VALENTINA SORTE | Si è conclusa il 12 maggio a Bergamo l’undicesima edizione di ORLANDO, festival promosso dall’Associazione Culturale Immaginare Orlando e da Laboratorio 80, diretto per la prima volta dalla coreografa Elisabetta Consonni, dopo la guida decennale del suo fondatore, Mauro Danesi.
Ispirato dalle parole di Donna Haraway, il festival ha voluto mettere al centro della sua programmazione il tema delle infinite connessioni e possibilità di relazioni o, meglio, la capacità/volontà di creare connessioni con chi o ciò che ancora non si conosce: «Abbiamo bisogno di storie abbastanza grandi da contenere le complessità e mantenere gli argini e i confini aperti e affamati di nuove e vecchie connessioni capaci di sorprenderci».
Nei dieci giorni di festival il palinsesto di ORLANDO ha intrecciato proposte molto diverse – performance, incontri, danza e cinema – coinvolgendo molti luoghi e partner della vita culturale e sociale della città. Tra i lavori che abbiamo seguito, quelli più interessanti ci sono sembrati As Far As My Fingertips Get Me, presso la Polveriera Superiore di San Marco in città alta, Un’Anagrafe Fantastica, in Piazza della Libertà e, in Parco Caprotti, Daughters.
As Far As My Fingertips Get Me affronta il tema della separazione dai propri affetti e dalla propria terra, attraverso una conversazione tattile, molto intima, pensata per uno spettatore alla volta. Il lavoro è nato da un’idea di Tania El Khoury, artista libanese famosa per le sue installazioni e performance interattive che mirano a un’interazione diretta con il pubblico. In questo caso una semplice parete bianca separa lo spettatore dal performer – l’artista palestinese Basel Zaraa – e solo una piccola apertura permette la comunicazione tra i due. È ovviamente una frontiera simbolica: sul concetto di frontiera che si costruisce infatti l’intera performance.
Lo spettatore si siede accanto alla parete, indossa le cuffie che lì trova appoggiate e una voce lo invita a infilare un braccio nell’apertura. Inizia ad apprendere la storia personale dell’artista e della sua famiglia attraverso le parole in cuffia, ma allo stesso tempo quella storia viene disegnata sul suo avambraccio. La narrazione si sviluppa così su più livelli sensoriali: sonoro e tattile. Mentre la voce narra e/o canta la violenza dell’esilio forzato nel campo profughi in Siria e le discriminazioni subite alle frontiere – da Damasco alla Svezia – lo spettatore cerca di decodificare i segni sul proprio corpo. Non è però un’operazione così facile.
Ogni sensazione ha una doppia lettura: i gesti del performer sono molto delicati ed esprimono una grande attenzione e cura verso l’altro, non gli procurano nessun dolore fisico, ma il contesto a cui rimandano è brutale. Zaraa inchiostra i polpastrelli dello spettatore «così come ai rifugiati vengono prese le impronte digitali»; Zaraa “incide” dei segni sulla sua pelle «così come le ferite rimangono incise sui corpi e nei ricordi dei rifugiati»; Zaraa, ancora, versa gocce d’acqua sull’avambraccio a ricordare «come i profughi attraversano (e naufragano) il mare».
È in questo interstizio, in questa sfasatura narrativa che la performance riesce a toccare emotivamente lo spettatore e a interrogarlo sulla sua capacità di empatia verso la sofferenza altrui, in particolar modo verso chi ha vissuto esperienze diasporiche. Una storia personale diventa in questo modo collettiva, poiché intimamente condivisa. Una storia grande che crea connessioni.
Molto diversa la proposta di Un’Anagrafe Fantastica, vero e proprio cuore pulsante del Festival. Concepita dal team di ORLANDO come un laboratorio di attività pratiche e dibattiti per riflettere a più voci sul tema delle identità, Un’ Anagrafe ha aperto i suoi uffici immaginari in Piazza della Libertà – spazio pubblico e aperto – per coinvolgere non solo il pubblico del festival, ma tutta la comunità civile.
Passando da un ufficio all’altro, seduto attorno a un tavolo o su un divano, lo spettatore esce da una dimensione normativa dell’identità per entrare in una dimensione più intima e dialogica, in cui il confronto con l’altro diventa occasione di vero scambio. Mentre si compila la propria carta d’identità immaginaria, emergono forti i temi della narrazione di se stessi e dell’autodeterminazione. Quali domande vorremmo ci fossero fatte o non fatte per la compilazione di una carta d’identità? Come ci raccontiamo? Qual è la nostra storia? E ancora: come raccontiamo le nostre relazioni, quelle che consideriamo “di famiglia”? In un altro ufficio, per l’appunto, chiamato “Stati di sfamiglia”, ci si interroga su quali sistemi di relazioni vorremmo vedere riconosciuti, oltre a quelli biologici e ufficiali. Possiamo includere nel nostro certificato ideale tutti quei legami di parentela non riproduttiva e tutte quelle alleanze elettive, trasversali e responsabili – il cosiddetto making oddkin di Donna Haraway – che fanno parte della nostra rete affettiva?
