CHIARA AMATO* | Il mito di Orfeo ed Euridice è ben noto per le infinte versioni nei secoli e nelle arti, ma in particolare per la narrazione di Ovidio nelle sue Metamorfosi. Il loro amore è un amore interrotto dalla precoce morte dell’amata e, spinto dal desiderio di trattenerla con sé e in vita, Orfeo scende negli inferi: emozionando anche le Erinni con il suo canto, ottiene di poterla salvare a patto di non voltarsi mai durante la risalita. Purtroppo quasi giunti nel mondo dei vivi, egli non riesce a trattenersi, vedendosi così sfuggire la sua Euridice tra le mani e ‘non afferrò altro che aria sfuggente’.
Nella versione contemporanea del regista e drammaturgo argentino César Brie, vista all’Elfo Puccini di Milano, il taglio interpretativo scelto è decisamente particolare: infatti Giacomo Ferraù e Giulia Viana ci raccontano l’amore tra Giacomo e Giulia ma anche il mito, su due linee narrative parallele ma intrecciate.
La scena si presenta con due tappeti che si incrociano formando una x al centro del palco, ai cui lati sono posti i costumi (di Anna Cavaliere) – che man mano vengono utilizzati dai due attori per interpretare ruoli diversi – e due sedie in legno.
Lo spettacolo inizia con la rappresentazione del mito e con un Caronte che, in dialetto siciliano, ci parla del recente episodio accaduto nell’Ade: lo fa però in maniera molto spiccia, quasi comica, fino a poi a commuoversi egli stesso per la vicenda dei due amanti.
Da lì in poi gli interpreti si calano in una storia d’amore dei nostri giorni, interrotta dall’incidente di Giulia, e seguiamo il doloroso percorso di Giacomo nel dover lottare diciassette anni per riuscire a donarle una morte dignitosa, dopo le estenuanti e inutili cure mediche. Ad accompagnare il loro innamoramento riecheggiano le parole di Battiato in Stranizza d’amuri (E quannu t’ancontru ‘nda strata, Mi veni ‘na scossa ‘ndo cori, ‘Ccu tuttu ca fora si mori, Na’ mori stranizza d’amuri, L’amuri) che anticipano allo spettatore divertito e rilassato il lato triste in arrivo.
Lo spettacolo non fornisce risposte univoche sul tema dell’eutanasia, ma mette di fronte brutalmente al dramma di chi resta in vita e mette l’accento sulla forza dell’amore. Le domande di questo Orfeo moderno sono sull’eventuale ritorno in sé della sua amata e se sia giusto accogliere la sua richiesta per una morte assistita perché essere dei vegetali intubati non è considerabile vita, per Giulia.
In questo le scelte registiche di Brie sono molto efficaci nel rendere l’idea del calvario che affrontano questi corpi inermi, infatti Ferraù, nel vestire i panni dei medici, la strattona, le tappa la bocca con delle cannule mediche, la tira a sé coprendole il volto di cellophan, le muove le mani tramite dei lacci e usa un tono sostenuto nel distacco che mantiene con la paziente. Questo corpo è diventato un burattino, una cavia, un pezzo di carne del quale non curarsi più in maniera delicata perché non percepisce nessun contatto con la realtà.
Qui emerge chiaramente ciò che il regista afferma in diverse occasioni e cioè che ‘Il Teatro si occupa di inquietare e divertire. Coinvolge con la bellezza. Il piacere estetico non è una carezza. (…) Chi esce dal teatro, esce migliore di quando è entrato. Più aperto, più lucido e più irrequieto’ e infatti è palpabile la commozione, il coinvolgimento ma anche un senso di smarrimento del pubblico. L’alternanza continua di toni comici e pesanti, di mini scene frammentate e separate dai cambi luce (disegno di Sergio Taddo Taddei), si ripercuote sullo spettatore come una serie di colpi rapidi, non facili da parare e schivare, ma che lasciano riflettere a fine spettacolo.
In diversi momenti i due attori, come al rallentatore e davanti a uno specchio, avvicinano i loro corpi compiendo gli stessi movimenti, senza toccarsi. Evocano in maniera forte il riferimento al mito ispiratore del testo, dove appunto i due innamorati non riescono più ad avere un contatto nonostante lo vogliano, ma sono separati dalla linea della morte.
Quello che influisce alla buona resa dell’opera è certamente la carica emotiva dei due interpreti che nei passaggi più densi si emozionano, gonfiando i loro occhi di lacrime, e questo permette un avvicinamento alla causa trattata: come si può non immedesimarsi in un uomo che accudisce un cadavere ‘ancora vivo’ per quasi vent’anni?
Il passare del tempo viene mostrato anche attraverso due espedienti che visivamente sono molto diretti: si coprono il capo di polvere bianca e si rigano il volto di rughe, posano per quelle che sarebbero state le foto mai scattate in quegli anni; Orfeo ed Euridice si immaginano come sarebbe stata la loro vita insieme se non fossero stati bloccati da qualcosa di esterno.
Si sente ripetere, come in un’eco dagli inferi, ‘lasciala andare‘, e questo fa riflettere sulla difficoltà che prova l’essere umano a lasciar andare, allargando la questione non solo all’eutanasia ma al dolore di voler trattenere a tutti i costi qualcosa che è finito pur di non sentirsi soli e sconfitti.
ORFEO ED EURIDICE
testo e regia di César Brie
costumi Anna Cavaliere
musiche Pietro Traldi
disegno luci Sergio Taddo Taddei
con Giacomo Ferraù e Giulia Viana
produzione Eco di fondo/Teatro Presente
Selezione Inbox 2014 – Finalista Premio Cassino Off 2016
Teatro Elfo Puccini, Milano | 20 giugno 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.