GIORGIA VALERI* | All’imbrunire temporalesco di uno strano pomeriggio di giugno – un’anomalia per le previsioni meteorologiche stagionali ma un’evidente rivendicazione dei cambiamenti climatici in atto – gli avventurieri che hanno superato il trafiletto scoraggiante di Zona K sulle difficoltà del percorso sono stati muniti di impermeabili, cuffie e una piantina del Parco delle Groane, un’area verde simil-incontaminata alle porte di Milano. Ed effettivamente, mossi i primi passi nella fanghiglia, sembra di sentire l’eco della natura leopardiana «Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?». Il contrasto tra la vicinanza dei grattacieli, delle ultime periferie della metropoli meneghina e il silenzio del parco apre il varco ideale nel quale immergersi per le performance di Paesaggi condivisi.
Parte del più ampio progetto europeo Performing Landscapes, Paesaggi condivisi è un viaggio teatrale ideato da Stefan Kaegi, del collettivo tedesco-svizzero Rimini Protokoll, e Caroline Barneaud, direttrice artistica del Théâtre Vidy-Lausanne, che coinvolge otto partner provenienti da Germania, Austria, Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia, Svizzera sotto l’egida comune dell’Unione Europea. Kaegi e Barneaud, collaboratori di lunga data (per gli spettacoli Nachlass, 2016, Société under Construction, 2019, Temple du présent, solo for octopus, 2020, e Utopolis Lausanne, 2022), lavorano sulla contiguità tra palcoscenico e platea, tra attori e spettatori, abolendo la linea netta tra realtà e finzione teatrale attraverso la ricerca di una conoscibilità collettiva del mondo fuori dagli edifici teatrali. Questa volta, la domanda è rivolta direttamente alla natura, pensata non più come oggetto ma come soggetto attivo e polifonico con cui mettersi in dialogo. Hanno quindi coinvolto dieci artisti internazionali (Chiara Bersani & Marco D’Agostin, El Conde de Torrefiel, Sofia Dias & Vítor Roriz, Begüm Erciyas & Daniel Kötter, Ari Benjamin Meyers, Émile Rousset), chiamati a dare una propria prospettiva sul tema del paesaggio e del suo rapporto con il genere umano: ne sono scaturite sette performance da adeguare a ciascun territorio coinvolto, con la collaborazione di artisti locali per la messa in scena, le traduzioni e l’adattamento. L’obiettivo è vivere collettivamente il paesaggio, le performance immersive ne sono solo un ausilio.
Così, nella prima radura, ciascuno spettatore trova posto sotto le fronde degli alberi, occhi al cielo e cuffie nelle orecchie. Lo spazio tra le foglie è riempito delle parole ideate da Stefan Kaegi, in collaborazione con Riccardo Tabilio per la versione italiana. Non c’è artificio teatrale, solo una conversazione tra un tecnico forestale, una psicoanalista, una cantante, una meteorologa e una bimba curiosa: voci conosciute, familiari, che si sovrappongono ai suoni del bosco, al crepitio dei ramoscelli spezzati sotto gli scarponi. Le parole si perdono, qualche volta l’attenzione segue i movimenti delle persone circostanti, finché lo scambio di battute torna a interessare e rapire i pensieri. È un dialogo progettato non per essere ascoltato ma per essere vissuto, come quando in una passeggiata tra amici per un attimo ci si ammutolisce, si lascia parlare gli altri mentre si gode del panorama circostante.
Gli intermezzi musicali ideati da Ari Benjamin Meyers, compositore e artista americano, annunciano il termine di ciascuna performance e accompagnano il passaggio tra uno spazio e l’altro. I musicisti si nascondono fra le fronde, invisibili o parte integrante del paesaggio. Trombe e tromboni suonano il silenzio del sottobosco, suggeriscono una partitura jazz basata sullo scambio sinfonico fra gli strumenti, che non mira alla creazione di una composizione melodica ma piuttosto a un’interazione con l’ambiente, con gli spettatori, con il paesaggio e la fauna locale.
Il percorso si allunga fra spazi remoti, e più ci si allontana dalla stazione iniziale più si sente la realizzazione di quella “comunità temporanea” che Sofia Dias & Vitor Roriz, in collaborazione con Antonio Tagliarini, raccontano in cuffia in una delle performance. Le voci di Luca Stetur e Milena Costanza, nella versione italiana, chiedono agli spettatori di dividersi in due gruppi: le voci danno quindi indicazioni sui movimenti da eseguire, creano interazioni con gli altri e con l’ambiente circostante. Ci si guarda, ci si cerca, si schivano occhiate e si sfiorano mani, si crea quell’ecotono auspicato dalle voci e che le voci lasciano che si crei in totale autonomia. Anche i più restii a prendere il proprio spazio, alla fine della performance tengono un bastoncino, una foglia secca, una pigna raccolta a terra e la mano di un altro spettatore. Tensioni e calma si pacificano, si creano legami inusitati, non solo con il territorio, ma fra compagni di condivisione.
L’ecotono, ovvero l’ambiente di transizione tra due ecosistemi eterogenei, si alimenta proprio della diversità biologica degli elementi presenti, che ne fortifica la stabilità e ne garantisce la sopravvivenza. Seguendo l’immagine suggerita dal duo Dias&Roriz, il progetto si avviluppa talvolta su se stesso, finendo per presentare mondi altri o gettare spunti per una riflessione solipsistica, rispetto a quel modello di condivisione sviluppato sin dal titolo dell’evento. Eppure, giunti alla fine delle sette ore di viaggio circolare, uno schermo rettangolare rosso che si apre come una ferita nella brughiera coglie tutti alla sprovvista e accorcia nuovamente le distanze createsi qua e là tra uno spostamento e l’altro.
