GIAMBATTISTA MARCHETTO l Ha debuttato un paio di settimane fa al Festival di Teatro Antico di Veleia con la sua rilettura di Ifigenia in Aulide, adattata a un contesto novecentesco e contrappuntata dal sottotitolo Un miracolo scandaloso (qui la recensione di Olindo Rampin). Ma prima Fausto Russo Alesi ha lavorato intensamente con un gruppo di giovani interpreti (selezionati con bando per il corso di alta formazione Bottega XNL-Fare Teatro di XNL Piacenza) per attraversare i sentieri scoscesi della formazione. Soltanto dopo è arrivato alla messinscena.
Qual è il senso del lavoro – perché di lavoro duro si tratta – dell’attore in questo teatro di oggi, che divora i suoi figli con la smania di produzioni veloci e sempre nuove? Quale senso ha compiere sforzi intellettuali, fatiche fisiche, gesti feroci e azioni d’arte… se poi tutto si spegne in un pugno di repliche?
Vale la pena, allora, affrontare il tema del talento, un concetto che può sembrare apodittico e che, invece, trova nel lavoro (ancora) e nella fatica la sua via crucis verso la resurrezione, ogni sera, in scena. Per questo, PAC ha chiesto a Russo Alesi di approfondire il percorso compiuto a Velleia, ma anche di scavare nella riflessione sul ruolo dell’artista in teatro e nel mondo.
Fausto, quanto conta la formazione nel percorso di costruzione di un talento?
Conta moltissimo. Ogni professionista deve specializzarsi e deve studiare per raggiungere una formazione adeguata e i migliori risultati. Il talento è qualcosa di innato, è qualcosa che ti può permettere di fare anche dei percorsi non tradizionali, non convenzionali. Probabilmente il talento, a cui si aggiungono motivazione e determinazione, è qualcosa che ti porterà a raggiungere l’obiettivo e il risultato indipendentemente dal tipo di formazione, dal tipo di percorso che strutturerai, ma certamente il talento va coltivato, va alimentato con la preparazione e lo studio della tecnica, per affrontare al meglio il mezzo di comunicazione con cui decidi di lavorare.
Formazione significa anche avere l’opportunità di incontrare “Maestri”, altri punti di vista, altre storie, esseri umani, confrontarsi direttamente con chi sta facendo il tuo stesso percorso e con chi lo ha già fatto. Soprattutto credo che la formazione sia indispensabile per attrezzarsi ad affrontare quello che è poi il mondo del lavoro: bisogna essere solidi. Anche se noto una sempre più diffusa omologazione del luogo della formazione col mondo del lavoro. Credo sia indispensabile non solo preparare professionisti, ma considerare il tempo dello studio come un luogo protetto e di diritto alla ricerca e alla conoscenza di limiti e potenzialità.
Bisogna avere un bagaglio strutturale forte che ti consenta di costruire un tuo percorso personale e autentico. È necessario acquisire strumenti di consapevolezza, indipendentemente dal talento. E solo con un meticoloso e appassionato lavoro di studio si possono ottenere grandissimi risultati. La recitazione è un lavoro di profonda conoscenza di se stessi, che non si esaurisce (qualora sia fertile) con gli accademici anni di studio, ma è un percorso che va avanti negli anni indipendentemente dall’età, perché fa parte del nostro essere dentro al mondo e della capacità di abitare i suoi misteri e le sue contraddizioni, traghettandoli in una realtà parallela.
Ciò che noi facciamo in quanto artisti è farci veicolo di quello che ci succede, di quello che è successo, del sentore di quello che potrebbe succedere, muovendoci, appunto, tra la verità e la finzione.
Il lavoro quotidiano (fisico e mentale) è necessario per affinare le doti?
Il lavoro quotidiano di studio, ascolto, di saper guardare intorno a te, studiare gli individui, conoscere il mondo in cui vivi, le sue crepe: l’allenamento è certamente indispensabile. Diciamo che non tutti gli attori lo fanno e probabilmente ci sono anche fasi della vita in cui prediligi un allenamento fisico piuttosto che un allenamento di studio.
