GIANNA VALENTI | “In front of me a cave and I’m going to explore it.” È questa l’immagine finale del documentario Body of Work su Marina Abramović. L’artista cammina di spalle, minuscola di fronte alla vastità di paesaggi rocciosi inesplorati. I suoi cinquantacinque anni di carriera nella Performance Art: un viaggio inarrestabile verso il non ancora esplorato e verso il corpo come luogo di incontro della propria umanità e dell’umanità di ogni altro corpo con cui entra in relazione e in ascolto, nel qui e ora dell’azione performativa.
All’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, in questo giugno 2024, l’artista riceve il diploma honoris causa in Tecniche Performative per le Arti Visive e con generosità, semplicità, e senza mai negarsi una dimensione di vulnerabilità, condivide con il proprio pubblico e con i giovani (perché qui è venuta per incontrare gli studenti) la sua eredità, il suo messaggio sulla forza trasformativa dell’arte performativa e sul corpo, nella sua umanità più profonda, al di là di ogni categoria sociale o politica, come luogo di questa trasformazione.

Marina Abramović all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino durante la cerimonia di consegna del diploma honoris causa in Tecniche Performative per le Arti Visive

Abramović non perde tempo a raccontare il proprio percorso, sa nel profondo dove ci vuole portare e, citando Brancusi, parla dell’opera d’arte come presenza fisica, mentale ed energetica dell’artista che l’ha agìta, dichiara l’ascendenza del proprio lavoro dalle filosofie orientali, dà spazio al silenzio, al vuoto, alla consapevolezza del sé, al controllo mentale e porta attenzione alle modalità creative per la ricezione di impulsi intuitivi oltre la realtà tridimensionale, dall’attività onirica alle capacità visionarie che si attivano inaspettatamente nel quotidiano.
Temi già condivisi nel suo An Artist’s Life Manifesto, dalla necessità di creare silenzio — “An artist has to understand silence. An artist has to create a space for silence to enter his work. Silence is like an island in the middle of a turbulent ocean.” — alla necessità di creare vuoto attraverso una pratica di solitudine — “An artist must make time for the long periods of solitude. Solitude is extremely important”, perché è dopo il silenzio, la solitudine e la meditazione che il corpo fisico, mentale ed energetico può dirsi pronto a manifestare l’opera e a farsi opera.

È questo il terreno che l’artista ha scelto per spingere sempre oltre i propri limiti mentali e fisici ed è questa l’introduzione che sceglie per prepararci al racconto dell’immaterialità dell’arte performativa e della sua estemporaneità.
Con la sua presenza, con la chiarezza dello sguardo e una scelta di parole semplici, ci parla del valore della realtà del presente come unico tempo della performance, perché non si può fare performance, sottolinea con forza, pensando al passato o al futuro: l’unico tempo che abbiamo per essere presenti l’uno all’altro, come performer e pubblico, è questo, qui ed ora, just now.
Il corpo del performer e del pubblico sono una concentrazione energetica impossibile da separare. Ma qual è il risultato di questo incontro nell’arte performativa? “Non stiamo creando nulla di fisico… la Performance Art è una forma d’arte immateriale e bisogna essere lì di persona per farne esperienza” ed è proprio per questa totalità di presenza richiesta — confessa — che questa forma d’arte ha avuto difficoltà ad affermarsi come mainstream e ha ricevuto un cambio di attenzione solo in questi ultimi anni.

Marina Abramović, The Artist is Present, MoMA New York, 2010

Il passo successivo che ci propone è il long durational approach to Performance Art, qualcosa di speciale che soltanto lei può dare perché l’ha incarnato, perché è soltanto attraverso la lunga durata che “la performance non è più solo pratica performativa e si fa vita.” Un’azione performativa di due o tre ore è fisicamente difficile — confessa — ma è gestibile. Se invece fai qualcosa un mese, tre mesi, otto o dieci ore al giorno, la performance slitta sul piano della vita. Mostri la tua vulnerabilità, il tuo essere esausta, il tuo vero sé, ed è su questo terreno che avviene una connessione incredibile con il pubblico a livello emotivo, perché le persone sono vulnerabili, non perfette, ed è mostrandoti nella tua imperfezione come artista che riesci a dar vita a tutto questo.
La Performance long durational è punto di svolta nel suo percorso artistico e avviene al MoMA di New York nel 2010 con The Artist is Present: 700 e più ore di azione performativa in presenza di pubblico e 1.675 persone incontrate. Una performance che non ha solo generato un incontro — racconta Abramović — ma le ha permesso di creare una “comunità di pubblico” che “ti supporta, ci crede, ritorna per sostenerti e diventa sempre più coinvolta, perché nel XXI secolo non è più sufficiente che il pubblico venga in un museo per guardare qualcosa, viene per esserne parte, to be part of something.”
The Artist is Present, evento performativo iconico ormai parte della nostra memoria collettiva, condensa il punto più alto del suo percorso artistico, si fa segno di una trasformazione fisica, emotiva e spirituale sia per Abramović che per il suo pubblico, diventa codice performativo per il suo lavoro successivo, le apre una visione completamente inattesa del senso profondo del suo fare arte e le regala una percezione che si fa chiave di lettura per il futuro e l’evoluzione dell’umanità. 

