SOFIA BORDIERI* | Quello sull’archivio è un interesse sempre più crescente, almeno dalla seconda metà del secolo scorso, nutrito da diversi contributi teorici e di ricerca. Negli ultimi anni si è infatti aperto un fertile dibattito sull’entità degli archivi d’artista in generale e su quelli della danza e della performance in particolare, in sintonia con approcci sociologici e antropologici che studiano la performance come strumento mediante il quale società e culture persistono e si tramandano. Contro la considerazione dell’effimero irredimibile (Marco De Marinis, 2013) molte posizioni hanno ribaltato la prospettiva spostandosi dall’idea di memoria della performance verso quella di performance come memoria. Un assunto possibile dell’archiviazione di uno spettacolo è raccogliere tutti i documenti satelliti che testimoniano non solo l’esistenza dello spettacolo ma la sua storia, dalla genesi all’ultima messa in scena, ripresa e ritorno, e quindi il suo contesto storico di riferimento.

Nell’ambito del Convegno Anarchivio curato da Stefano Tomassini e Roberto Zappalà, interno al programma del Catania Contemporanea/FIC Fest 2024, abbiamo incontrato Enzo Cosimi con cui abbiamo parlato di rimesse in azione, trasmissione e memoria.

In generale, qual è la tua esperienza con la rimessa in azione coreografica?

Il tema è interessante. Credo molto nel valore del repertorio avendo già fatto esperienza concreta e diretta con lo spettacolo Calore (1982) ripreso grazie al progetto RIC.CI di Marinella Guatterini nel 2012. Rimettere in scena il mio primo lavoro del 1982 è stata un’esperienza assolutamente positiva, come anche il fatto di rivolgersi a un pubblico diverso dopo tanti anni. Inoltre per me è stato anche qualcosa di molto intimo, il fatto di potermi rivedere allo specchio trent’anni dopo. E’ stato chiaro sin da subito che Calore poteva funzionare anche oggi.

ph. Serena Nicoletti

Bastard Sunday, in programma durante il FIC Fest, è una tua creazione legata alla figura di Pasolini. Come hai ripreso questo spettacolo nato all’inizio degli anni duemila?

Non ho mai lasciato questo spettacolo in realtà. Il primo step è stato nel 2003 quando feci un’installazione performativa per Dissonanze a Roma, un festival fondamentale per l’universo tecnologico nelle arti di quegli anni. Lì presentai Real good time, evento da cui nasce Bastard Sunday. Altra fonte per la realizzazione del lavoro è stato il secondo atto di un’importante produzione, I need more, divisa in due parti: la prima era una coreografia interpretata da cinque uomini, la seconda era già Bastard Sunday però in una versione interpretata da Paola Lattanzi insieme a un coro di quattro uomini. Dopo questa esperienza ho sviluppato Bastard Sunday nella versione odierna, sempre con Lattanzi e un interprete maschile che all’epoca ero io.
Dal 2005 lo spettacolo continua ad avere la sua vita e, nonostante piccoli bui e stop di uno o due anni, è stato sempre ripreso. L’anno scorso, grazie al centenario di Pasolini è ritornato in scena con Alice Raffaelli che ha sostituito Paola. Le loro due performance sono molto diverse e intense, entrambe però riescono a restituire l’anima del lavoro.  Sono felice che questo ruolo sia intercambiabile tra loro due.
Anche il disegno luci ha avuto un iter particolare: la prima versione è stata firmata da Stefano Pirandello, light designer con cui ho collaborato per molto tempo. Poi in varie riprese è stato modificato da Gianni Staropoli, sino ad arrivare all’ultima versione curata insieme a me da Giulia Belardi, mia nuova collaboratrice.
Rispetto al lavoro musicale è stata molto interessante la collaborazione con Robert Lippok, uno dei musicisti tedeschi più importanti nella scena elettronica conosciuto grazie a Giorgio Mortari. In quella occasione è nato Real good time rappresentato, allora, in un luogo molto singolare a Roma: la cappa Mazzoniana della stazione Termini, oggi sede del Mercato Centrale. Prima era uno spazio vuoto, bellissimo, arricchito da una scultura di Angiolo Mazzoni realizzata negli anni ’30.

Bastard Sunday. ph. Serena Nicoletti

Ritornando a Calore, quali scarti ha prodotto la sua ripresa dopo trent’anni?