Eimuntas Nekrosius diceva: «Adesso voi siete molto forti fisicamente, dovete allenare lo spirito, dovete accrescere la vostra cultura, lavorare con l’immaginazione». Tenersi in allenamento è fondamentale, perché il nostro è uno strumento che va accordato in continuazione, vanno sciolte le tensioni, va conosciuto. Bisogna mettersi nella condizione di superare i propri limiti, prendere consapevolezza del proprio corpo e del proprio corpo nello spazio: l’allenamento quotidiano serve a questo, serve a tenere un’energia pulita che organicamente scorre.
Il nostro corpo a volte è a conoscenza di cose che sottovalutiamo, attraverso il lavoro fisico respiriamo, creiamo relazioni, facciamo vivere e sosteniamo le potenzialità della parola. Allo stesso tempo, dobbiamo allenare il nostro strumento emotivo, i muscoli del cuore, essere capaci di far suonare tutti i sentimenti e le emozioni implicandoci in quello che raccontiamo.
Utilizzi dei “modelli” o dei paradigmi nel percorso di formazione?
Non paradigmi specifici, ma certamente sono figlio – come tutti – di qualcosa e di qualcuno. Non dimentico mai di osservare chi ho davanti e cosa mi sta insegnando e quello che cerco di fare e di portare il mio punto di vista sul mondo, come lo vedo io, ma cercando di sollecitare anche gli allievi nel costruire il loro punto di vista e avere il coraggio di raccontarlo. Poi, ovviamente, fare formazione significa, come prima cosa, avere la voglia di passare a qualcun altro ciò che hai appreso durante gli anni con la tua esperienza, con il tuo lavoro quotidiano, con gli incontri che hai fatto. E quindi, ogni volta è anche fare un bilancio e relazionarsi alle persone che incontri e capire come i tuoi fondamentali incidono nell’allievo e se lasciano qualcosa.
Quello che cerco di passare è quello che ho imparato lavorando in profondità con dei grandissimi Maestri. Dai primi forti riferimenti alla Paolo Grassi – Gabriele Vacis, Armando Punzo, Gigi Dall’Aglio – a quelli che ho incontrato successivamente: Nekrosius, Stein e soprattutto Luca Ronconi, con una grandissima collaborazione e, per me, un’ulteriore formazione durata dieci anni.
Ma certamente non dimentico in lungo sodalizio con Serena Sinigaglia, talentuosissima regista e grande amica. Ci siamo formati insieme alla Paolo Grassi e il nostro scambio quotidiano ci ha fatto crescere l’una con l’altro, abbiamo condiviso grandi avventure e abbiamo compreso tanto del nostro stare nel lavoro, in questo mondo, della nostra voglia di comunicare. E poi, i grandi Maestri che ho avuto la fortuna di incontrare al cinema e non posso che citare, in primis, Marco Bellocchio. Ma anche operatori culturali straordinari come Natalia Di Iorio.
Qual è il valore aggiunto che l’interprete deve portare nella messinscena?
Il valore aggiunto è l’implicazione di un artista nel lavoro che fa. Credo profondamente che ogni attore sia insostituibile e ciò che può dare un attore non può darlo un altro. L’implicarsi personalmente nel lavoro, il farsi veicolo, il mettere in campo con generosità tutto il proprio bagaglio di vissuto, il bagaglio emotivo, il bagaglio culturale, il bagaglio di pensiero. Sul palcoscenico, ma anche davanti a una telecamera, indipendentemente dal filtro della finzione, quello che cerchiamo di fare è un atto di verità.
Per cercare di dare qualcosa di autentico devi essere generoso, devi regalare qualche cosa di te, devi lavorare per qualcosa che non sei solo tu, per qualcosa in qualche modo di più grande, il senso e l’obiettivo di un testo, di uno spettacolo o di una tematica che ti sta a cuore. Io credo che il valore aggiunto sia il dare qualcosa di unico, ecco, non affidarsi ai cliché e provare a dare il massimo sempre come se fosse l’ultima volta che hai la possibilità di prendere parola. Io credo che stare sul palcoscenico o stare davanti a una telecamera è un atto di presenza e vuol dire assumersi la responsabilità di esserci.
