RENZO FRANCABANDERA | Da diversi anni ormai, Kilowatt Festival ha al suo interno una ampia sezione multidisciplinare dedicata alla musica e alla danza. Numerosi sono i concerti dal vivo ospitati negli spazi del festival e che spesso danno l’inizio o chiudono la giornata di spettacoli, la filata di visioni che, a prescindere dalle performance di tardo pomeriggio, inizia tipicamente poco dopo le 20 e si prolunga fin quasi a mezzanotte.
Negli anni la sezione danza è diventata sempre più ricca e interessante e via via i nomi della scena nazionale e non solo ospitati dal festival sono diventati di sempre maggior rilievo. Fra le proposte di quest’anno ho assistito a due delle visioni più riuscite fra quelle della due giorni del 17 e 18 a cui ho preso parte.
Ma andiamo con ordine, seguendo la cronologia degli eventi con due spettacoli che hanno raccolto sentimenti contraddittori e dibattito fra il pubblico.
Il primo è Femenine di Gianmaria Borzillo, artista, performer e danzatore sorrentino formatosi alla Paolo Grassi di Milano. Con il suo primo lavoro da regista, Under the Influence, vince la Menzione Speciale del bando registi under 30 della Biennale di Venezia.
Femenine è un omaggio al genio musicale amato, dimenticato e oggi riscoperto di Julius Eastman.
L’ambiente bucolico di sapore hippie accoglie gli spettatori all’ingresso. Sul fondo della scena, a destra, un gruppo di quelli che un tempo avremmo chiamato figli dei fiori, è lì placido, fuori dal tempo, a intrecciare coroncine di fiori e foglie, a comporle in un ordine di bellezza e armonia naturale.
I danzatori abitano un microcosmo creato da una rarissima registrazione del 1974 di Julius Eastman alla Northwestern University, in cui è possibile ascoltare il compositore mentre esegue, con l’ensemble Sem, la sua Femenine. Borzillo aveva già presentato 20 minuti di questo lavoro, concentrato sul gesto scenico, in cui indossava un largo pantalone nero, qui invece si concentra sul concetto dell’opera: restituire il sentimento di fragilità e finitezza di una comunità, quella libera di fine anni ’70-’80, una generazione spazzata via poi dall’AIDS. L’inesorabile destino, il sentimento di vuoto e di attesa del proprio fragile che prende il sopravvento è il cuore di questo allestimento. Così Borzillo si propone in una esplicita nudità alla platea, con gesti lenti, melliflui: muovendosi a quattro zampe come un gatto sornione un po’ erotico e un po’ stanco, decide di offrire allo sguardo dello spettatore il suo corpo in modo inesorabile.
Lo spettacolo si compone di due sequenze drammaturgiche: la prima è proprio questa, affidata in proscenio alla lenta gestualità del performer coreografo. Quando questi dopo circa 20-30 minuti esce di scena, il fuoco si sposta sulla piccola comunità alle sue spalle (Max Simonetto, Emma Saba, Juri Bizzotto, Gaia Ginevra Giorgi, Johanna Robyn Closuit). Fra danze liberatorie di sapore sciamanico, intreccio di fiori e composizioni vegetali che vengono disposte qui e lì sul palco, il tempo scorre a un ritmo lentissimo, a cui forse non siamo più abituati, in qualche modo indolente e mortifero, mentre la frase sonora che dura circa 6 secondi si ripete come un mantra ipnotico, per quasi 600 volte nell’ora di spettacolo. Qualcuno non resiste ed esce. Qualcuno resta per vedere se succede qualcosa. È la stessa cosa che facciamo con la vita. La portiamo avanti giorno dopo giorno per vedere se succede qualcosa, per spirito di sopravvivenza. Ma a ben guardare quasi mai succede qualcosa di travolgente. E così anche qui. C’è un’idea, uno stare appropriato. C’è ancora da lavorare sul rapporto fra tempi, accadimenti, sguardi.
Macula è un collettivo di ricerca artistica nato nel 2021 dall’incontro tra Priscilla Pizziol ed Edoardo Sgambato. Nel 2022 i due artisti sono diventati autori associati della compagnia torinese Zerogrammi, fondata e diretta da Stefano Mazzotta.
