RENZO FRANCABANDERA | A metà della salita non pochi si fermano a prendere fiato. La battuta che fanno qui è che loro la selezione la fanno a valle. Ed effettivamente un minimo di baldanza fisica occorre per arrivare a piedi fino in cima alla collina (anche se c’è un’alternativa per persone a mobilità ridotta).
Insomma c’è voluta la giusta determinazione per assistere alla replica bolognese de La conferenza sulla conferenza esperimento letterario di sola parola e qualche poesia di Filippo Balestra.
L’idea artistica, per immaginare alla grossa dove siamo con i linguaggi, sta dentro quella strada che – giusto per fermarci all’ultimo secolo – collega gli esperimenti di derivazione futurista al gioco performativo dell’assurdo e del dada, utilizzando come oggetto di manipolazione la parola: atti di sperimentazione linguistica e poetica il cui fuoco sta nel continuo sottrarre senso al discorso, fino ad arrivare alla quasi completa spoliazione concettuale e alla (apparente) mancanza d’argomento. Da Petrolini a Bergonzoni, sono diversi gli artisti che da inizio Novecento a oggi, di generazione in generazione, hanno raccolto questo testimone per farne linguaggio per la scena.
Nel caso di Balestra, il background di formazione si lega alla contemporaneità di quell’ampio fermento che ruota intorno al poetry slam, le gare di poesia figlie della cultura dell’improvvisazione del rap e della cultura metropolitana, in cui si riuniscono e sfidano artisti della parola. E meno male che ancora qualcuno fa sopravvivere questo genere di battaglie, di gran lunga preferibili a quelle altre…
Ma anche qui, a ben considerare, non dovevamo certo aspettare Eminem o 2Pac per avere le tenzoni fra poeti. Anzi. Diciamo che i rapper in Italia li abbiamo sempre avuti. Basti ricordare le gare in ottava a rima toscana, attestate storicamente a partire dal XIV secolo, un metro poetico assai radicato nell’area toscana e dell’alto Lazio, che ha una lunga storia orale che lo contrappone alla terzina dantesca conferendogli un legame più stretto con la cultura popolare e contadina. In questa zona d’Italia anticamente abitata dagli Etruschi (e magari qualche legame alla lunga arriverà fin lì sicuramente), gli otto endecasillabi rimati, di cui i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata e diversa da quelle dei versi precedenti, sono il pane con cui si sono nutriti per secoli i poeti improvvisatori nei loro “contrasti”, gare di improvvisazione in cui il pubblico assegnava il tema e i poeti si alternavano, sviluppando il loro canto all’istante declamato con questa melodia molto antica che dà poi la misura del verso. Ancora adesso ci sono raduni di poeti estemporanei, sempre meno frequenti, purtroppo, come nella provincia di Grosseto, a Ribolla e Pomonte, dove resistono due grandi eventi annuali che accolgono improvvisatori da ogni parte della Toscana e dal Lazio. Di recente anche la compagnia teatrale Sacchi di Sabbia era tornata su questa antica pratica per testimoniarla e impastarla con lo spettacolo.
Il modello del contrasto che si sviluppa in questi incontri, come ricordano quelli della Compagnia del Maggio-Pietro Frediani, fa riferimento a un complesso sistema di relazioni fra poeti e discepoli di uno stesso maestro, ideale o reale, così che anche i poeti estemporanei vissuti secoli fa risultano presenti e vivi nella voce del discepolo.
Lì si ricompone dinanzi al pubblico, attraverso questo schema di tenzone poetica dalla ritualità assai specifica, il mondo rurale, come pure nei contemporanei poetry slam si riflette la società più slabbrata e transmediale di cui tutti facciamo parte.
Insomma Balestra, scrittore, poeta, performer, è un cantuccino inzuppato dentro questo liquorino qua, che va avanti da secoli e che non stava certo ad aspettare il rap per rinnovarsi; ma si sa, ogni epoca ha i suoi riti, i suoi luoghi. E ben venga quindi il grande fermento che in decine di città italiane ha portato lo slam (che peraltro il 5 luglio approderà proprio ai 300 Scalini e con Balestra stesso a fare da officiante), perchè ha riavvicinato il pubblico alla performatività della poesia dal vivo, e sono ora diversi gli artisti che stanno beneficiando di questa onda lunga e con moduli stilistici anche molto diversi fra loro, come Balestra stesso, o Lorenzo Maragoni.
