OLINDO RAMPIN | Non c’è, o forse non canta, stasera, l’assiolo di Veleia, l’antica città romana dove torniamo, spettatori del Festival del Teatro Antico diretto da Paola Pedrazzini, per assistere al Lago dell’Oblio, nuovo lavoro di César Brie ispirato all’Eneide di Virgilio e prodotto dallo stesso Festival.
Tace il piccolo rapace notturno e tacciono i cani in lontananza, che un mese fa avevano aggiunto una nota di antico, di incontaminato, di selvaggio, all’Ifigenia in Aulide di Euripide diretta da Fausto Russo Alesi (qui la recensione).
Chi non tace è Euripide, il cui spettro si aggira inquieto per le rovine di Veleia. Le sue tracce sull’ispirazione e sulla poesia virgiliana sono infatti fortissime. Egli è perfino più presente di Omero, protagonista in scena di una controversia con Virgilio dai toni semiseri. Anche nel “torso” drammaturgico che risulta dalla radicale riduzione e riscrittura del testo virgiliano realizzata dal regista argentino, i sentimenti essenziali dell’Eneide risentono della visione tragica euripidea. L’uomo vittima del risentimento divino, la pietà per i giovani stroncati prematuramente, l’esasperazione dei sentimenti, delle sensazioni, delle espressioni, l’abbandono dell’oggettività omerica e la partecipazione appassionata del poeta, la messa in scena di eroi malati di passioni: sono tutti tratti della tragedia greca, in particolare di Euripide.
Lo aveva capito bene Leopardi, quando nello Zibaldone scriveva che Virgilio fu il primo nella letteratura latina a esprimere «il sentimento profondo dell’infelicità».
César Brie aveva già realizzato adattamenti teatrali di capolavori dell’epica antica, in quel caso omerica. Anche qui il processo di radicale riduzione e riscrittura ha come fine l’identificazione di nuclei di umanità di significato universale nel testo antico: ossi di seppia montaliani che si possono ricavare anche sacrificando qualcosa in nobiltà formale e finezza interiore. E queste verità di grado zero sono la solitudine dell’uomo davanti alla necessità del destino, la natura dolorosa dell’amore, il rapporto mai risolto e sempre problematico tra padri e figli, la memoria dei defunti, la violenza della storia.
La scena di Gonzalo Callejas è un congegno di pannelli bianchi variamente azionati, che sfiorano e avvolgono gli interpreti, partecipando anch’essi all’azione. È una stanza bianca di una semplicità antica, di “arte povera”, che inserisce l’azione in un altrove mediterraneo e pre-moderno. Le musiche di Lucas Achirico, suonate da lui stesso dal vivo, sono il correlativo sonoro della scena di Callejas, per la stretta organicità espressiva che le unisce: le lievi sonorità amerinde di corde e percussioni, con la loro tristezza calma, inseriscono l’azione in un’ambiance rarefatta, fuori dalla storia.
In questa scatola bianca rivive la tragedia di un grande personaggio virgiliano, Didone, il cui amore non è mai gioia. È malattia, è ferita, è dubbio; è paura, è rimorso, è odio nato dall’amore. Nella riduzione velleiana l’espressionismo di marca euripidea e la sensibilità virgiliana per i più impercettibili moti del cuore vanno, in parte, inevitabilmente perduti.
Lo strazio della solitudine e della disperazione della prima regina cartaginese trova però un’espressione di pathos non comune nella scena del suicidio, in cui la chioma femminile colorata di rosso si fa strumento di un’action painting di terribile drammaticità sui pannelli bianchi del fondale. Enea la rivedrà nel suo viaggio ultraterreno, ancora chiusa a ogni pacificazione.
Il titolo dello spettacolo allude al Lete, fiume dell’Averno in cui, secondo la teoria del destino delle anime di derivazione platonica e orfico-pitagorica enunciata da Anchise, le anime dei morti si immergono per dimenticare le vite anteriori, purificarsi e tornare a incarnarsi in corpi umani. Il regista argentino attua una riscrittura che rovescia simbolicamente e ideologicamente il significato “augusteo” del poema, che ha in questo episodio piena espressione. La profezia della gloria di Roma è esemplificata in Virgilio dalla sfilata degli eroi, i re Albani, Romolo, i Romani e da Augusto, visto come il salvatore che riporta in terra la pace e la nuova età dell’oro. Invece qui scorrono davanti agli occhi del pio Enea le vittime illustri e anonime del bellicismo e della violenza della storia di ieri e di oggi: la figlia di Priamo Polissena, il dodicenne Carne da cannone, il geniale Archimede, il fanatizzato Sinwar, la giovane Brigitte.
Davide De Togni, Tommaso Pioli, Annalesi Secco, Alessandro Treccani, Laura Taddeo, Anna Vittoria Ferri non si sono fatti intimorire dalla natura non facile dell’impresa, dando prova di una bella energia e di compattezza interpretativa. César Brie, con la malinconia che si esprime anche nella non perduta inflessione della lingua d’origine, è un Anchise che vive il ritrovamento del figlio con una commozione viva, ma che malgrado l’oppressione della vecchiaia mantiene intatte dignità e solennità.
IL LAGO DELL’OBLIO
testo e regia César Brie
scenografia Gonzalo Callejas
musica e musico in scena Lucas Achirico
con César Brie, Davide De Togni, Tommaso Pioli, Annalesi Secco, Alessandro Treccani,
Laura Taddeo, Anna Vittoria Ferri
produzione Festival di Teatro Antico di Veleia
fotografie di Gianfranco Negri
Festival di Teatro Antico, Veleia (PC) | 19 luglio 2024