Lo schermo che sbuca dall’erba alta inizia a proiettare un lungo monologo suffragato da una voce distorta, robotica. È il paesaggio che prende parola alla fine del viaggio, appellandosi direttamente agli spettatori, voce restituita dal collettivo spagnolo El Conde de Torrefiel (Tanya Beyeler e Pablo Gisbert) alla Natura stessa. La compagnia di Barcellona si serve di un’estetica visuale e testuale per interrogare gli spettatori attraverso un processo metalinguistico che smaschera e decostruisce le «piaghe nella mente» da cui siamo affetti. Le provocazioni restituiscono uno sguardo attivo allo spettatore, mirano al senso di colpa primordiale e a quella volontà di sopravvivenza insita nel genere umano.
Tuoni, lampi e vento scuotono gli alberi durante il viaggio di ritorno e aggravano il lascito delle parole del monologo. Anche ci fosse stato un tramonto di luci aranciate, l’idea finale è quella di una natura «di volto mezzo tra bello e terribile», che discosta per qualche ora gli spettatori dall’antropocene e avvicina l’uomo al suo stato di natura, a quel senso leopardiano di nullità nel cosmo che si esaurisce nel momento in cui si riprende contatto con la metropoli.
Resta comunque qualche gap e disarmonicità fra le varie performance che perdono di tono e di contesto se raffrontate al forte impatto psicologico del finale del collettivo spagnolo. Alcune, come quella di Chiara Bersani e Marco D’Agostin che hanno inscenato un picnic inconsueto insieme a un performer con disabilità, o quella di Emilie Rousset, che intervista un agricoltore locale e una ricercatrice in etologia e bioacustica, hanno una fruizione più distaccata, obiettiva, fortemente in contrasto con la chiara richiesta di partecipazione attiva del collettivo spagnolo e del duo Dias&Roriz, creando uno scompenso d’intenti e di conclusioni.
La mescolanza fra approcci tradizionali (frontali e non interattivi) e metodologie sperimentali (dove lo spettatore diventa parte integrante della performance) crea un ritmo altalenante che diluisce – in alcuni casi annacquandolo – il tema del paesaggio e lo stressa per sette ore senza una precisa linea narrativa unificante. L’intento primario del progetto è stato comunque raggiunto, perché gli spettatori sono stati spinti fuori dagli edifici teatrali per vivere un’esperienza immersiva diversa, condivisa. Come viene sottolineato da El Conde de Torrefiel, il pubblico paga per vedere qualcosa che è alla portata di tutti, ma che il contemporaneo impedisce di fruire con un approccio critico e consapevole. Il teatro dunque, benché fuori dal proprio edificio, si riconferma strumento ontologico necessario per un contatto con il mondo diretto e immediato.
PAESAGGI CONDIVISI
ideazione e cura Caroline Barneaud e Stefan Kaegi (Rimini Protokoll)
assistenza artistica Giulia Rumasuglia, Magali Tosato
direzione tecnica Guillaume Zemor
produzione e coordinamento Isabelle Campiche, Aline Fuchs (Théâtre Vidy-Lausanne)
con il supporto dei team produzione, tecnica, comunicazione e amministrazione del Théâtre Vidy-Lausanne
coordinamento di Performing Landscape Chloé Ferro, Monica Ferrari, Lara Fischer (Rimini Protokoll)
produzione locale ZONA K e Piccolo Teatro di Milano
assistenza artistica Federica Bruscaglioni e Silvia Orlandi
produzione e coordinamento Valentina Kastlunger, Valentina Picariello, Federica Bruscaglioni e Leda Peccatori
direzione tecnica Luca De Marinis
coordinamento tecnico Francesco Pace
tecnico Video Giovanni Bonalumi
tecnici audio Cristiano Camerotti,Emanuele Martina, Jacopo De Doná, Pietro Forconi
macchinisti Davide Memeo, Martino Colaianna
comunicazione e promozione Silvia Orlandi, Renata Viola
coordinamento scientifico Emanuele Regi e Francesca Serrazanetti
traduzioni Antonio Tagliarini, Valentina Kastlunger, Ruggero Franceschini
nella pièce di Ari Benjamin Meyers Alessandro Luppi (direttore musicale) Michael Costanza (tromba) Iris Soledad Galibariggi (sassofono) Pierfausto Dall’Era (tuba) Simone Capitaneo (trombone) Gabriela Clelia Cuna (flauto) Maria Andreana Pinna (sassofono tenore)
nella pièce di Stefan Kaegi / Riccardo Tabilio, Costanza Alessandri, Luca Frezzini, Camilla Giraudi, Rania Khazour, Pamela Turchiarulo (voci), Roberto Cirillo (registrazione live)
nella pièce di Chiara Bersani e Marco D’Agostin Marco Bricchi (performer), Lemmo (musica), Luca Ciffo (registrazione voce ed editing)
nella pièce di Emilie Rousset Davide Albrici (agricoltore), Giulia Heatfield Di Renzi e Ruggero Franceschini (performer)
nella pièce di Sofia Dias e Vítor Roriz / Antonio Tagliarini Milena Costanzo, Luca Stetur (voci), Luca Ciffo (registrazione ed editing)
produzione Rimini Apparat (Germania) e Théâtre Vidy-Lausanne (Svizzera)
coproduzione Performing landscape, consorzio europeo: Bunker et Mladi Levi Festival (Slovenia), Culturgest (Portogallo), Festival d’Avignon (Francia), Tangente St. Pölten – Festival für Gegenwartskultur (Austria), Temporada Alta (Spagna), ZONA K e Piccolo Teatro di Milano (Italia), Berliner Festspiele (Germania)
Zona K, Piccolo Teatro, Parco delle Groane, Milano | 15 giugno 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.