GIULIA BONGHI | L’estate triestina si arricchisce con la messa in scena dell’opera Turandot di Giacomo Puccini, allestita al Castello di San Giusto, nel Cortile delle milizie.
Questa storica fortezza-museo non è solo un luogo di rara bellezza, ma è anche un testimone silenzioso delle vicende storiche che hanno plasmato la città. Costruito nel XV secolo su una collina che domina il golfo, il Castello offre una cornice che esalta l’epicità e la maestosità di questa fiaba lirica. È stato riproposto e revisionato l’allestimento di Davide Garattini Raimondi, andato in scena al Teatro Verdi di Trieste nel 2019 con la co-regia di Katia Ricciarelli.
Il cortile delle milizie, con le sue possenti mura coperte di edera, ospita una scenografia, firmata da Paolo Vitale – che cura anche il disegno luci –, dall’atmosfera fredda e severa. Sei praticabili mobili raffigurano un mondo diviso in due: bianco e nero, bene e male. I costumi di Danilo Coppola, che riprendono vagamente un taglio tradizionale, separano anch’essi nettamente il popolo, in vesti nere e anonime, da chi detta le leggi di vita e di morte. Questi ultimi sono vestiti di bianco e le decorazioni degli abiti sono delle tessere che imitano dei pezzi di vasi in porcellana cinese blu e bianca, con motivi floreali e paesaggistici.
Sul fondo, un telo bianco, stagliato contro il cielo che imbrunisce via via che l’opera avanza, accoglie le videoproiezioni che risultano di dubbia bellezza e utilità.
L’effetto affascinante di questa produzione è rintracciabile nella messa in rilievo di un potere mistico della Principessa di Ghiaccio e nel clima che emerge fortemente favolistico. Una fiaba cupa, che esalta l’oppressione e la crudeltà della sovrana, soprattutto nel primo atto, quando il popolo, l’eccellente Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, viene persino collocato dietro le sbarre e sorvegliato dalle guardie mascherate che impugnano e ostentano i manganelli.
Il Coro di voci bianche, I Piccoli Cantori della città di Trieste, entra trascinato da un sorvegliante: tanti piccoli schiavi messi in fila e legati a un’unica corda.
Il popolo e i personaggi assumono, in seguito, una certa ieraticità. La tensione si profila nell’immobilità e diventa palpabile, nel secondo atto, durante il rito dei tre enigmi, in cui Calaf e Turandot svettano in cima ai praticabili.
Il tenore americano Clay Hilley ha un bel timbro, limpido e spiegato, anche se il tentativo di un sovracuto, a circa metà dell’opera, viene soffocato, e la voce rimane fioca per tutto il terzo atto, esibendo un Nessun dorma un po’ grezzo. La soprano Rebeka Lokar è una Turandot dalla voce argentina, quantunque sgraziata: non convincono il vibrato largo e un canto poco articolato.
È efficace il canto di Caterina Marchesini, nel ruolo di Liù, pieno e sonoro, ben appoggiato, che si addolcisce intonando Tu che di gel sei cinta, aria in due parti che precede la sua morte. Robusto ed espressivo è il timbro di Abramo Rosalen che interpreta Timur, un padre vecchio, cieco e con tanto di stampella dal secondo atto in poi.
Ping, Pang e Pong – rispettivamente Marcello Rosiello, Enrico Casari e Aaron Mcinnis – regalano colore e carattere all’opera, mentre Gianluca Moro è apprezzabile nei panni dell’Imperatore Altoum. Funzionano pure Stefano Marchisio, Mandarino; Vida Matičič Malnaršič e Lucia Premerl, prima e seconda ancella; Francesco Cortese come principe di Persia.
Sul podio, il Direttore Musicale stabile Enrico Calesso guida l’Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, inizialmente un po’ sfaldata, ma prontamente recuperata. Le mani affusolate del direttore disegnano nell’aria, ora carezzevoli sulle melodie degli archi, ora ricalcando il glissando delle arpe, ora vibranti come i piatti, i tam-tam, il glockenspiel e gli altri strumenti idiofoni previsti in partitura.
In questo caso, è stato scelto di concludere l’opera con la morte di Liù. Com’è noto, la composizione di Turandot fu interrotta dalla morte del compositore nel 1924, lasciando incompleto il finale del terzo atto. Diversi epiloghi sono stati scritti postumi da altri compositori. Nel 1926, Franco Alfano, su commissione di Arturo Toscanini, completò l’opera, tentando di essere più fedele possibile alle bozze lasciate da Puccini, che prevedeva chiaramente una trasformazione emotiva della Principessa. Se inizialmente fredda e distaccata, avrebbe dovuto gradualmente scoprire l’amore, grazie alla determinazione e alla passione di Calaf. Alfano ha dunque composto un duetto cruciale tra i due protagonisti e un finale trionfale e risolutivo, in linea con la tradizione operistica del tempo.
Calaf confessa il suo amore e la bacia. Turandot, finalmente, prova sentimenti umani e ammette di essere stata sconfitta dall’amore. Si presentano davanti all’Imperatore e alla folla, e Turandot dichiara di conoscere il nome di Calaf: Amore. L’opera si conclude con un coro trionfale, che celebra la vittoria dell’amore.
È stato apprezzabile e d’impatto assistere al finale brusco e ricco di pathos, proposto in questo allestimento. Liù su taglia la gola e davanti a lei s’incontrano Turandot e Calaf, si guardano e si sfiorano le mani. Buio.
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Rebeka Lokar
Calaf Clay Hilley
Liù Caterina Marchesini
Timur Abramo Rosalen
Ping Marcello Rosiello
Pang Enrico Casari
Pong Aaron Mcinnis
L’imperatore Altoum Gianluca Moro
Mandarino Stefano Marchisio
Prima ancella Vida Matičič Malnaršič
Seconda ancella Lucia Premerl
Il principe di Persia Francesco Cortese
Orchestra e Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Maestro concertatore e Direttore Enrico Calesso
Maestro del coro Paolo Longo
Coro di voci bianche I Piccoli Cantori della città di Trieste
Maestro del coro di voci bianche Cristina Semeraro
Regia Davide Garattini Raimondi
Scene e disegno luci Paolo Vitale
Costumi Danilo Coppola
Assistente alla regia e movimenti scenici Anna Aiello
Allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Castello di San Giusto, Trieste | 10 luglio 2024