EDGARDO BELLINI | «Nella vita di tutti i giorni “se” è una fantasia, nel teatro “se” è un esperimento. Nella vita di tutti i giorni “se” è un’evasione, nel teatro “se” è la verità». Così scrive Peter Brook nella sua celebre raccolta di saggi Lo spazio vuoto, a sottolineare l’inutilità di un teatro senza ipotesi e senza rischi. Mi è tornata in mente questa citazione nel finale di One song, quando uno dei personaggi esibisce fra le altre una tavoletta di gesso su cui campeggia a rilievo un grande «IF», come se fosse una dichiarazione di programma a sigillare in coda il lavoro: signore e signori, questo spettacolo si offre come una possibilità di teatro, che la vostra partecipazione legittimerà o sconfesserà; come un esperimento, per dirla proprio con Brook, che elude il canone della forma e sfida con imprudenza il sistema delle attese. Miet Warlop, artista polimorfa, accentua la dimensione iper-performativa dell’opera rinunciando quasi del tutto alla rilevanza del testo verbale; e sottopone gli attori ad una tale prova di sforzo fisico che a un certo punto si apre davvero, di replica in replica, lo spazio dell’incertezza. Nel gioco teatrale, vero o finto che sia, lo spettatore percepisce che l’attore è sollecitato al limite delle sue forze, e dunque suscettibile di deragliare in modo imprevedibile dalla partitura scenica.
Quel che accade sul palco è semplice da raccontare: cinque personaggi partecipano ad una sfida atletica che è al tempo stesso una prova musicale: il contrabbassista pizzica le corde mentre fa gli addominali, la violinista suona muovendosi in equilibrio su una trave, il tastierista raggiunge il suo strumento saltando in continuazione, il cantante corre senza sosta su un tappetino, il percussionista si muove avanti e indietro perché la sua batteria è disseminata sul palco. Ogni altro elemento allude alla competizione sportiva, con un gruppetto di fan che sostiene fisicamente il ritmo ed un infaticabile cheerleader impegnato in un’estrosa coreografia a scorrere dietro la performance musicale come fosse un fregio continuo. Eppure i cinque sfidanti non si sopraffanno a vicenda ma anzi, è la loro cooperazione che riempie di senso e di energia la scena, e dà vita alla canzone che si ripete all’infinito: «Run for your life / ‘till you die / ‘till i die / ‘till we all die». La musica, il testo, i movimenti ripartono continuamente daccapo con variazioni di ritmo, d’intensità, di difficoltà, coinvolgendo il pubblico in una sorta di mantra rock che rende seducente la routine con una vitalità straordinaria: non rappresentata, ma agita, come un morso di vita a cui, anche nei momenti estremi, non manca lo slancio, la gioia, persino la comicità.
Commissionata dal regista svizzero Milo Rau come quarta tappa del progetto «Histoire(s) du Théatre», nel 2022 l’opera di Miet Warlop è entrata nel cartellone principale del Festival di Avignone, entusiasmando il pubblico; con la sua forza comunicativa, che oltrepassa la grammatica abituale del fatto scenico, One song è stata segnalata con insolito fervore anche dalla critica internazionale presente al Festival. Un lavoro orgogliosamente pop, la cui semantica vive di metafore trasparenti: lo sforzo, il dolore, la collaborazione come risposta all’individualismo, la reciprocità. Ma è nella qualità del gesto collettivo, così puntualmente progettato e concertato, che questa invenzione scenica si fa profondamente teatro. Un’esattezza sinfonica che però diventa sempre più rischiosa man mano che la rappresentazione si avvicina alla fine. Anche qui, come la vita.
Si deve riconoscere a Daniele e Gabriele Russo, direttori del Teatro Bellini di Napoli, l’intelligenza artistica di aver selezionato questo lavoro – in Italia visto finora solo allo Strehler di Milano – per concludere la stagione in corso; teatro vivo, contemporaneo nel senso più onesto della parola: pop senza soggezione, leggibile senza vergogna. Una parte del pubblico napoletano appare a tratti spiazzato. “Che significa?” è la domanda che rimbalza in platea fra i meno giovani, come se l’arte avesse sempre bisogno del corrispettivo di una versione in prosa per avere senso. Alla fine l’irruenza emotiva della performance vince sulla prudenza dei titubanti, e l’applauso scatta sincero.
Viene allora da fare una semplice considerazione. Mentre una buona parte degli stabili nazionali inseguono prodotti ad alta digeribilità, rifacimenti spesso inutili, noiose riletture e pedanti banalità – il teatro “mortale”, per chiamare in causa ancora una volta Brook – un coraggioso Tric napoletano investe su un fenomeno artistico di rilevanza europea, portando un po’ di ossigeno creativo in città. Se questa è la direzione imposta dalla normativa nazionale sul teatro, cosa ne sarà degli spettatori fra dieci anni? Ci sarà ancora la forza e la possibilità di osare, che poi significa semplicemente restare in linea con la vitalità creativa del resto d’Europa? O dovremo rassegnarci a vedere la scena saturata da operazioni cariche di noia, di conformità, di spettacoli che sembrano nient’altro che televisione dal vivo? Per adesso, chapeau a Miet Warlop e al Teatro Bellini.
