VALENTINA SORTE | La stavamo aspettando. Rami d’ORA, la rassegna di arti performative promossa dal collettivo Laagam, è finalmente tornata ad animare i boschi e i sentieri delle Orobie valtellinesi, e ci accompagnerà fino al 30 giugno. Questa quarta edizione si irradierà da Castellaccio, quartier generale e cuore pulsante di ORAOrobie Residenze Artistiche, sino ai comuni di Sondrio, Tirano e Morbegno, arricchendo così la propria rete di collaborazioni e allargando il proprio pubblico. 

Al di là della qualità e dell’originalità delle proposte artistiche, l’accoglienza è ancora una volta la cifra di questa rassegna. Durante il primo week-end di apertura, il 24-25-26 maggio, Rami d’ORA ci ha fatto sentire a casa, anche se lontani da casa. Come? Che si tratti di una piazza affollata nel centro storico di una città, di un punto panoramico all’interno di un Complesso architettonico del XII secolo oppure di un palco immerso in un bosco, la direzione artistica del festival (Erica Meucci insieme a Francesca Siracusa, con la consulenza artistica di Riccardo Olivier) è riuscita a porre lo spettatore di fronte a delle importanti questioni, sia artistiche che personali, ma sempre in una cornice “domestica”, intima, molto informale. 

Il filo conduttore del festival è infatti “l’ingresso nel bosco” inteso non come luogo fisico, quanto come punto di accesso metaforico, come capacità di entrare in relazione con l’altro, in un ambiente altro dal nostro. I tre appuntamenti che hanno scandito il primo fine settimana hanno indagato, ognuno a suo modo, il concetto di distanza tra performer e pubblico e ci hanno permesso di sperimentare tre forme distinte di relazione tra spazio scenico e platea, spingendo la nostra riflessione un po’ più in là.   

C’è chi – come Mandafounis – ha provato ad annullare questa distanza, sia fisicamente che emotivamente, insistendo sul primissimo piano; c’è chi – come Michele Di Stefano – ha provato al contrario ad allargarla, lavorando sulla prospettiva aerea e sul campo lunghissimo; infine c’è chi – come Francesca Siracusa ha preferito il campo medio per lavorare, come un’equilibrista, su una distanza interiore. 

Il primo appuntamento è quello con il coreografo greco Ioannis Mandafounis. In Piazza Campello a Sondrio, delimitata a sinistra dalla Collegiata dei Santi Gervasio e Protasio e alle spalle dal Palazzo Pretorio, sede del Comune, ci sono due sedie – riservate al pubblico partecipante – e di fronte a queste, due performer – Anne-Charlotte Hubert e Antonin Mélon. La performance One One One inizia con un invito a sedersi. Il patto che viene sancito tra performer e spettatore è molto chiaro: si può rimanere seduti per tutto il tempo che si desidera, a condizione di mantenere il contatto visivo. Il performer prende e restituisce in danza ciò che lo spettatore ha ispirato in lui, attraverso lo sguardo. Non ci sono limiti. Tutte le suggestioni, tutti i movimenti e le espressioni che nascono dallo spettatore, si traducono in movimento.  

One One One_Viola Nedrotti

La piazza diventa così uno spazio di sperimentazione, e non di rappresentazione. Non esiste infatti alcun copione, ma una relazione emotiva tra il performer e lo spettatore che decide di occupare di volta in volta la sedia. Si tratta di un’esperienza consapevole e intima, a tratti disturbante. Disturbante perché da una parte il performer diventa una sorta di amplificatore degli stati d’animo dello spettatore che vede tradotti in uno spazio pubblico le sue sbavature intime, quelle che Nathalie Sarraute chiamerebbe tropismi. Quella trama quasi invisibile e inafferrabile, ma densa, di espressioni e movimenti che scivolano molto spesso ai limiti della nostra coscienza ma che sono all’origine dei nostri gesti e delle nostre parole. Ci si sente messi a nudo. 