Riprendere un lavoro dopo trent’anni è stata un’esperienza molto diversa rispetto alla ripresa di un lavoro più recente. Lì si trattava di trasmettere un universo e naturalmente i giovani con cui mi approcciavo erano totalmente diversi da quelli degli anni Ottanta. Per fortuna c’era un video, una camera fissa laterale, altrimenti sarebbe stato difficile anche per me ricordare puntualmente la partitura. L’unica cosa che dissi ai nuovi interpreti del 2012 è stata di andare a vedere i video dei Sex Pistols per cercare di agguantare lo spirito del lavoro.
Il primo Calore veniva fuori dopo gli anni Settanta, nell’82 per esattezza, e nasceva dopo la mia permanenza negli Stati Uniti e quindi un periodo subito successivo agli anni di piombo. C’era una grande voglia di aprirsi al “caldo’’, Calore, per questo, è un titolo molto significativo. Calore, nel 1982, l’ho realizzato con dei miei amici, non danzatori, con cui condividevo il quotidiano. La nuova versione è stata trasmessa invece a giovani studenti di danza della Scuola Civica Paolo Grassi di Milano.
Lo spettacolo, richiesto ancora oggi, è un’indagine sulla giovinezza, una sorta di regressione all’infanzia. Un aneddoto che mi piace ricordare è che durante la preparazione del lavoro in Paolo Grassi, per avvicinare la Compagnia a quello che era la mia idea, ho mandato i danzatori a osservare un gruppo di bambini che giocavano durante la ricreazione nel giardino della scuola elementare lì accanto. Dopo quella visione le prove cambiarono radicalmente.

Come è cambiato il tuo modus operandi creativo? Pensi che il tuo lavoro possa essere trasmesso dai tuoi danzatori?

Negli anni il mio approccio alla creazione è cambiato molto: per vent’anni ho lavorato solo su di me e ogni singolo movimento nasceva dal mio corpo. Per questo è stato molto importante avere la stessa Compagnia Stabile per lungo tempo, dove ho potuto costruire un mio patrimonio segnico. Questo aspetto oggi è molto raro e la mancanza si percepisce nella difficoltà dei giovani autori di oggi che faticano nella costruzione di un loro linguaggio specifico.
In particolare, ricordo bene il primo lavoro senza me in scena, Hallo Kitty, una creazione per cinque donne, presentato alla Biennale di Venezia, dove avevo il timore che il mio linguaggio non venisse fuori ma mi sbagliavo completamente. Oggi, invece, cerco molto la condivisione con i miei danzatori, modalità di lavoro abbastanza diffusa tra i coreografi odierni. In particolare, cerco di trovare danzatori che abbiano anche la capacità di comporre, però come coreografo penso sia molto importante saper leggere e modificare il linguaggio dei corpi con cui si lavora. E questo succede solo se hai una formazione di danza importante.
Oggi a volte vengono presentati lavori basati soltanto sulla forza “dell’idea” e il lavoro sul corpo risulta secondario. In questo senso rivendico il termine danzatore. Oggi sembra esserci un pregiudizio sulle parole coreografo e danzatore sostituiti dal termine performer che ha invece un senso storico diverso.

Secondo te la memoria è sufficiente per archiviare uno spettacolo oppure può esistere una costellazione di possibili documenti contestualizzanti?

Per almeno quindici o vent’anni ho avuto un quadernino dove scrivevo appunti e riflessioni per ogni spettacolo. Ogni quadernino era una sorta di feticcio, ne compravo di particolari in luoghi diversi come in India e in America. Però più passa il tempo e più non scrivo nulla. Oggi credo molto nell’importanza della memoria. I quaderni sono stati importanti, ma fondamentali sono state anche due pubblicazioni sul mio lavoro. Il primo è scritto da Stefano Tomassini e pubblicato nel 2002, un testo più “filologico” che segue il mio processo creativo dall’inizio fino ad Hallo Kitty. L’altro libro, Una conversazione quasi angelica, pubblicato recentemente, è un’intervista/riflessione/saggio scritto da Mariapaola Zedda, da anni mia collaboratrice e drammaturga. Insieme abbiamo lavorato su due lavori dell’Orestea e recentemente stiamo collaborando alla nuova produzione Venere vs Adone che debutterà  il 20 luglio al Festival Civitanova Danza.

 

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.