EDGARDO BELLINI | Sul dorso dell’Appennino tra Firenze e Bologna si distende il Passo della Futa, valico di antica percorrenza fra la Toscana e l’Emilia; luogo carico di storia, che durante la seconda guerra mondiale fu attraversato dalla linea gotica tedesca. Perciò si trova qui il più grande cimitero germanico d’Italia: ultimato negli anni Sessanta, ha la forma di una spirale ascendente verso il crinale, e custodisce i corpi di trentamila soldati che si immolarono agli ordini del generale Kesselring.
In questo luogo denso di storia la compagnia bolognese Archivio Zeta da oltre vent’anni progetta e realizza opere teatrali, lasciando che uno spazio tanto carico di significati agisca sul senso delle rappresentazioni. Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, fondatori della compagnia, autori e produttori indipendenti, concentrano la loro attività artistica sulla memoria e sulla resistenza culturale: non soltanto teatro ma anche recupero di storie, di vite e di radici.
Nel 2022 viene inaugurato un percorso di lungo respiro sul romanzo «La montagna incantata» di Thomas Mann. L’opera – pubblicata nel 1924 – viene scandita in tre sezioni, ognuna delle quali diventa un’autonoma messa in scena; e proprio in questi giorni al Passo della Futa si rappresenta la terza parte. Nella breve conversazione che segue con i due fondatori Sangiovanni e Guidotti, abbiamo cercato di capire le ragioni di questo progetto, e più in generale del rapporto di Archivio Zeta con la creazione teatrale.
«La montagna incantata è collocato nei primi anni del Novecento, è un romanzo multiforme, simbolico. Perché avete scelto proprio questo testo?
Lo abbiamo riletto durante la pandemia e abbiamo subito pensato che fosse il romanzo del nostro tempo: la malattia e la guerra. Senza bisogno di nessuna attualizzazione, bastava leggere e mettersi in ascolto. Inoltre la scrittura di Mann è molto teatrale e i dialoghi sono scritti meravigliosamente, così come le descrizioni degli ambienti e dei personaggi.
Come avete concepito l’intero progetto?
Da subito abbiamo concepito questo progetto in tre parti. L’idea era concludere nel 2024, anno del centenario della pubblicazione del romanzo. La prima parte dello spettacolo coincide con la prima parte del romanzo: il tempo scorre molto lentamente. Nella seconda parte il tempo inizia a scorrere più rapido e passano gli anni. La terza parte è diversa: il testo è più scarno, asciutto e sperimentale e procede velocemente verso la catastrofe della prima guerra mondiale.
Nel vostro lavoro i luoghi vincolano in senso costruttivo la creazione scenica. In questo caso vi siete spostati dagli interni di un ospedale, dove avete rappresentato la seconda parte, al crinale del Passo della Futa: spazi differenti che riverberano in modo diverso i temi del romanzo. Vorrei che mi deste un’idea del processo creativo.
Lavoriamo in maniera cinematografica, come se fossimo sul set però non a favore di un solo occhio ma cercando uno spettro ampio, una molteplicità di punti di vista. È un lavoro geometrico e nello stesso tempo di ascolto dello spazio. Nel caso di questi ultimi due allestimenti abbiamo avuto la fortuna di misurarci con un ospedale, l’Istituto ortopedico Rizzoli, dove da qualche mese abbiamo sede e poi il nostro cosiddetto Teatro di Marte, il cimitero della Futa: le assonanze che si sono create al Rizzoli sono state di natura filologica, basti pensare alla sua storia dal punto di vista architettonico e medico. Il cimitero della Futa invece è una vasta opera di land art, è un luogo metafisico ma allo stesso tempo molto concreto e le emozioni che suscita sono fortissime. Sarebbe piaciuto a Genet. La parabola che si è creata tra i due luoghi è stata davvero sorprendente.
Che cosa avete avvertito nella risposta del pubblico, anche in relazione ai differenti luoghi?
Il pubblico ci ha seguito e si è calato nel romanzo. È stato come fare un lungo viaggio da cui si torna trasformati.
