RENZO FRANCABANDERA | Nei fortunati secoli senza televisione, la tradizione orale era il cardine intorno al quale si costruivano identità, geografie, confini. E se si guarda alla circolazione di alcuni nuclei letterari di origine leggendaria e autore incerto (dall’Iliade in avanti), si capisce benissimo come la costruzione sociopolitica degli Stati, per come sono arrivati dall’Ottocento a noi, sia un capriccio della storia e di temporanee alleanze, staccate dal reale radicamento delle culture. La drammatica esplosione della popolazione mondiale di questi ultimi anni e i flussi migratori mai così intensi creano ora il sopravvenire di barriere ideologiche, paure per la povertà diffusa anche nelle nazioni ricche e forme di governo opportunistico-lobbistiche che su questo costruiscono la fortuna.
Non che in passato si vivesse tranquilli, certo: molti di noi hanno avuto la fortuna di vivere per quasi un secolo senza guerre, ma adesso che i conflitti di nuovo lambiscono il territorio europeo, torna utile ripensare a forme letterarie e di cultura condivisa che si sono affermate per secoli, superando i confini e le barriere ideologiche, per cercare invece, trovandole, ragioni di diffondersi oltre ogni barriera, oltre ogni confine.
È il caso del Panchatantra, un nome che per ignoranza oggi misconosciamo ma che invece è stato per diversi secoli il libro delle favole, simile ma ancora più pulsante e internazionale, per dirla con un termine odierno, rispetto a quelle di Esopo o Fedro. Già l’anno scorso il gruppo artistico di cui parliamo oggi, quello coordinato da Gigio Dadina e Lanfranco Vicari a Lido Adriano, aveva affrontato il testo sufi del persiano Farid-Ad-din-Attar Il verbo degli uccelli. Quest’anno è toccato alla più antica raccolta di favole dell’India, il Panchatantra appunto, una raccolta di settanta favole che confluiscono una nell’altra grazie a un racconto cornice. Sotto le favole si nascondono ovviamente precetti morali ad uso dei figli del re, che erano affidati alle cure di un saggio precettore.
E infatti il testo in sanscrito è attribuito dalla tradizione al saggio Vishnu Sharma, un bramino del Kashmir vissuto nel III secolo a.C.
Di qui una lunga peregrinazione nel sud-est asiatico, poi in Cina, e quindi in Tibet, a Giava, nel Laos e poi su, a nord, fino alla Mongolia. Il passaggio in Occidente avvenne nel 570 d.C. quando l’imperatore sassanide Cosro I lo fece tradurre in Pahlavi. Due secoli dopo, lo scrittore Ibn al-Muqaffa tradusse la versione persiana in arabo, con il titolo Il libro di Kalila e Dimna. Poi nel 1100 venne tradotto dall’arabo al latino e dopo tre secoli arrivò in Germania e quindi in Spagna. Fu poi tradotto in italiano e il suo viaggio è continuato in tutto il mondo.

Dentro questo libro ci sono vicende, trame, che è facile ritrovare dentro la grande letteratura europea, dentro il grande teatro. D’altronde Shakespeare stesso aveva mutuato alcune delle storie che reggono le sue opere da libri come questo, che all’epoca circolavano e che ne erano in buona parte i tormentoni seriali: c’era gente che questi libri, questi poemi, li imparava a memoria e li andava recitando di piazza in piazza. Ancora può capitare di vederli, magari nella grande piazza di Marrakech in Marocco, dove qualche vecchio si siede al centro, la gente gli si mette in cerchio attorno e sta ad ascoltare: sono ultimi residui di testimonianze della dinamica dell’oralità.

Ma tutto questo preambolo perché?
Perchè a questo libro si ispira la ben scritta drammaturgia di Tahar Lamri, studioso e scrittore raffinato che ha costruito una testualitá ricca di spunti, adattata da Gigio Dadina affinché fosse la sostanza verbale del nuovo spettacolo proposto in questi giorni, in apertura del Ravenna festival al Grande Teatro di Lido Adriano.
Di cosa stiamo parlando?
Lido Adriano è un paesino sul mare poco distante da Ravenna, un borgo di case e palazzi realizzato praticamente per speculazione edilizia alcuni decenni fa e che ha conosciuto sorti alterne, prima di arrivare negli ultimi anni, fuori dalle dinamiche del turismo ricco di altre zone della costa romagnola, a ospitare una variegata e multiculturale comunità fatta anche molto di migrazione.
Come tutti i luoghi del genere è un laboratorio straordinario di dinamiche per il futuro e dentro questo laboratorio un po’ per tigna e determinazione, un po’ per necessità dettata dall’esserci nati, si è incaponito il progetto culturale dei fratelli Vicari, Federica e Lanfranco che recuperando l’antica struttura della scuola internazionale di mosaico CISIM e dopo essersi fatti una formazione artistica in parte auto-realizzata e in parte vicina a quella del Teatro delle Albe, di stanza nel vicino capoluogo romagnolo, hanno fondato Il lato oscuro della costa un progetto di arte sociale che ha come fondamento l’inclusione e la formazione alla mescolanza di linguaggi, avvicinando musica rap, teatro e letterature ibridate.

