MATTEO BRIGHENTI | «This is». Marco Brinzi, il direttore artistico di OrizzontiFestival, lo ripete spesso. Significa semplicemente: «Questo è». Ma, viste le sue origini irlandesi (la nonna di Galway), pare una forma contratta di «Sure look, this is it», che nello slang irish sta per «È quello che è». Più che un intercalare, è un sospiro. Arriva alla fine di frase, quando ha detto ciò che aveva da dire, e il pensiero si ritrova a un punto fermo. Il punto messo lì dai dati di fatto: la realtà di Chiusi.
C’è chi, la mattina al bar in piazza, si lamenta che il Festival porta solo rumore e gente stramba per le strade del borgo antico e chi ha comprato i biglietti per tutti – tutti – gli spettacoli in programma dal 28 luglio al 4 agosto scorsi. «This is». Ho fatto ciò che ho potuto, sembra allora farsi forza Brinzi, quest’anno al termine del suo incarico biennale, dopo aver diretto nel 2022 l’edizione del ventennale del festival promosso dalla Fondazione Orizzonti d’Arte.
Ha giocato rispettando le regole che gli sono state date. Forse, anche per questo il 42enne attore lucchese, diplomato al Piccolo Teatro di Milano con Luca Ronconi, ha voluto intitolare la 22esima edizione “Il Grande Gioco”. Come a ribadire tanto a sé stesso, quanto alla città in provincia di Siena: ti invito a scegliere di starci, e starci fino in fondo. Soltanto così non conterà vincere o perdere: conterà il viaggio che farai, e il cuore che ci metterai.
Quel suo “appello” l’ho sentito rivolto anche a me. Personalmente, mancavo da OrizzontiFestival da quasi dieci anni, precisamente dal 2016, l’anno dell’ultima edizione del mandato rivoluzionario di Andrea Cigni, che per PAC ho seguito passo dopo passo. Ora mi si mostrava che quell’esperienza non si era spenta, come avevo sempre pensato, era rimasta a segnare una prospettiva artistica, a indicare una traiettoria culturale, ricercata dallo stesso Marco Brinzi tra danza e teatro, contemporaneo e classico, nazionale e locale. Passando pure per il ritorno del workshop residenziale di critica e giornalismo teatrale di teatroecritica, che ha poi dato vita al “Nuovo Zenit” di OrizzontiFestival 2024, il giornale diretto da Andrea Pocosgnich e firmato da Giorgia Belotti, Giorgia Bucci, Letizia Chiarlone, Edoardo Figaia, Francesca Pozzo, Sara Raia.
Allora, mi sono convinto anch’io, e sono tornato a Chiusi il 30 e 31 luglio. E non sono stato l’unico a rimettersi in cammino: Roberto Latini è stato da poco nominato direttore artistico per il triennio 2025-2027. Lo stesso Latini nel cui nome è iniziata ed è finita proprio l’avventura di Cigni.
Il lago di Chiusi è lontano. Si vede, si sente, ma rimane sullo sfondo, come in un campo lunghissimo. All’improvviso, ecco il dettaglio di una mano di Chiara Ameglio. È in questo cambio di prospettiva, di inquadratura, che risiede la necessità di un festival, di un tempo che è respiro, sguardo, postura di un corpo che si lascia scrivere addosso quello che noi, da soli, non potremmo dire a parole.
La Lingua! della danzatrice nasce, allora, dai suoi gesti che offrono braccia, gambe, busto, ai segni liberi del pubblico, che fanno della sua pelle la carta bianca per le nostre tracce sul suo passaggio. E non c’è giusto o sbagliato: c’è il tuo tratto, creato con un pennarello nero che passa da lei a noi, e viceversa, come un testimone o un’offerta votiva. Il tuo tratto, lascito di un momento di pura intimità, un attimo in cui tu e Ameglio vi guardate dritto negli occhi e vi parlate, restando in silenzio. Perché tutto passa dal corpo a contatto con un altro corpo.
Così, da ogni confronto Ameglio ritorna alla danza con un frammento di partitura in più, con una nuova possibilità di movimento sul battere di una musica quasi da rito sciamanico. Sono le linee che si ritrova addosso che la attivano, che riconosce o unicamente percepisce, perché fuori dalla sua vista. Sono le figure inventate o trovate negli spazi su di sé che la riempiono e la guidano.
