicki, Bartłomiej Paruszewski, Edgar Scassa, Andrii Shkapoid, Michał Żybura
produzione (LA)HORDE, Ballet national de Marseille

Triennale Teatro, Milano | 7 maggio 2024