MATTEO BRIGHENTI | «Il festival Civitonia. Riscrivere la fine, o dell’arte del capovolgimento non c’è stato, non è esistito, non è accaduto. O meglio – precisano Giovanni Attili e Silvia Calderoni – si è manifestato nel suo inaccadere». Glɜ artistɜ in programma hanno svolto la loro residenza a Civita di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, tra gennaio e giugno 2021, ma l’esito del loro processo immaginativo non è avvenuto. Il festival, che avrebbe dovuto raccogliere l’esito dei loro lavori dal 13 al 16 ottobre 2022, e che era stato annunciato attraverso un piano di comunicazione capillare, non si è mai manifestato. Ha preso forma ed è vissuto all’interno di un altro piano di realtà: riscrivere la fine del borgo minacciato dalla strutturale fragilità del suo territorio e dalla violenta turistificazione in atto. «Ci siamo immersi in una sperimentazione situazionista – spiegano il curatore e la curatrice – con l’obiettivo di riscrivere una fine apparentemente irreversibile che rischia di trasformare Civita di Bagnoregio in una terra di sfruttamento capitalista. A oggi – proseguono – la patrimonializzazione e la turistificazione dei luoghi sembrano essere, infatti, gli unici orizzonti progettuali praticabili all’interno delle cosiddette aree interne».
Ora questo «esercizio collettivo di immaginazione» è racchiuso in un volume pubblicato da NERO Editions. Comincia da qui la nostra intervista a Giovanni Attili, professore associato di Urbanistica all’Università La Sapienza di Roma dove insegna “Sviluppo Sostenibile dell’Ambiente e del Territorio” e “Analisi Ambientale dei Sistemi Urbani e Territoriali”, e Silvia Calderoni, attrice e performer, dal 2006 parte attiva della compagnia Motus. Sfogliandone le illuminanti pagine abbiamo avuto modo di raccontare l’origine e le ragioni del progetto, la natura e le visioni deglɜ artistɜ coinvoltɜ, la portata «urticante e interrogativa» di un’operazione artistica e politica così realistica che ha ricevuto anche una diffida a mezzo Facebook del Sindaco di Bagnoregio.

Le copertine di Civitonia, a cura di Giovanni Attili e Silvia Calderoni, NERO Editions

Che genere di libro è Civitonia. Riscrivere la fine, o dell’arte del capovolgimento?

Il libro che abbiamo immaginato è una sorta di “catalogo espanso” che, ricalcando uno statuto di verosimiglianza, ospita il sedimento dell’intenso lavoro fatto daglɜ artistɜ. Un dispositivo in cui le scritture, i segni, le immagini si moltiplicano in una partitura collettiva di suggestioni che interrogano e riscrivono la fine di Civita. A differenza di un normale catalogo in cui le pratiche artistiche vengono semplicemente annunciate, qui glɜ artistɜ hanno continuato a immaginare e a cucire frammenti tra loro costruendo collettivamente un oggetto-catalogo che per la sua natura polifonica è disponibile a essere costantemente risignificato.

Chiara Bersani e Marta Montanini, Cheap, Fratelli D’Innocenzo, Daria Deflorian, Francesca Marciano e Valia Santella, Eva Geatti, Francesca Pennini e Vasco Brondi, Alice Rohrwacher, Simona Pampallona, Anagoor, Alessandro Sciarroni, Michele Di Stefano sono alcunɜ deɜ 21 artistɜ che avete coinvolto per Civitonia. Come lɜ avete sceltɜ?

Glɜ artistɜ sono statɜ sceltɜ con un principio affettivo e di stima reciproca, questo perché a differenza degli altri festival, le persone coinvolte dovevano adempiere a un patto di segretezza per più di un anno di tempo, dal periodo di residenza fino allo svelamento della vera natura del progetto.
La consegna che è stata fatta loro durante le residenze è stata solo una: immaginare. Per assecondare questa consegna, glɜ artistɜ non dovevano realizzare nulla: nessuna performance, nessuna azione teatrale, nessun film. Per noi era prezioso e irrinunciabile solo l’atto immaginativo. Non chiedevamo nient’altro. La capacità di sfidare il presente di questa terra fragile poteva manifestarsi senza alcun precipitato pesante. Senza alcuna apparente irruzione nel reale.
Ognunǝ di loro ha risposto alla nostra chiamata con grandissimo entusiasmo e desiderio di mettersi in gioco. C’era condivisione negli intenti, c’era eccitazione a immaginarsi parte di un processo immaginativo senza prodotto, c’era voglia di sfidare le convenzioni del mondo della produzione artistica, c’era entusiasmo nel provare a immaginare finali diversi per questa terra fragile che abitiamo.