Questa Lingua! sono la forza e il sorriso che sgorgano, dunque, dall’apertura all’incontro. Poi, quando la sua e nostra storia è stata scritta, rimane soltanto il vento. E, come il vento, anche la danzatrice alla fine passa tra tuttɜ e scompare. Consegnandoci alla gratitudine di esserci sentiti chiamatɜ e interrogatɜ pubblicamente: da così vicino non puoi che essere verǝ.
L’incontro ti lascia il segno se lo vivi. Altrimenti, è come se non fosse mai esistito. Anzi, non è un’ipotesi, è una realtà: per te non è proprio mai esistito. Sulla facciata della concattedrale di San Secondiano, ai lati dell’ingresso sottolineati dalle luci, la Compagnia Atacama danza come un tango contemporaneo con le ombre delle sue tante Anime sulla nuda pietra. Sono mura invalicabili, per cui Nicholas Baffoni, Alberto Bargnesi, Marco Cirignotta, Valeria Loprieno, Giada Manno, Camilla Perugini si fanno l’un l’altrǝ punto di appoggio per un andare oltre che viene ogni volta respinto. La partitura di Patrizia Cavola e Ivan Truol assomma prese acrobatiche a intenzioni di nuove forme, nuove posizioni, nuove opportunità nella velocità e nella spinta del gruppo. Una ricerca che si scontra, comunque, con la superficie dura delle cose – metafora, per altro, della stessa direzione artistica di Marco Brinzi.
La concattedrale è limite e confine per presenze che presto si disperdono e lasciano intatto ciò che hanno trovato. Se la porta non si apre, se le mura non rispondono, è perché il luogo di queste Anime è il palcoscenico, che in questa edizione di OrizzontiFestival ritrova il suo spazio al centro del centro di Chiusi: Piazza Duomo. Qui la danza si fa ancor più dimostrativa di quello che può fare, e che fa.
Tra accelerazioni e decelerazioni, la Compagnia Atacama si dedica con tutta sé stessa a una processione di forze ancestrali, con sollevamenti ripetuti e continue deposizioni. Salgono, scendono, risalgono, ridiscendono, ognunǝ con la propria geometria aerea; una volta si porta, una volta si è portatɜ a disegnare traiettorie nell’aria, scie che ne innalzano lo sforzo fino al cielo. Quel cielo che resta lassù a guardare, e ogni tanto partecipa dei nostri tentativi sorridendo.
Il sacrificio più grande per Luisa Borini è trovare l’Amore. Quello tenero dei nonni, solido, concreto, ma va bene anche quello sognato dalle canzoni pop. L’importante è che le dia un posto, il posto che le spetta di diritto. Che la realizzi, insomma, come donna agli occhi della società e, di conseguenza, ai suoi. Il suo comandamento è piacere aglɜ altrɜ per poter piacere a sé stessa. Un programma di intenti che le ha creato, però, Molto dolore per nulla. Fino a farne un monologo che ha vinto In-Box 2024.
Si presenta come un’artista. Lo annuncia prima di arrivare, e lo ripete una volta salita sul palco del Chiostro S. Francesco. È un’artista delle liste. Stasera ha deciso di ripercorrere, per noi, la lista dei suoi fidanzati. Ha in mano un microfono a filo lunghissimo, che tiene stretto come un amuleto. Lei è la sua storia, tutto quello che ha e le dà la voce è appeso a quel filo: il suo racconto-mondo, libertà e reclusione a un tempo.
Il passo è da confessione autobiografica allo specchio, mascherata da evento di stand-up comedy. Borini ha grande presa sul pubblico. Le cose che dice le abbiamo dette o sentite anche noi, abbiamo lasciato e siamo statɜ lasciatɜ con identiche frasi fatte. I suoi inciampi sentimentali sono ora delicati, ora comici, ora grotteschi, e riguardano uomini che si chiamano quasi tutti Michele. Perché sono lo stesso uomo, e lei è la stessa donna che commette gli stessi errori. In realtà, non è insieme a nessuno, è da sola, è sempre da sola. La sua dipendenza affettiva non è per una persona: è per l’amore.