Dall’altra parte è disturbante perché, anche se è vero che lo spettatore decide in autonomia di partecipare alla performance, non sempre ci si sente predisposti alla relazione o per lo meno ad uno sguardo troppo ravvicinato. In questo caso, in mancanza di una relazione autentica, la danza rischia di diventare copione. I due performer, Anne-Charlotte Hubert e Antonin Mélon, sono però molto bravi a usare lo spazio come misura emotiva all’interno della relazione che si crea con lo spettatore. La Piazza Campello consente di modulare le distanze in base al peso emotivo dello sguardo, spaziando da un contatto molto intimo e privato, a tratti esclusivo, ad una dimensione più ludica e plurale, totalmente pubblica, e per questo forse meno pericolosa. Personalmente ritengo che i momenti più riusciti, in termini di autenticità e coinvolgimento, siano stati quelli in cui l’interazione con il performer ha incluso anche i passanti, creando un dialogo a più voci e lasciando allo spettatore un margine di maggiore libertà nella relazione. Forse è per questo che il titolo allude ad una triangolazione dello sguardo, quella in cui la relazione one-to-one si apre ad un terzo elemento. 

Agli antipodi della ricerca portata avanti da Mandafounis si colloca il lavoro di Michele Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch: Atmosferologia. Veduta > Tirano. Qui il protagonista diventa il paesaggio, o meglio, la visione prospettica del paesaggio urbano. Le grandi distanze. La costruzione dello sguardo procede per distinti piani prospettici, guidati dall’ascolto in cuffia.  Come Leonardo da Vinci usava la prospettiva aerea, ovvero la tecnica dello sfumato per modulare le distanze fra corpi o elementi architettonici/naturali, così mk usa una traccia sonora – registrata in olofonia, con una forte impronta cinematografica – per modulare la veduta urbana. In questo caso il pubblico si trova affacciato al suggestivo balcone naturale del Complesso di Santa Perpetua di Tirano, non a caso Luogo del Cuore del Fai, a cavallo fra la Svizzera e l’Italia. Si tratta di un punto panoramico privilegiato perché abbraccia sia spazi vicini, vicinissimi che spazi lontani, lontanissimi, unendo ere passate, quasi dimenticate a frammenti di tempo, presenti ed effimeri.  

Veduta > Tirano, Complesso di Santa Perpetua

Sono tre i piani prospettici su cui si muove la performance, creando uno spazio altro che galleggia tra il presente, il passato e il possibile. Innanzitutto si parte da un piano molto ravvicinato, ovvero quello del Complesso di Santa Perpetua, in collina, dove Biagio Caravano e Roberta Mosca si stagliano nitidi sullo sfondo; c’è poi un campo lungo, quello del Santuario della Madonna di Tirano, a valle, con Laura Scarpini e Sebastiano Geronimo che appaiono in miniatura; infine si apre un campo lunghissimo, quello del Castello di Santa Maria di Tirano (Castellaccio) dove la presenza umana non è visibile a occhio nudo, se non con l’aiuto di fumogeni. 

Lo spettatore si immerge in un paesaggio che non è solo quello che appare davanti a sé, ma diventa una sorta di “paesaggio aumentato”. Pur lasciando al pubblico un margine di libertà nel condurre il proprio sguardo da un piano all’altro, la voce in cuffia sposta ogni volta il focus visivo e crea una narrazione iscritta fortemente nello spazio. La realtà è ora messa nitidamente a fuoco, ora zoomata e sfocata, come farebbe una telecamera. Ora assume il nome delle cime lì attorno (Pizzo Campasc, Palù, Zupò….), ora diventa una rocca dai contorni sfumati, in lontananza. La danza diventa in questo modo “un punto di vista sul mondo che inscrive la figura [del performer e dello spettatore] nello spazio della comunità”, tentando di rileggere l’urbanità in una chiave nuova, inaspettata. Ciò che è familiare alla vista, assume un aspetto nuovo, diverso, ai limiti dello spaesamento; viceversa, ciò che è estraneo, distante diventa quasi familiare, parte della propria storia. La danza è capace allora di suggerire un nuovo punto di fuga prospettico e umano.  