Marina Abramović, The Artist is Present, MoMA New York, 2010

È così che si racconta: “avevo un tavolo e due sedie e chiunque poteva sedersi quanto desiderava, sette ore, venti minuti, trenta secondi… non potevano parlarmi, potevano solo guardarmi negli occhi. (qui il breve video del MoMA, con voce dell’artista, per preparare il pubblico all’incontro con lei). Mi sono solo cambiata il vestito. Il primo mese blu, perché dovevo calmarmi, il secondo mese rosso, perché era estremamente difficile continuare e avevo bisogno di energia e infine bianco, quando ho ritrovato la mia energia; a quel punto ho anche deciso di rimuovere il tavolo… C’era poi anche la difficoltà di aver scelto una sedia senza poggioli, perché esteticamente più bella… non potevo appoggiare le braccia e questo era estremamente doloroso… ero terrorizzata all’idea di dover interrompere e il dolore era insopportabile… quando vai così lontano, poi succede qualcosa di miracoloso, il dolore scompare. Era come se non ci fosse mai stato… Poi ho realizzato che c’era così tanto spazio all’interno del mio corpo… così tanto spazio che ti riesci a muovere senza muoverti. Vai verso l’interno.”

La drammaturgia spaziale e teatrale del lavoro è potente. Due corpi immobili uno di fronte all’altro in uno spazio ampio. Il corpo dell’artista che lavora per sottrazione e si fa presenza energetica pura, che sceglie l’azione più semplice e complessa al tempo stesso, quella di stare, che agisce un campo vibrazionale aperto, senza schermi o scudi protettivi, che sa donarsi e contemporaneamente ricevere, l’azione che nel suo Manifesto Abramović chiama Transparency: “The artist should give and receive at the same time. Transparency means receptive. Transparency means to give. Transparency means to receive”. Di fronte al corpo dell’artista, un corpo del pubblico, intorno ai due corpi lo spazio vuoto e, sul perimetro, una fila regolare o gruppi di persone in attesa di sedersi e già parte, consapevolmente o inconsapevolmente, dell’evento performativo. La vulnerabilità di un incontro e l’imprevedibilità di un tempo presente condiviso come valori guida.
Una performance — confessa Abramović —  che ha saputo gestire solo grazie alla saggezza e alla concentrazione dei suoi sessantacinque anni. In questa situazione “non c’è nessun luogo in cui andare se non noi stessi”. Ma poi è successo qualcosa di inaspettato, come un miracolo: “ho capito che il mio cuore si apriva a un enorme amore incondizionato per ogni singolo essere seduto difronte a me e che non avevo mai visto prima nella mia vita”. “Quando mi sono alzata da quella sedia dopo settecentoquindici ore di incontri, ero cambiata, non ero più la stessa persona e non ero solo io a essere cambiata, il pubblico era cambiato con me. Questo è stato l’inizio della mia Performance Art. Ho realizzato allora che dovevo lasciare la mia eredità ai giovani, agli artisti, al pubblico.”

Marina Abramović, The Life, Pesaro2024. Photo Culto productions

Chiama la sua eredità The Transformative Force of Performance, una forza che è il seme del progetto artistico e di vita di costruire un museo per la Performance Art a nord di New York e rendere così possibile la condivisione, con più corpi possibili, dell’esperienza trasformativa dell’azione performativa.
Un seme da cui nasce anche la scelta di fare dell’amore incondizionato il valore guida di ogni sua pratica presente e futura e del corpo, di ogni corpo, la sede di quest’emozione trasformativa, il luogo per un’evoluzione dell’umanità. Perché in un mondo dove le guerre e le uccisioni di altri esseri umani si ripetono sempre uguali e senza sosta — conclude — è importante chiedersi che cosa possiamo fare personalmente: “è molto facile criticare gli altri, ma la domanda è, che cosa posso fare personalmente per cambiare qualcosa?”  

Ecco le sue ultime parole sulla responsabilità individuale e artistica rispetto agli eventi dell’umanità: “L’unico cambiamento possibile avviene se facciamo qualcosa a livello personale e penso che gli artisti abbiano una grande responsabilità e debbano fare qualcosa. Per me si tratta di creare arte che elevi lo spirito umano e dar vita a situazioni dove possiamo di fatto imparare come agire l’amore incondizionato.”