ONE SONG – Historie(s) du Théâtre IV
concept, regia e scenografia Miet Warlop
con Simon Beeckaert, Elisabeth Klinck, Willem Lenaerts, Milan Schudel, Melvin Slabbinck, Joppe Tanghe, Karin Tanghe, Wietse Tanghe e con Imran Alam, Stanislas Bruynseels, Judith Engelen, Flora Van Canneyt.
musica Maarten Van Cauwenberghe
testo della canzone Miet Warlop
con la consulenza artistica di Jeroen Olyslaegers
drammaturgia Giacomo Bisordi
costumi Carol Piron & Filles à Papa
suono Bart Van Hoydonck
luci Dennis Diels
produzione NTGent, Miet Warlop / Irene Wool vzw
coproduzione Festival d’Avignon, DE SINGEL (Anversa), Tandem Scène Nationale (Arras-Douai), Théâtre Dijon Bourgogne – Centre dramatique national (Dijon), HAU Hebbel am Ufer (Berlino), La Comédie de Valence – Centre dramatique national Drôme – Ardèche (Valenza), Teatre Lliure (Barcellona).
col supporto di Governo delle Fiandre, Città di Ghent, Tax Shelter del Governo Federale del Belgio con l’aiuto di Frans Brood Productions.
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«One song», an effort as tremendous and joyful as life
«In everyday life, “if” is a fiction, in the theatre “if” is an experiment. In everyday life, “if” is an evasion, in the theatre “if” is the truth». So wrote Peter Brook in his famous collection of essays The empty space, underlining the pointlessness of theatre without hypothesis and without risk. I was reminded of this quotation in the finale of «One song», when one of the characters displays, among others, a plaster tablet on which a large «IF» stands out in relief, as if it was a declaration of intent to seal the work at the end: ladies and gentlemen, this performance is offered as a possibility of theatre, which your participation will either validate or repudiate; as an experiment, as Brook himself says, which bypasses the canon of forms and imprudently challenges the system of expectations. Miet Warlop, a polymorphous artist, accentuates the hyper-performative dimension of the work by almost completely renouncing the relevance of the verbal text; and she submits the actors to such an ordeal of physical strain that at a certain point the space of uncertainty really opens up, from repetition to repetition. In the theatrical game, be it real or fake, the spectator perceives that the actor is pushed to the limits of his strength, and thus susceptible to derail unpredictably from the stage score.
What happens on stage is simple to describe: five characters take part in an athletic challenge which is at the same time a musical performance: the contrabass player picks the strings while doing crunches, the violinist plays while walking in balance on a beam, the keyboardist hits his instrument by jumping continuously, the singer runs endlessly on a mat, the percussionist moves back and forth as his drum kit is disseminated on stage. Every other element alludes to a sporting competition, with a group of fans physically supporting the rhythm and a tireless cheerleader engaged in a whimsical choreography flowing behind the musical performance as if it was a continuous frieze. Nevertheless, the five challengers do not overwhelm each other; on the contrary, it is their cooperation that fills the scene with sense and energy, and gives life to the endlessly repeating song: «Run for your life / ‘till you die / ‘till i die / ‘till we all die». The music, the lyrics, the movements start over and over again with variations in rhythm, intensity, difficulty, involving the audience in a sort of rock mantra that makes the routine seductive with an extraordinary vitality: not performed, but acted, like a bite of life that, even in the most extreme moments, does not lack rush, joy, even humour.
Commissioned by the Swiss director Milo Rau as the fourth step of the project «Histoire(s) du théatre», Miet Warlop’s work entered the main programme of the Avignon Festival in 2022, delighting the public. With its communicative force, which goes beyond the usual grammar of the stage act, «One song» was also highlighted with unusual fervour by the international critics present at the Festival. It is a proudly pop work, whose semantics lives on transparent metaphors: effort, pain, collaboration as a response to individualism, reciprocity. But it is in the quality of the collective gesture, so punctually designed and concerted, that this scenic invention becomes profoundly theatrical. A symphonic exactness that, however, gets more and more risky as the play nears its end. Again, like life.
Daniele and Gabriele Russo, directors of the Teatro Bellini in Naples, must be acknowledged for their artistic intelligence in having selected this work – in Italy seen so far only at the Teatro Strehler in Milan – to end the current season; alive theatre, contemporary in the most honest sense of the word: pop without awe, legible without shame. Part of the Neapolitan audience appears at times disoriented. «What does that mean?» is the question bouncing around the audience among the less young, as if art always needed the counterpart of a prose version to make sense. In the end, the emotional impetuosity of the performance wins over the caution of the hesitants, and the applause springs forth sincerely.
A simple consideration then occurs. While most of the national main theatres pursue highly digestible products, often unnecessary remakes, boring reinterpretations and pedantic trivialities – the “deadly” theatre, to invoke Brook once again – a courageous Neapolitan Tric invests in an artistic event of European relevance, bringing some creative oxygen to the city. If this is the direction imposed by the national theatre legislation, what will happen to the audience in ten years? Will there still be the courage and possibility to dare, which then simply means staying in line with the creative vitality of the rest of Europe? Or will we have to be resigned to seeing the stage saturated by operations charged with boredom, conformity, performances that seem like nothing more than live television? For the time being, chapeau to Miet Warlop and the Teatro Bellini.