ELENA SCOLARI | Spostare un’acca è un’azione grammatica. O drammatica? il regista polacco Łukasz Twarkowski – attualmente impegnato con la nuova produzione Respublika al Kunstenfestivaldesarts in Belgio – mette in scena Rohtko dal testo di Anka Herbut, drammaturga teatrale e per la danza – ispirato all’immenso artista di origini ucraine Mark Rothko (nato Marcus Rotkovitch in una città nell’attuale Lettonia), e sposta l’acca nel suo cognome. Per chi se ne accorge è così subito dichiarato che si parlerà di alterazioni, di manipolazioni nell’arte, ad arte.
Il fatto da cui tutto prende inizio è la notizia del falso quadro di Rothko Untitled 1956 venduto nel 2004 per 8,3 milioni di dollari da una famosa galleria d’arte di New York (la Knoedler & Co.) a un malcapitato e straricco collezionista. La galleria era abbastanza specializzata in frodi – non è subito chiaro se volontarie o meno –, infatti ha venduto anche falsi Pollock e falsi De Kooning e, schiacciata dalle cause legali, ha chiuso i battenti nel 2011 dopo 165 anni di attività. Tutto sommato al collezionista poteva andare molto peggio: un vero Rothko è stato battuto all’asta nel 2021 per dieci volte tanto, 82,5 milioni di dollari.
Il falsario era un immigrato cinese.
Twarkowski è un videoartista prima di essere regista; nella sua biografia, più precisamente, si legge che è “un creatore di performance multimediali che combinano teatro e arti visive; cala i suoi progetti in contesti di realtà aumentata attraverso la multimedialità. Elemento cruciale del suo lavoro creativo è investigare le possibilità e i limiti del teatro come mezzo e strumento di comunicazione”. La magnificente macchina di Rohtko accosta il teatro recitato dai dodici bravissimi attori in carne e ossa a loro stessi duplicati in video, ripresi in tempo reale. Anche se più che reale qui il tempo è anch’esso raddoppiato e poi moltiplicato.
La scena di Fabien Lédé è divisa in due fasce: sotto c’è la ricostruzione in scala 1:1 del ristorante cinese di Mr. Chow a New York, a destra il locale negli anni ’60 quando era frequentato da Hopper, Pollock, De Kooning, Rothko, acquirenti e altri vip, a destra lo stesso nel 2004, a fattaccio scoperto; sopra c’è un grandissimo schermo, talvolta frazionato in due parti, largo quanto entrambe le epoche del ristorante, diciamo venti metri per quattro di altezza, a spanne.
Come abbiamo già visto tante volte, i cameraman si aggirano tra gli attori, i quali recitano ignorandoli, proprio come si fa al cinema, e infatti quello che vediamo nella metà superiore della scena è cinema. È un altro tipo di recitazione. La definizione delle riprese è di una tale qualità da far diventare davvero un film, di stile espressionista, ciò che riempie lo schermo; le grandi facce, i grandi bicchieri, le grandi bottigliette di acqua S. Pellegrino sono il dettaglio zoomato delle scene d’insieme che si consumano nella parte inferiore, quella – per così dire – viva.
Il tempo di questo iper-spettacolo è un punto importante. Scorre su due binari: uno è quello delle due epoche compresenti citate prima e l’altro è quello che unisce i personaggi e noi spettatori in platea: passiamo quasi quattro ore in sala insieme e a un certo punto siamo anche noi da Mr Chow, avvolti dalle stesse luci rosse (curate da Eugenijus Sabaliauskas) del locale diffuse in tutto il Teatro Strehler e dagli stessi suoni (di Lubomir Grzelak). Ma più dei momenti in cui la musica è ad altissimo volume e fa vibrare lo sterno, è il basso, soffuso e continuo sottofondo che mixa note a chiacchiericcio, riprodotto con effetto surround, che produce l’impressione di essere seduti a un tavolo del ristorante.
In questo spazio, in maniera fluida e senza troppo preoccuparsi di una linea leggibile, abitano un giornalista che ci racconta la storia, coadiuvato da alcune scritte informative, la gallerista pirata chic, il collezionista gabbato (piuttosto chic pure lui), un borioso curatore di museo in completo celeste, la bellissima cameriera di Chow, un esperto d’arte che, un po’ schifato dal mercimonio, ha scelto di fare il tecnico e non il curatore; un attore e un’attrice di teatro che offrono qualche bella osservazione sull’evanescenza del teatro, il cuoco cinese e la moglie, i coniugi Rothko. I costumi di Svenja Gassen sono eleganti per chi deve sembrare tale, contemporanei e adatti a stare su grande schermo gli altri.
I dialoghi non sono serrati, hanno il ritmo della vita, si susseguono come le situazioni. La lente d’ingrandimento è sulla conversazione tra la gallerista e il tecnico, mentre al bancone discutono il curatore e il giornalista e poi i personaggi cambiano, seguiamo qualcun altro.
Di cosa si parla da Mr Chow? Di come si arrivi a quotare un’opera, di quanto l’essere esposti in certi musei faccia crescere il valore dell’artista, della libertà dell’artista che entra, volente o nolente, in un mercato, del ruolo dei galleristi, del senso del possedere un’opera che non esiste (è solo un file digitale), comprata con denaro che non esiste (bitcoin), con un certificato di proprietà che non esiste (NFT ovvero Not Fungible Token).
Il più interessante degli interrogativi è però quello legato al punto di partenza: un’opera falsa è meno bella, emoziona meno di una autentica? Eh, bella questione.