Propongono il loro lavoro nel bellissimo Chiostro di San Francesco, che a differenza degli anni passati viene sfruttato con una pedana centrale e quindi per performance a fruizione panoramica e non frontale. La coreografia accoglie questa possibilità.
La costruzione spettacolare si impernia su due presenze, un uomo e una donna, che hanno come nucleo di attrazione del loro muoversi una sedia. Lo spostarsi sul pavimento di questo elemento all’inizio della performance ha quasi la portata di un respiro. Si alternano alla seduta i due, poi cercano di coabitare questo piccolo spazio che non è fatto per accogliere più di una presenza in modo comodo.
Ecco quindi che il loro gesto diventa quasi nostalgia, memoria di vissuti e tempi passati, per ricreare un ordine nel loro relazionarsi, una dimensione fungibile, quando la vigoria relazionale di inizio rapporto si smorza e subentra la dinamica continuativa, quando affiora l’insopportabile dell’altro. Si affonda nel finale in una ninna nanna popolare, che sembra abbracciare i due in una dolcezza umana finale, che suona come morbido atterraggio delle fatiche del confrontarsi.
Lo spettacolo non ambisce a complessità gestuali o concettuali: dal punto di vista coreografico, e anche delle idee di costruzione, non ci troviamo davanti a una novità.
Al pubblico comunque non dispiace: è stato fra gli spettacoli selezionati dai Visionari e sta godendo di una fortuna di circuitazione. Annotiamo, in questa fruizione panoramica, il gioco di luci di particolare pregio.
L’epfania che nell’oscuro apre Sfera, lo spettacolo coreografato da Michele Di Stefano, è veramente un colpo di genio: un Moloch alto quasi quattro metri, una creatura semovente e che nella oscurità si porta al centro del palco, si agita e ribolle nel suo essere identità fluida e disarticolata. Una specie di blob verticale che perturba la penombra e che solo dopo un po’ capiremo essere composto di innocui elementi (non sveliamo per non togliere la infantile meraviglia della scoperta). La visione anticipa quello che sarà il concetto alla base della costruzione ovvero la perdita di definizione fra le parti costituenti l’insieme, il mescolamento caotico che si dà anche fra gli individui nella società.
MK si occupa di coreografia e performance dal 2000. Con Bermudas si è aggiudicata il Premio Danza&Danza come miglior produzione italiana 2018 e il Premio UBU 2019 come miglior spettacolo di danza.
Dopo la prima epifania così ambigua e oscura, entra in scena gruppo di performer che inizia a ripetere frasi identiche, sebbene in coro asincrono: un piccolo gap temporale impedisce al coro di pronunciare le frasi all’unisono, e quindi il messaggio diventa sempre un po’ difficile da leggere fino in fondo. Un po’ come avviene sui social: uno scrive un post poi iniziano i commenti che a volte si ripetono in modo anche banale ma che nessuno legge fino in fondo per sconforto.
In realtà un’altra presenza riconoscibile era entrata in scena, prima ancora del coro e dell’epifania oscura: si tratta dell’interprete feticcio di MK, il performer Biagio Caravano, che a inizio spettacolo arriva con un scatola a spalle, come quelle in dotazione ai rider urbani portapizze, come se quello a cui si andrà ad assistere fosse una sorta di fast-food che viene servito a domicilio.
Caravano si porta in posizione centrale, dove in proscenio è sistemato un vecchio sintetizzatore, di quelli che ora non si vedono più, targato anni ’80. Inizia a manovrare le manopole e a trarre suoni e stridori che diventano la colonna sonora della creazione, insieme alle voci del coro asincrono, che ripete mantra di felicità, di ricette per l’esistenza in armonia con sé e con gli altri, quelle ormai presenti in così tanti spettacoli che non si capisce più se qui siano ripetuti quasi per giocare su quel modo un po’ performativo di portarsi un microfono e dire le cose rilevanti della propria esistenza, come se poi davvero allo spettatore, finito lo spettacolo (ma spesso anche durante), potesse interessare.