Come si bilanciano formazione e rapporto con la regia?
Rapporto con la regia certamente vuol dire incontrare l’immaginario di qualcun altro. Un regista che è anche pedagogo deve, a mio avviso, saper dividere le due cose e potenziare le qualità personali dell’allievo indipendentemente dal suo immaginario autorale. La regia vuol dire scegliere un punto di vista, stare dentro a un contenitore che in maniera non generica ti racconta una visione sulla questione scelta e l’incontro con un grande regista, una grande regista e un grande Maestro o Maestra trasuda di insegnamenti determinanti e illuminati a tal proposito.
Sicuramente l’attore – indipendentemente se in formazione o già formato – è colui che mette il suo corpo, la sua faccia, le sue emozioni in primo piano, colui che si espone al giudizio degli altri ed è quindi per me fondamentale saper lavorare con gli attori, saper gestire, saper dialogare col “potenziale umano” che l’attore deve sempre mettere in campo.
Saper dirigere un attore significa saperlo mettere nelle condizioni migliori di dare il meglio di sé e quindi esprimere al meglio il suo talento. Un attore, nel momento in cui è su un palcoscenico o dietro una telecamera a imprimere le immagini di un film, deve poter brillare, deve poter veramente prendere al meglio la luce che gli si mette addosso e, per far questo, bisogna che l’attore sia disponibile e che chi dirige l’attore sappia gestire il suo valore prezioso e le sue fragilità.
Ci vuole molta accortezza perché, per quanto mi riguarda, lavorare con un attore significa andare assolutamente in profondità affinché quello che va in scena sia estremamente autentico e personale… come conoscere qualcosa di nuovo che non ho mai visto prima, che non somiglia a nient’altro. Per far questo, per dare la possibilità a un attore di aprirsi, di donare, bisogna creare le condizioni migliori. Quindi regia per me significa anche questo… regia degli attori, regia sugli attori, oltre che indirizzare tutti gli attori verso un unico obiettivo, verso l’abitare un tempo, un luogo e un territorio comune.
Perché hai scelto Ifigenia per la messinscena con il gruppo di lavoro?
Quando mi è stato chiesto di essere il “Maestro di bottega” per questo bellissimo progetto che è “Fare teatro” e di mettere in scena una tragedia antica, inizialmente pensavo fosse meglio proporre la commedia antica. È un momento storico talmente tragico, di triste rimozione di quello che ci accade intorno, che l’idea di affrontare la tragedia antica mi creava un enorme disagio. Volevo trovare un modo possibile per parlare di guerra, di ciò che accade vicino a noi e dentro di noi, qualcosa di terrificante e di cui non siamo in grado di occuparcene, di fare in modo che le cose vadano diversamente: spettatori e complici.
Poi, invece, pensando a Ifigenia in Aulide di Euripide, che è un grido contro l’orrore e l’insensatezza di qualsiasi guerra, sebbene molto pessimista nei confronti dell’uomo, ho cambiato idea. Questa tragedia è interessantissima, perché è come se fosse il prologo, un antefatto alla tragedia e all’atrocità, alle vendette e alla guerra. È qualcosa che avviene prima.
Questa Aulide, dunque, è qualcosa di forte che risuona in me e spero nello spettatore: una condizione, non un luogo geografico, il luogo della scelta, quel luogo dove ancora abbiamo la facoltà di appellarci alla nostra coscienza per decidere quale può essere il corso della storia e fermarsi in tempo, guardare in faccia le più bieche e violente pulsioni e decidere che si può perdere in virtù di un’empatia nei confronti dell’altro, in virtù di un di un sentimento di umanità.
Era quel luogo che mi interessava raccontare, immaginarlo con 22 attori e attrici in un tempo di studio, che per me vuol dire anche indagare e interpretare insieme un testo e tematiche che, purtroppo, risuonano protagoniste nel nostro presente. Questo testo poi ha dato l’opportunità a questi 22 attori e attrici di confrontarsi con personaggi straordinari della storia del teatro, personaggi che puoi interpretare a 22 anni come a 60. Parlo di Agamennone, di Clitennestra, di Menelao, ma parlo anche dell’opportunità di fare un forte lavoro sul coro, un mondo maschile e un mondo femminile in uno spettacolo corale che sia uno stimolo all’immaginazione e che vada a dialogare e a specchiarsi con la Polis.