Nell’ufficio “Abitare, andare”, questione fondamentale è stata, invece, quella sul senso di appartenenza ai luoghi in cui abbiamo vissuto o in cui vorremmo abitare, e in senso più generale, sul diritto ad abitare. Pescando da un mazzo di carte, gli spettatori rispondono a domande-stimolo: chi fare entrare nella propria casa? A chi chiedere, invece, ospitalità? Quali luoghi includere nel proprio certificato di residenza? Quando ci si sente a casa?
Un lavoro estremamente efficace quello del team di ORLANDO , perché attraverso questo cantiere a cielo aperto, plurale e inclusivo è riuscito a indagare la questione delle identità e delle relazioni personali come elementi vitali, complessi, in continuo mutamento, anziché come norme o etichette.
Non lontano da Piazza della Libertà, all’interno del Parco Caprotti, anche Daughters di Teodora Grano ha offerto un punto di vista interessante sul tema della parentela e della genitorialità non biologica. Partendo da uno spunto autobiografico, l’artista riflette sulle relazioni cui mancano ancora definizioni, sulle forme cui manca il nome. In questa cornice narrativa, autobiografica appunto, la questione formale non è affatto laterale: la performance indaga e scava proprio in quelle forme ibride tra scrittura e danza.
Dalle vetrate del Padiglione del Tè, il pubblico osserva la giovane performer che, all’esterno, compone la sua coreografia, il suo alfabeto fatto di piccoli gesti e di continui avvicinamenti/allontamenti. Contemporaneamente, all’interno del padiglione, lo spettatore vede scorrere su un pannello il suo monologo interiore.
Ho una figlia, ma non sono sua madre. E non abbiamo in comune nessuna parte // del nostro corredo genetico. Sono io che le somiglio tantissimo. // Quando ci chiedono cosa siamo, noi non sappiamo cosa dire. // Ci guardiamo. E sorridiamo. // Quel sorriso, è una parola segreta.”
La scrittura e la poesia assumono vera e propria fisicità, diventando canale comunicativo che diventa, a sua volta, coreografico e viceversa. Il lavoro si sottrae così aduna lettura univoca chiamando in causa lo spettatore, di volta in volta posto davanti a una scelta: privilegiare il gesto o la parola? Dove direzionare il proprio sguardo? La sua visione non è mai frontale o fissa ma cambia continuamente, sfugge, rimbalza. Si tratta di uno sguardo diverso, forse uno sguardo nuovo, adatto a forme che non hanno ancora un nome. Teodora Grano offre con Daughters uno spettacolo particolare e intelligente, per nulla scontato.
E ancora una volta ORLANDO è riuscito ad essere un festival coraggioso, impegnato, divertente e visionario, capace di restituire la complessità di un mondo sempre più plurale.
ORLANDO FESTIVAL, Bergamo | 03-12 maggio 2024
AS FAR AS MY FINGERTIPS TAKE ME
di Tania El Khoury
con Basel Zaraa
Musiche di Basel Zaraa (voce, basso e tastiera) con Emily Churchill Zaraa (voce), Pete Churchill (produzione musicale) and Katie Stevens (flauto e clarinetto).
Commissionato da “On the Move” LIFT 2016 in partnership con Royal Court Theatre, Londra.
UN’ANAGRAFE FANTASTICA
un progetto pensato e realizzato da Lucio Guarinoni, Sophie Hames, Sara Moioli, Selene Cilluffo, Martina Bassanelli, Giorgia Di Giusto, Letizia Capelli, Francesca Pellicioli, Elisabetta Consonni.
DAUGHTERS
ideazione, scritti, movimento: Teodora Grano
composizione sonora: Massimo Pupillo
supporto artistico e complicità: Arianna Lodeserto (editor), Marco Calzolari (proiezioni), Daria Greco (movement research)
con il supporto di: CollettivO CineticO nell’ambito del progetto IPERCINETICO
con il sostegno di: supportER, progetto di sostegno per giovani autori dell’Emilia-Romagna promosso e sostenuto dalla rete Anticorpi Emilia-Romagna; L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Teatro Petrella di Longiano “Vorrei fare con te quello che la primavera con i ciliegi” – percorsi di accoglienza e residenza per creazioni coreografiche e di Collettivo Amigdala/ovestlab
Nell’ambito del progetto di ricerca e mentoring AROUND A PROCESS OF MAKING – Marosi
Nell’ambito del progetto residenza tecnica τέχνη – téchne 2023, Lavanderia a Vapore