Questo declamare è intervallato dalla parte danzata, coreograficamente molto coerente e legata anch’essa alla visione iniziale, al progressivo fondersi dei corpi in un unico movimento armonico inestricabile, a richiamare quel Moloch iniziale, il blob tutto fluido in cui non si può definire il confine fra l’un corpo e l’altro. Le luci si abbassano e quel corpo formato da tante identità diventa un unicum indistinto in movimento, ineccepibile dal punto di vista coreografico.
Sfera è quindi proprio il mescolamento caotico, condizionato dalla perdita di definizione tra i corpi e lo sguardo e il pensiero arrivano a leggere in modo preciso il concetto. Lo spettacolo è assai riuscito.
Terminiamo questa rassegna di visioni di danza con Adriano Bolognino e il suo Rua da saudade, omaggio allo scrittore portoghese Fernando Pessoa. Bolognino (Napoli, 1995) è stato da poco vincitore del premio Danza&Danza (2022) come coreografo emergente e il suo percorso continua con esiti di pregio. Qui a Kilowatt propone appunto Rua da Saudade, che era stato selezionato da NIDPlatform21 e CallforCreation/Orsolina28. È coreografo di cui ci siamo già occupati e che seguiamo con interesse per la cura nella costruzione coreografica e anche nell’utilizzo pulito, quasi chirurgico, di tutti gli elementi dell’universo scenico, a partire dai costumi fino alle luci e alla musica. Qui la playlist è intonata a dinamiche nostalgiche, da Ondas do mar de Vigo a Saudade da Gaia, fino a Gymnopedie. In scena quattro danzatrici (Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Cristina Roggerini, Roberta Fanzini) il cui lavoro fisico si muove da una prima parte più esplicitamente fisica a una seconda in cui inizia a farsi più presente la cifra di espressione. La ricerca si muove intorno all’esplorazione della intima forma di saudade, il sentimento nostalgico che attraversa la cultura portoghese. Le carezze, gli abbandoni, le sincronie e distonie, le vicinanze e le solitudini si alternano con viva e tenace precisione di gesto. Le quattro sono vestite di completo monocolore composto da giacca smanicata e pantalone: giallo limone, rosso scarlatto, blu cobalto e verde malva. Una composizione cromatica che rimanda a scelte di inizio Rinascimento. Tornano alla mente alcune pale di Bellini.
La composizione ha una felicità di evoluzione del farsi emotivo sofisticata e ricca.
Lo spettacolo dura un’ora, di grandissima intensità fisica per le danzatrici. La drammaturgia e il ritmo conoscono una flessione poco prima della chiusa per via del tentativo di costruire una serie di sbocchi emotivi con un finale quasi a delta, in cui si prospetta un ventaglio di sentimenti e prospettive narrative possibili.
Nel personale sentire di chi scrive questa scelta toglie un po’ di forza all’intensa chiusa, di lacrime che come perle si staccano da un gesto che diventa frenesia dell’abbandono e declamazione poetica della solitudine costretta a guardare avanti. Al netto di questa questione ritmica, lo spettacolo resta sia dal punto di vista formale che interpretativo un ottimo risultato compositivo e coreografico, che il pubblico accoglie con giusto rispetto per il tanto lavoro che sottende.
FEMENINE
ideazione, interpretazione, realizzazione Gianmaria Borzillo
con Max Simonetto, Emma Saba, Juri Bizzotto, Gaia Ginevra Giorgi, Johanna Robyn Closuit
luci Valeria Foti
AMELIA
di e con Priscilla Pizziol, Edoardo Sgambato
produzione Zerogrammi
con il sostegno di TAP_Torino Arti Performative, Regione Piemonte, MIC
musiche originali e suono Walter Laureti
costumi Mariangela Di Domenico
SFERA
coreografia, drammaturgia, costumi Michele Di Stefano
collaborazione alla drammaturgia Massimo Conti
con Philippe Barbut, Biagio Caravano, Flora Orciari, Sebastiano Geronimo,
Luciano Ariel Lanza, Laura Scarpini, Francesca Ugolini
attrezzeria Philippe Barbut
RUA DA SAUDADE
coreografia Adriano Bolognino
con Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Cristina Roggerini, Roberta Fanzini
costumi Tns Brand
dramaturg Gregor Acuna-Pohl
testi Rosa Coppola
produzione Körper
Festival Kilowatt, Sansepolcro | 17-18 luglio 2024