You, elsewhere_Vittoria Nedrotti

Infine, l’ultimo appuntamento del week-end è stato You, elsewhere di Francesca Siracusa per il collettivo Laagam. Lo spettacolo ha scavato, senza forzature e in modo molto spontaneo nello sguardo interiore del pubblico, producendo in quest’ultimo una sensazione di prossimità empatica, senza ricorrere però a nessun contatto fisico. In scena c’erano due performer, Eynav Rosolio ed Erica Meucci, ognuna con la propria intensità. Una vestita di nero, l’altra in bianco e nero, in una polarità imperfetta, con dei bellissimi inserti in lattice e resina (ideati da Mariagrazia Piccirillo). Entrambe hanno vissuto la composizione coreografica come un ascolto profondo, lasciando che lo spettacolo avesse luogo, lasciando che affiorasse in loro il gesto, senza fretta, allontanandosi da qualsiasi posa coreografica o virtuosismo. Gli spettatori erano a loro volta invitati ad accogliere dentro di sé, non solo l’ambiente circostante, ovvero il bellissimo palcoscenico naturale di ORA – il bosco di Castelasc – ma anche la visione che man mano prendeva forma davanti a loro. Come un’epifania. 

Il lavoro è stato modulato su tre movimenti distinti e interdipendenti: per prima cosa si è focalizzato sull’attesa, sull’atto di guardare qualcosa che ha un suo proprio andamento, sull’enigma rappresentato dall’altro da me, cercando nel gesto una sorta di avvicinamento in diagonale, o di allineamento laterale; successivamente l’attenzione si è spostata sulla frontalità del movimento per indagare la dimensione del conflitto contenuta nello spazio dell’alterità; infine il conflitto – e così anche il gesto – si è sciolto in uno spazio circolare e plurale, capace di includere l’alterità come parte di sé. Lo spettatore ha percepito questa attesa, questa contemplazione del gesto e ha seguito i tre movimenti come un atto comunitario e allo stesso tempo introspettivo. 

Anche il suono ha contribuito, insieme al luogo e al gesto, alla costruzione di questo percorso. In You, elsewhere Simone Faraci ha alternato la modulazione di sonorità elettroniche molto lontane ed estranee alla cornice naturalistica in cui era calata la performance alla composizione di paesaggi sonori molto “silvani”, proponendo un fitto dialogo tra le polarità del lontanissimo e del vicinissimo. Il risultato è stato un lavoro molto interessante che ha sfruttato le distanze del campo medio per tentare un contatto lento ed empatico con lo spettatore e con la ricchezza dell’ambiente circostante. 

La quarta edizione di Rami d’ORA è “entrata nel bosco”, come i versi che l’hanno ispirata, e speriamo che anche nei prossimi week-end continui a farlo. 

 

RAMI D’ORA 2024, 24 maggio – 30 giugno

ONE ONE ONE

concept Ioannis Mandafounis
coreografia Ioannis Mandafounis & Manon Parent, Anne-Charlotte Hubert, Emilia Giudicelli,Tilman O’Donnell
performer  Alexander Staeger e Hazuki Kojima
production management Mélanie Fréguin
produzione Cie Ioannis Mandafounis
coproduzione Prairie–Migros Cultural Percentage, Tanzfest 2015
con il sostegno di City of Geneva, State of Geneva, Swiss Arts Council Pro Helvetia, Culture Ireland, Centre de Création Chorégraphique Luxembourgeois (Trois-CL),Culture Ministry of Luxembourg

ATMOSFEROLOGIA. VEDUTA > TIRANO 

di Michele Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch
con Biagio Caravano, Roberta Mosca, Laura Scarpini
musica Lorenzo Bianchi Hoesch
coreografia Michele Di Stefano
sistema audio LEM International–Silentsystem
produzione mk 2016
in collaborazione con festival Danza Urbana Bologna
con il sostegno di ResiDance–Dance Haus Milano e MiC

YOU, ELSEWHERE

di Francesca Siracusa
interpreti Erica Meucci e Eynav Rosolio
suono Simone Faraci
video Pier Paolo Zimmermann
costumi Mariagrazia Piccirillo
produzione Laagam
con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea” e di ORA-Orobie Residenze Artistiche
grazie a Spazio Samà, Centro Yoga Om, MUVet, Ass. CIELO, H(abita)t, rete di spazi per la danza