Da alcuni anni, con la regia di Gigio Dadina, una delle figure storiche del Teatro delle Albe, realizzano un progetto performativo teatrale che coinvolge la comunità in forma orizzontale e verticale, volendosi intendere accogliente verso ogni tipo di partecipazione di ogni età.

Ecco allora spiegato come si fa ad arrivare a uno spettacolo a suo modo colossale, come quello che abbiamo visto quest’anno, realizzato con la partecipazione di quasi 200 persone, molte delle quali giovani e bambini, coinvolti in progetti di formazione ad hoc, lavorando su un testo che forse avevano conosciuto e tramandato i loro bis bisnonni nei territori di origine di ciascuno di loro; che a guardarli in faccia questi bambini sono in modo immaginabile di origine asiatica o africana o est europea, a creare una comunità certamente non facile da armonizzare ma che corrisponde a quello che è il mondo oggi.
L’esito finale in questi anni ha maturato uno stilema formale abbastanza stabile, sebbene in costante crescita nel segno artistico: si parte dal lido, proprio dalla spiaggia dove gli spettatori iniziano un loro piccolo percorso, per tornare poi a piedi verso il CISIM a qualche isolato di distanza e accomodarsi nel giardino che circonda la struttura. Qui lo spettacolo prende forma su un palcoscenico naturale delimitato da tappeti e dal fondale dipinto, che è una delle pareti del CISIM, arricchita di una scenografia dipinta (collaborano a questi aspetti formali Spazio A, Massimiliano Benini e Silvia Montanari).

La vicenda artistica del Grande Teatro ha avuto un salto l’anno passato in corrispondenza dell’alluvione, perché intorno a questa esperienza teatrale la comunità si è compattata pur nel pieno della tragedia, e anche chi nel gruppo aveva subito particolari danni dal disastro ha voluto fortemente che la cosa andasse avanti; e quindi con ancora più tenacia tutti hanno sentito la responsabilità di non mollare e grazie al sostegno ricevuto da una serie di coproduttori all’interno di un progetto triennale che ci auguriamo con ogni forza venga rinnovato, si è creato uno degli esperimenti di teatro di comunità fra i più interessanti e intensi in questo momento in Italia.
Anzi, se dovessi proprio dire in base a quanto negli anni ho visto finora, quello che si vede qui si vede difficilmente altrove: vale veramente la pena venire a vedere cosa succede da queste parti perché ha del miracoloso.

Ma torniamo all’analisi del fatto scenico: il gruppo degli spettatori viene avvicinato progressivamente con una serie di stazioni itineranti al luogo finale dove il cuore della performance prende forma. Prima di arrivare al giardino, il pubblico si ferma ad ascoltare la storia di questo libro, simile alla storia di molte esperienze umane, un percorso di migrazione, di progressiva accoglienza, di arrivo di un nuovo protagonista, perché alla fine, alla base della vicenda umana, i fattori comuni sono la gran parte, molti più di quelli che dividono. Nella passeggiata gli spettatori vengono accompagnati da una serie di opere d’arte realizzati dagli studenti dell’Accademia di belle arti coinvolti nel progetto.

E dentro il recinto del CISIM il pubblico viene suddiviso in piccoli gruppi ai quali due performer per ciascun gruppo narrano una sorta di prologo della vicenda a cui si assisterà. Due sciacalli introducono quando sta per accadere. Il prologo si muove fra il gioioso e il fiabesco ma si capisce subito che la vicenda ha un doppio fondo politico sociale: la storiella racconta di un governante, il leone, chiuso dentro la sua corte auto-riferita, che ad un certo punto entra in contatto con un saggio consigliere esterno dalla voce tonante, il toro, che cerca di svelare al re le miserie della corte, i vizi del potere.
Ma i furbi cortigiani, la macchina della burocrazia e dei profittatori di Stato, innescano una ingegnosa forma di harakiri, simile a quella con cui Iago avvelena la mente di Otello, costringendo il re a mandare a morte il povero toro, reo di delitti che non aveva commesso.
Anche in questo caso come nell’Otello di Shakespeare il cospiratore fa una brutta fine ma purtroppo il danno è comunque irrimediabile. Esistono figure che hanno il crisma di Cassandra, i vaticinatori del futuro prevedibile che non vengono creduti. Qui la presenza dei bambini nella compagine attorale diventa ancora più stridente, perché il passo fra il loro ruolo dentro lo spettacolo e la loro presenza nella società rende un’operazione di questo genere, di consapevolezza critica della forma sociale, così importante da impreziosirla tutta, soprattutto perché trasversale e inclusiva.