A dirla tutta, Civitonia non è solo un libro: è un box che raccoglie il catalogo del festival e un volume segreto che ne svela i meccanismi, con tanto di lucchetto con combinazione fornita separatamente dall’editore.

Per noi un solo libro non era sufficiente. Per ragionare, in maniera specifica, di questo processo di sparizione/apparizione, abbiamo pensato di accompagnare il primo volume-catalogo a un secondo libro in cui le voci deglɜ artistɜ che hanno partecipato al festival riprendono parola interrogandosi sul processo del festival stesso, insieme alle voci di approfondimento di Emanuele Coccia, Giorgiomaria Cornelio, Annalisa Sacchi, Extragarbo, Pietro Gaglianò. Il risultato è una sinfonia di pensieri sottili e di incursioni interrogative che setacciano l’invisibilità del festival e le sue articolazioni poetiche e politiche. Una sinfonia segreta, il cui ascolto è stato pensato solo all’interno di un tempo differito. Un tempo rimandato, posposto. Un tempo che può essere dissigillato solo dall’apertura di un lucchetto. Un tempo rinviato che, nelle nostre intenzioni, potrà consentire al meccanismo ‘inaccadente’ del festival di continuare a irradiare segretamente i suoi incantesimi.

Silvia Calderoni e Giovanni Attili con Pietro Gaglianò presentano Civitonia alla Libreria Brac di Firenze all’interno di Scripta Festival. Foto di Renato Esposito

Ecco, come è nata l’idea di questo vostro intervento per Civita di Bagnoregio? 

L’idea di Civitonia nasce dal nostro desiderio di costituire condizioni nuove affinché nuovi possibili potessero prendere forma. Un tentativo di volo che desideravamo fare con una collettività di artistɜ che avessero la capacità di squarciare i vecchi immaginari e nello specifico quelli di sfruttamento che condannano Civita a pensarsi senza alternative.
Civitonia. Riscrivere la fine, o dell’arte del capovolgimento è il primo festival di arti performative immaginato per Civita di Bagnoregio. La scelta del luogo non è casuale. Civita è un piccolo borgo dell’Alto Lazio caratterizzato da una strutturale fragilità geomorfologica. La storia di questa terra è sempre stata scandita da morti e rinascite: crolli e ricostruzioni, abbandoni e ripopolamenti, legami vitali che si strappano e nuove relazioni che si annodano. Si tratta di una capacità di adattamento, costantemente rinnovata, che oggi vacilla di fronte all’irrompere di un fenomeno che sta mettendo in pericolo l’esistenza del borgo. Parliamo di un turismo di massa che sta producendo lacerazioni violente. Un processo attraverso cui la mercificazione ha finito con il fagocitare ogni ambito del vivere. In questa nuova tragica frontiera dell’irrimediabile, Civita ha espulso la vita e la sua capacità di rigenerazione. Quell’abitare, un tempo cucito saldamente alla terra, si sta sfaldando, nell’assenza di azioni capaci di gettare avanti, nel futuro, l’esistente.

Quale fine avete riscritto? Che cosa avete capovolto?

Dietro vane promesse di prosperità, lo scenario di Civita ci consegna un paesaggio impoverito, trafitto dalla cupidigia del profitto. A partire dalla consapevolezza del baratro, abbiamo interrogato le potenzialità riparatrici dell’arte nel fecondare una capacità immaginativa potenzialmente in grado di suggerire nuovi possibili futuri. È delle pratiche artistiche, infatti, la capacità di produrre interrogazioni, denaturalizzare immaginari consolidati che abbiamo pericolosamente introiettato, suggerire in maniera indiziaria alternative al modello di sfruttamento che sta lacerando Civita. Volevamo in questo senso nutrire un principio speranza e provare a capovolgere un finale già scritto.

C’era il programma, c’erano glɜ artistɜ, le foto, i manifesti, i social. Si può dire che il festival non è esistito perché non c’è stato il pubblico?