Tutta questa solfa per arrivare in cima alla collina, dove, in una serata invero freschettina prendiamo parte alla prima serata di InsOrti – Festival d’arte performativa site specific il festival immerso nello stupendo paesaggio della collina bolognese, ospitato Ai 300 scalini, luogo di culture e colture raggiungibile con ardimento e buon passo in cima a una collina da cui si domina la città con lo sguardo. “Siamo a Bologna ma vediamo Bologna!”, dice Balestra, in una delle sue considerazioni aforistiche all’inizio dello spettacolo.
Come è fatto lo spettacolo di Balestra? C’è una scrivania sgangherata, con drappo messo volutamente sbilenco, qualche oggetto sul tavolo a dare l’allure della cosa seria, il microfono; ma si capisce subito che c’è un’atmosfera farsesca. Lui arriva compito, in giacca, ma spiega subito che occorre deporre ogni aspettativa di tornare a casa con un qualche sapere, perchè la conferenza sulla conferenza è di fatto un atto assurdo, un buco nero che sviluppa da solo la sua massa, e finito il quale, il buco verso questo agglomerato di nulla si chiude. E fine. La conferenza sulla conferenza vive di per se stessa, si autogenera e autoalimenta. Potremmo dire che è concettualmente ecosostenibile perchè (ma abbiamo dimostrato che non è proprio così) nasce da se stessa, vive e muore.
Adottata in primis dal Teatro della Tosse di Genova, passando da Torino, Milano, Roma, Padova, Firenze, ospitata dal PoeTrento, festival di poesia di Trento, e recentemente ospite della rassegna SPAM, di Porcari, la creazione verbale parrebbe andare a braccio ma in realtà esiste un canovaccio, composto da diversi fogli che Balestra tira fuori e usa qui e lì per riprendere il filo, per non andare troppo fuori traccia e mantenere una spina dorsale fra i vari excursus senza senso che gemmano dall’idea iniziale ovvero di una cosa che, o per negazione, o per analogia, o per altro legame metaforico, ha come obiettivo quello di parlare di se stessa.
La piacevole creazione sa giocare con la presenza dello spettatore, introitando alcuni schemi della stand-up comedy, se non fosse che Balestra sta sempre seduto, tranne che per un momento in cui si alza, perchè «mi hanno detto che se no lo spettacolo è troppo statico!.
L’artista ha le fisique du role del conferenziere cazzaro, di quello che non ha nulla di serio da dire ma sa assumere la postura dell’intellettuale. Gioca con intelligenza con questo personaggio e, di pensiero assurdo in pensiero assurdo, usando appunto astrazioni metaforiche ricorsive e vaneggiando di punti salienti (che ovviamente non esistono), si produce in questo sproloquio senza capo né coda.
La cosa finisce per portare lo spettatore ad assistere a questa dimostrazione atletica della conversazione come sport estremo, come dice il poeta.
Interessanti ad ogni buon conto gli argomenti attorno ai quali si coagula il testo, che hanno tutti un doppio fondo filosofico-esistenziale, dei vaneggiamenti di Balestra, che riguardano anche il tema della percezione di sé, del riflettere su di sé, che non deve portare all’imitazione ma a un continuo ripensamento, per evitare di diventare sosia di se stessi: bisogna limitarsi nell’imitarsi… Insomma di calembour in calembour, sopravvivono e si impastano al testo della performance, diverse poesie dell’autore, come Deserto del niente, o Trovare l’orientamento e il monologo si sciorina con efficacia e coinvolgimento, provocando non di rado la risata, l’applauso e la manifestazione di assenso esplicito di un pubblico che accoglie subito lo scherzo, il gioco e ne diventa partecipe.
Ai 300 scalini la faccenda si incastona dentro un ambiente naturale particolare, proprio per la cifra propria di questo progetto di rigenerazione a base culturale iniziato nel 2014 da Teatro dei Mignoli aps che opera a Bologna dal 2002. Balestra fa sua in modo bizzarro l’idea del site specific naturale, porta qualche ramo raccattato qui e lì in scena, che poi lancia via come inutile. Come dice il poeta, il gioco serve per riconoscere le frasi fatte, e a queste prepararci a contrapporre le frasi da fare e da rifare e da rifare ancora sempre nuove.
E così si perpetua un gioco, come s’è visto, secolare. Che per fortuna ancora resiste. Certo, non più in dialetto, purtroppo, o in rima. Ma la parola resta quel giocattolo a cui null’altro serve: «un flusso in tempo reale di intelligenza per l’intelligenza senza altro fine che la produzione di intelligenza».
CONFERENZA SULLA CONFERENZA
di e con Filippo Balestra | Festival InsOrti 2024
@ Ai 300 scalini