Il Passo della Futa è il vostro spazio d’elezione: qui avete fatto risuonare i tragici greci e le scritture moderne. Chi ha assistito alle vostre messe in scena riferisce di un’esperienza atipica, oltre le convenzioni del teatro. Cosa è per voi questo spazio, perché proprio qui, e come lasciate che il luogo entri nel vostro lavoro?
Il luogo, questo cimitero enorme, questo labirinto a spirale, non è solo uno spazio architettonico ma racchiude oltre trentamila giovani caduti lungo la linea gotica, un coro muto assordante e non riconciliato che silenziosamente ma inesorabilmente propone la drammaturgia. È così da oltre vent’anni. Noi lo viviamo anche come una sorta di risarcimento. Se pensiamo a quello che ha combinato la Wehrmacht in tutta Europa… noi abbiamo materiale per i prossimi mille anni per continuare a resistere e affermare il primato del linguaggio contro ogni forma di fascismo e di totalitarismo. Finché architettura, letteratura, natura e storia continueranno a dettarci le diverse possibilità teatrali continueremo a lavorare.
Come lavorate su un testo? Per esempio il romanzo di Mann: come è diventato un fatto teatrale?
Leggiamo molte volte a voce alta e cerchiamo di capire se un testo abbia o meno delle potenzialità teatrali. Nel caso di Mann si capisce rapidamente che il fatto teatrale è clamoroso. E poi noi abbiamo una ‘montagna incantata’ dove, come Castorp, il protagonista del romanzo, ci siamo autoreclusi da oltre vent’anni. L’incantamento è anche un incantesimo.
Perché avete cominciato a fare teatro?
Abbiamo iniziato da giovanissimi e abbiamo pensato che fosse un mestiere bellissimo: devi spaziare nei più svariati campi del sapere ma nello stesso tempo non devi mai perdere la concretezza e l’umiltà. Inoltre non devi mentire e non devi obbedire a nessun padrone, devi creare le condizioni per essere veramente libero. Altrimenti tutto crolla. E poi c’è questo aspetto magico della memoria: imparare a memoria è una forma di devozione nei confronti della parola. È il modo più profondo di leggere un testo. E noi scegliamo sempre testi che amiamo.
Da spettatori ci sono lavori che avete visto negli ultimi dieci anni e che vi hanno lasciato un segno?
Andiamo molto a teatro. Vediamo tanto teatro inutile. Ne parlavamo ieri con i nostri figli. Negli ultimi dieci anni abbiamo seguito con grande interesse i lavori di Deflorian/Tagliarini, Milo Rau e del Teatro delle Ariette. Tre esperienze molto diverse tra loro ma che lasciano un segno.
Quale funzione ha per voi il teatro nella società occidentale contemporanea?
Non ci facciamo illusioni: marginale. Ma dal margine possono arrivare segnali imprevedibili e potenti. Emotivamente, politicamente, culturalmente. Noi però non crediamo che il teatro sia il luogo dove fare comizi o prediche o dove dare lezioni. È un percorso di conoscenza e dove lasciare andare le emozioni.
Ditemi tre (o più) lavori teatrali di qualsiasi epoca e cultura che considerate fondamentali.
Gli spettacoli vanno visti e rivisti dal vivo quindi non parleremo di Kantor o Brook, con i quali sentiamo a livello teorico e estetico una affinità elettiva ma siamo arrivati tardi e le foto e le cassette vhs non contano o contano molto poco. Parleremo solo di quello che abbiamo inseguito e visto e che ci ha folgorato:
Strano interludio, Peer Gynt, e I fratelli Karamazov di Luca Ronconi; Il ritorno di Scaramouche, I giganti della montagna di Leo De Berardinis; Hamletas, Macbetas e Tre sorelle di Eimuntas Nekrosius; Stunde Null di Christoph Marthaler; Sicilia! e Operai, contadini di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; Ariane Mnouchkine e tutta la straordinaria esperienza del Théâtre du soleil alla Cartoucherie.