Le pratiche artistiche che hanno dato vita a questo esercizio collettivo di immaginazione si sono generate all’interno di uno statuto di verosimiglianza. Non sono accadute, ma potevano accadere. Non c’era niente di irrealizzabile nella loro proposta. Semplicemente, non si sono realizzate. Anche questo faceva parte della consegna che abbiamo dato aglɜ artistɜ. Giocare con l’immaginazione, non soccombere al reale, senza tuttavia smarrirne il contatto necessario. La verosimiglianza garantiva, infatti, una presa ancora più politicamente minacciosa sul presente proprio in virtù della sua potenziale realizzabilità.
Fa parte di questo statuto di verosimiglianza anche la campagna di comunicazione che abbiamo messo in campo. L’annuncio del festival ha seguito tutte quelle traiettorie di cui solitamente si nutre una programmazione culturale. Abbiamo inizialmente diffuso dei claim: frammenti di un discorso aperto e volutamente ambiguo, che si ponevano l’obiettivo di convocare le questioni portanti del progetto. Si è trattato di un annuncio sottile: timida presa di parola dal carattere interrogativo. Sono seguite poi locandine, comunicati stampa, calendari. Abbiamo cercato di fare breccia nel reale tappezzando strade, case e mura. Le piattaforme social, infine, hanno moltiplicato questi contenuti nello spazio virtuale. Tutto doveva essere come se. Come se stesse realmente accadendo. E, in fondo, concretamente, ha riverberato nel reale.

Un’altra cosa concreta è stata la diffida a mezzo Facebook del Sindaco di Bagnoregio perché la manifestazione non era stata autorizzata dal Comune.

Lo statuto di verosimiglianza che il festival ha avuto in tutte le sue fasi di promozione è stato percepito dalla giunta comunale in modo irritante. L’Amministrazione di Bagnoregio ha reagito stizzita alla comparsa dei claim che problematizzavano la deriva che stanno prendendo le nostre città, condannate a trasformarsi in vetrine mercificate a uso e consumo di un turismo predatorio. Evidentemente, il Comune di Bagnoregio si è sentito chiamato in causa arrivando addirittura a rivolgersi direttamente al festival via social con un ridicolo proclama: «Diffidare chiunque dal diffondere informazioni che coinvolgono il territorio, e quindi anche Civita, senza che esse siano state vagliate e autorizzate dall’Amministrazione stessa, a meno che non si tratti di iniziative private, che però non possono comunque sfruttare immagini e situazioni soggette al controllo pubblico». Paradossalmente, questo posizionamento stizzito dell’Amministrazione e del Sindaco è stato vissuto da noi come un indizio interessante sulle possibilità urticanti e interrogative dell’operazione che abbiamo così intensamente immaginato.

In definitiva, Civitonia è stato un “festival che non c’è” oppure un “non-festival”?

Diversi sono stati i motivi che ci hanno spinto a lavorare sulla sottrazione di Civitonia. Innanzitutto, l’idea è stata quella di permettere aglɜ artistɜ di svincolarsi dalle contingenze della produzione, per abbracciare uno spazio creativo espanso. L’assenza di vincoli logistici, economici, organizzativi e spaziali ci sembrava potesse magnificare l’obiettivo del festival, consentendo un pieno dispiegamento del suo potenziale immaginativo.
L’assenza di prodotto era per noi centrale. Sentivamo l’urgenza di un inceppo, una stortura, un incaglio. Qualcosa che potesse terremotare, anche solo per un istante, la corsa del fare. Una slabbratura nella macchina infernale dell’iper-produzione. In questo senso, abbiamo pensato a un festival inaccadente: un piccolo antidoto contro la nevrosi della prestazione.
Infine, in relazione alla specificità del territorio di Civita di Bagnoregio, non volevamo che il festival venisse sussunto nelle maglie tentacolari dell’industria turistica, trasformandosi nell’ennesima mercanzia scintillante. Non volevamo diventasse una stampella per il processo di visibilizzazione estrattiva che investe questa terra. Il nostro desiderio era piuttosto legato alla possibilità che la pluralità degli atti creativi del festival conservassero intatta la loro anima rovente. Un nucleo di suggestioni vitali pronte ad avvampare irriverenti e a riconfigurarsi a ogni nuovo sguardo, in virtù della loro irrealizzabilità.