Qual è il rapporto tra percorso formativo e testi classici?
Tendenzialmente se è un classico è senza tempo e bisogna lavorare in modo che quel senza tempo, cioè quella complessità così connaturata all’essere umano, ai bisogni dell’essere umano, alle contraddizioni dell’essere umano risuoni nell’oggi in maniera diretta. Per questo, sono fondamentali le traduzioni, una traduzione dell’oggi ci può aiutare a capire molto meglio cosa l’autore stesse tentando di raccontare. Per far questo è indispensabile che i riferimenti siano comprensibili nell’oggi e la lingua possa emozionarci.
D’altronde, i grandi scienziati, filosofi e intellettuali questo fanno: cercare di raccontarci le cose più alte e apparentemente distanti riferendosi alla concretezza della nostra vita di tutti i giorni. E anche i grandi classici questo fanno: ci parlano in maniera diretta e poetica della nostra vita quotidiana e dei sentimenti più naturali.
Certamente io faccio sempre appello all’esperienza e la conoscenza dei grandi maestri, dei grandi registi, dei grandi autori della letteratura, del cinema e del teatro. In un percorso di formazione non si può che parlare continuamente di Euripide, di Shakespeare, di Cechov, di Pirandello, di Eduardo o di Dostoevskj, così come non si può che parlare di Peter Brook, di Giorgio Strehler, di Luca Ronconi e di grandi attori come Volonté, Mastroianni, oppure Anna Magnani.
Il classico è sempre senza tempo? È una radice ineludibile?
I classici sono testi universali che ci parlano della complessità dell’essere umano. Se un testo di Euripide ci parla ancora oggi, vuol dire che ciò di cui parla è estremamente legato alla natura umana.
Quanto più un classico risuona nell’oggi, tanto più è necessario portarlo in scena, vuol dire che ha ancora qualcosa da dirci, ha qualcosa da insegnarci, ha qualche domanda da porci, perché credo che l’arte ci possa dare questa possibilità: evolverci come esseri umani. Credo che nella formazione sia indispensabile sia confrontarsi con i classici che con la nuova drammaturgia, con il sentire del presente, che senz’altro non può che tenere conto di tutto ciò che è stato scritto fino a questo momento.
Cosa significa essere attori nel tempo dell’immagine riflessa, dei video sui social, dell’AI?
Credo che essere attori significhi veramente implicarsi profondamente, non essere bidimensionali, ma cercare una stratificazione della propria presenza artistica. Sicuramente significa approfondimento, significa essere in grado di mutare, di “comprendere” man mano che si fa il proprio percorso, si portano in scena determinati testi o personaggi.
L’intelligenza artificiale sicuramente non può restituire un continuo lavoro di messa in discussione, o l’ambizione alla ricerca, il tentativo di trovare la strada per accedere a luoghi che in genere nella vita quotidiana cerchiamo di lasciare nell’ombra assopiti. Andare in scena, per me, è un’esperienza totalizzante e i social, invece, sono qualcosa di estremamente estemporaneo e superficiale, qualcosa che dura 24 ore e muore o che comunque dà la possibilità a chiunque di dire la sua, senza veramente fare esperienza di ciò di cui ci parla.
L’attore in scena è nel mondo, ma non è del mondo? Oppure si innesta in un flusso di energie che sono il contemporaneo quotidiano?
Io credo che l’attore in scena abiti un mondo parallelo, ma questo mondo parallelo è la metafora del nostro mondo quotidiano. L’attore è e deve essere nel mondo, perché del mondo ci racconta altrimenti non ci interesserebbe, ma per far questo può utilizzare codici e modalità espressive anche impreviste e atipiche. D’altronde, attraverso la distanza, credo che si possa guardare molto meglio e vedere in maniera più nitida ciò che ci riguarda.