Lo schema della geografia scenica è definito. In alto siede il re, che non è uno ma sono molti, come molte sono le facce del potere, tutte diverse ma capaci alla fine di essere unitarie e parlare con una sola voce, quando occorre. Il piano intermedio è quello dei musicisti (le bellissime musiche sono di Francesco Giampaoli), che si uniscono al coro, numerosissimo e composto da diverse decine di persone, per creare intermezzi musicali ora di rimando alla tradizione del canto popolare, ora in legame diretto con la pratica del rap, con Lanfranco Vicari a fare da protagonista con le sue liriche che a dire il vero, a oggi in Italia, sono probabilmente alla vetta del poetico nello specifico ambito di questo genere musicale. Vicari è davvero un grandissimo poeta: nessuna parola è sbagliata in questi canti che non inducono a nessun tipo di facile giovanilismo, di gergale abbassamento della qualità, in nome di un messaggio invece nitido e potente, di cui i ragazzi si fanno coro.

Anzi, alcune composizioni musicali come l’ultima su cui lo spettacolo finisce con il buio delle luci, è stata proprio scritta dai ragazzi, in un’atmosfera di dolorosa profondità della consapevolezza del drammatico rapporto fra individuo e potere nella società.
Il resto è un lavoro collettivo costruito per piccole sequenze narrative che vanno dal prologo fino all’incontro del toro con il re, l’ingresso del nuovo arrivato a corte, l’inizio della cospirazione, il diffondersi rossiniano della calunnia, e poi il tragico finale che vede prima l’uccisione del povero consigliere saggio e poi la condanna del consigliere cospiratore, quando ormai il danno è fatto.
Tutto funziona, finanche le piccole ingenuità dei più giovani, che si inseriscono in maniera armoniosa con una pratica che comunque rivela chiaramente il grandissimo lavoro di formazione alle spalle: è quasi commovente vedere bambini di 7-8 anni arrivare a una specificità di relazione con il linguaggio teatrale così fine e di qualità. La dinamica collettiva si rivela quindi veramente altissima per esito.
L’alternarsi di testo e musica, la vivace presenza del gruppo, il continuo turbinare della scena, la capacità sapiente di isolare alcuni momenti creativi con adeguata limpidezza, a cui contribuiscono le due regie, quella primaria di Dadina sul lavoro nella sua interezza e quella musicale di Vicari con l’ensemble musicale, sono gli ingredienti di un lavoro che certamente soffre, come tutte le creazioni che nascono in provincia, del fatto di avere gli sguardi di chi è deputato a narrare un po’ distanti, e quindi soffre del fatto di essere periferia.
Ma null’altro può essere imputato a questo lavoro artistico di altissimo fattura che merita davvero di poter essere visto da quanta più gente possibile: commovente non solo per la storia di per sé, ma anche per tutte le storie che ci si immagina di poter leggere dietro ciascuno dei partecipanti a questo esperimento artistico bello e complesso allo stesso tempo.

In quasi vent’anni di militanza culturale nel teatro, di spettacoli di comunità ne ho visti tanti; questo di lido Adriano, ormai già da due anni, sta indubitabilmente sul podio dei migliori, incomparabilmente più alto di tante piccole esperienze di commedia paesana.
Qui siamo veramente al grande teatro e, anche se per ora come tutti quelli che lavorano in periferia, se lo dicono da soli che questo è il grande teatro di Lido Adriano, fanno bene, perché se aveste modo e fortuna di capitarci, cosa che vi invito a fare, scoprireste che è vero.
Questo è grande teatro. E se questo linguaggio ha senso oggi in una comunità come pratica mediale, alternativa al monadismo social, questa è la sua declinazione possibile, diversissima dall’intrattenimento dello spettacolo da cartellone, dalla grande produzione spendacciona.
A Lido Adriano si fa ancora teatro. Incredibile!

 

PANCHATANTRA
o le mirabolanti avventure di Kalila e Dimna

direzione artistica Luigi Dadina, Lanfranco Vicari
regia Luigi Dadina
drammaturgia Tahar Lamri
collaborazione artistica Spazio A – Camilla Berardi, Marco Montanari, Marco Saccomandi
direzione organizzativa e logistica Federica Francesca Vicari
coordinamento organizzativo Hiba Alif, Greta Mini, Marco Molari, Federica Savorelli
scene Alessandra Carini, Nicola Montalbini
supervisione costumi Federica Savorelli, Federica Francesca Vicari
composizione musiche e arrangiamenti Francesco Giampaoli
songwriting Lanfranco Vicari
coordinamento musicale Francesco Giampaoli, Enrico Bocchini
coordinamento coro Jessica Doccioli, Lanfranco Vicari
cura degli spazi scenici Massimiliano Benini
ideazione grafica Massimiliano Benini
layout grafico Silvia Montanari
responsabile tecnico Matteo Rossi
in scena Camilla Berardi, Marco Montanari, Marco Saccomandi e il Coro del Grande Teatro di Lido Adriano

coproduzione CISIM|LODC, Ravenna Festival
in collaborazione con Ravenna Teatro / Albe e Equidistanze | Residenze Artistiche
fotografie Nicola Baldazzi
riprese video Antropotopia
realizzato con il contributo di Comune del Ravenna