Questo lavoro di Twarkowski viene definito monumentale, mastodontico, grandioso, spettacolare. Senza dubbio per le dimensioni delle scenografie, degli schermi, il numero di attori coinvolti, le quantità massicce di tecnici d’ogni tipo, la potenza audio utilizzata, l’opulenza visiva. Rohtko è indubbiamente un superdotato. Le dimensioni contano, si sa; ed è altresì vero che, in un caso come questo, non si possono scindere dal carattere complessivo dello spettacolo: il gigantismo ne è qualità intrinseca.
Reso merito del giustificato ‘effetto wow’ perfettamente e faraonicamente costruito, sofisticato e con una nebbia di nostalgica malinconia sottesa al fasto esteriore, la riflessione sul valore dell’arte che ne scaturisce non è altrettanto grandiosa.
La critica al capitalismo che faceva Mark Rothko cinquanta anni fa era certo più significativa di quella che oggi facciamo più o meno tutti e le domande veramente nuove sono forse quelle sul digitale perché sul resto si sono brillantemente espressi, per citare solo due dei tantissimi esempi possibili, il filosofo e sociologo Jean Baudrillard (La sparizione dell’arte, 1988, ed. Feltrinelli) e l’artista americano Joseph Kosuth: l’uno con la riflessione sull’arte entrata ovunque nella realtà, e l’altro con la speculazione sul concetto di riproduzione e copia dell’oggetto artistico.
Nello spettacolo vediamo chiaramente che l’artista Rothko era un uomo impossibile, aveva un caratteraccio, promise e realizzò numerose tele che avrebbero dovuto essere collocate nel ristorante Four Seasons nel Seagrum Building di New York e poi rescisse il contratto perché disgustato dall’idea che la gente mangiasse sotto i suoi quadri e regalò le opere alla Tate Gallery di Londra. Beveva, si ammalò di cirrosi e si uccise prima che fosse la malattia a farlo. Discuteva molto con la moglie, ovviamente all’ombra del grande pittore nonostante fosse un’ottima illustratrice. Li vediamo nel lettone della loro camera da letto, che si inserisce davanti al locale cinese, lui in mutande, lei in camicia, sempre mentre dietro trafficano tutti gli altri, ogni tanto ballano su coreografie di gruppo, in una profondità di spazio amplificata dalle riprese.
Nella generale “rutilanza” pirotecnica c’è spazio per un momento intimo e minimalista in cui l’attrice che interpreta la cameriera avanza in proscenio, con un parziale buio dietro, e descrive la performance non realizzata di un’artista che si sarebbe messa davanti a un’opera di Rothko, appesa bassa come suggeriva l’autore, mettendosi a 45 centimetri di distanza per essere meglio risucchiata dall’opera stessa e avrebbe raccolto in ampolle le sue lacrime di commozione, per donarle ai posteri, quando nessuno avrebbe più pianto davanti a un quadro, né di Rothko né di altri. L’artista si è tolta la vita prima di mettere in pratica l’azione.
Chi ha avuto la fortuna di stare davanti a un quadro di Rothko sa che in quei monocromi si vedono campi, terre, mari. Materia spessa e materia leggera. Nelle linee di confine tra i colori ci sono profili di città, esplosioni, schizzi di mare, orizzonti. Quei rettangoli sfumati sono distese di sabbia, sono il rosso delle corride, il grigio del cemento, il viola delle viole, il nero della notte o della paura. Esce una luce speciale da tele enormi che ti risucchiano dentro un gorgo infinito di astrazione purissima.
La punta di forza della sua purezza estetica rimane invincibile.
Twarkowski astrae le domande e il corpo degli attori con una moltiplicazione di piani in cui si triplicano e quadruplicano i personaggi, le loro immagini in video, i modellini che riproducono la scena esposti in una mostra che viene inaugurata davanti a noi, sul palco, portandoci alla fine di un’esperienza i cui confini sfumano, come le linee di pigmento.
Il regista e la sua moltitudine, di attori e di tecnici, suggeriscono, con mezzi fastosi, quanto mondo può esserci in una creazione artistica quando riesce a inglobare nella stessa bolla l’opera e chi la guarda.
ROHTKO
di Anka Herbut
regia Łukasz Twarkowski
con Juris Bartkevičs, Kaspars Dumburs, Toms Veličko, Ērika Eglija-Grāvele, Yan Huang, Andrzej Jakubczyk, Rēzija Kalniņa, Katarzyna Osipuk, Artūrs Skrastiņš, Mārtiņš Upenieks, Vita Vārpiņa, Xiaochen Wang
scene Fabien Lédé
costumi Svenja Gassen
musica Lubomir Grzelak
video Jakub Lech
luci Eugenijus Sabaliauskas
coreografie Pawel Sakowicz
assistenti alla regia Mārtiņš Gūtmanis, Diāna Kaijaka, Adam Zduńczyk
assistente alla drammaturgia Linda Šterna
assistente ai costumi Bastian Stein
assistente ai video Adam Zduńczyk
cameramen Arturs Gruzdiņš, Jonatāns Goba
direttrice di scena Iveta Boša
produttrice esecutiva Ginta Tropa
produzione e distribuzione internazionale Vidas Bizunevicius (NewError)
produzione Dailes Theatre, in coproduzione con JK Opole Theatre e Adam Mickiewicz Institute e il cofinanziamento del Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia
Piccolo Teatro Strehler, Milano | 18 maggio 2024