Storia dopo storia, allora, la maschera si incrina e il microfono viene lasciato e ripreso, come un’immagine, un’idea di sé, a cui vuole ma non riesce a rinunciare. Cadono definitivamente entrambi con la relazione tossica con l’ultimo Michele. Tutto si rompe, va in frantumi, e Molto dolore per nulla conquista il silenzio del fallimento, un segno sul corpo lasciato da un altro, ma non è tuo il segno, e non è più tuo nemmeno il corpo.
Cambia il tono, il ritmo, la sincerità più radicale sfronda ogni ricordo, per cercare di capire come e perché è potuto succedere. Al punto che lo spettacolo scivola definitivamente in una seduta collettiva di auto-aiuto. Luisa Borini è scesa nel baratro ed è risalita, ma non è mai davvero tornata. Allora, più che il calco da Molto rumore per nulla di William Shakespeare, viene in mente Maša nel Gabbiano di Anton Čechov: «Porto il lutto per la mia vita». L’applauso finale è consolante: conferma che il pubblico è dalla sua parte, che condivide la decisione che ha preso. Ma la storia non è finita: è finita la sua esposizione. La prossima volta ricomincerà uguale daccapo. Quello che manca a Molto dolore per nulla non è il “vestito”, la forma personale: è il contenuto universale. L’elaborazione del lutto.
Anche Giulia Trippetta in Questa non è casa mia racconta una storia di formazione che è la sua. Da sola su una scena vuota, ancora nel Chiostro S. Francesco, propone un viaggio tragicomico dalla provincia alla città. Quindi da un mondo, per definizione, ripetitivo e asfittico, a un altro decisamente più aperto e dinamico. Ha una maschera bambinesca fin da subito molto pronunciata, quasi a voler contestare l’infantilizzazione della nostra società, nel senso di considerare come “infantile” la volontà di inseguire i propri sogni. O meglio, di autodeterminarsi attraverso i propri sogni. Certo, alcuni sono modelli o prodotti di mercato, ma questo all’inizio aiuta Trippetta a sferzare di riconoscibilità generazionale le sue paure e insicurezze.
Al suo fianco, la protagonista di questa storia ha una mentore, la “Luigia”, che altri non è che la proiezione del grande Fallimento. Sono imputata e giudice insieme. Un simile “duo comico” affronta lungo il cammino numerosi incontri con personaggi reali e caricature che, avventura dopo avventura, si dimostrano soprattutto figurine a due dimensioni. Allo stesso modo, temi esistenziali come la responsabilità, il disagio, la solitudine, si affastellano abbozzati l’uno sull’altro, senza essere mai approfonditi, come se bastasse un’unica linea a restituire la complessità di un paesaggio interiore.
Tra smorfie e sberleffi, dunque, siamo di fronte a una specie di fiera dell’ironia facile sulle “stranezze” e “diversità” della contemporaneità. A un certo punto Trippetta si spinge davvero nei territori della crisi, sua e di conseguenza di tuttɜ, ma è soltanto un modo per introdurre Questa non è casa mia nella cornice definitiva di un’altra seduta collettiva. L’aiuto che chiede è sentirsi dire che la colpa di tutto è del sistema. Quel sistema, però, che ha affermato fino alla fine. Sfruttandone ogni mezzo, per far ridere.
Lingua!
di e con Chiara Ameglio
collaborazione artistica Santi Crispo
musica Keeping Faka
produzione Fattoria Vittadini, Festival Danza In rete
Lago di Chiusi – Loc. Sbarchino | 30 luglio 2024
ANIME
ideazione, coreografia, regia, luci Patrizia Cavola – Ivan Truol
con Nicholas Baffoni, Alberto Bargnesi, Marco Cirignotta, Valeria Loprieno, Giada Manno, Camilla Perugini
cantante dal vivo Claudia Ciceroni
regia del suono Sergio De Vito
violino dal vivo Riccardo Lana
musiche originali dal vivo Epsilon Indi
costumi Milena Corasanti
produzione Compagnia Atacama 2023
con il contributo di MIC – Dipartimento Dello Spettacolo – Regione Lazio
in coproduzione con Paesaggi del Corpo Festival Internazionale Danza Contemporanea
Piazza Duomo, Chiusi | 31 Luglio 2024
MOLTO DOLORE PER NULLA
di e con Luisa Borini
disegno luci Matteo Gozzi
progetto sonoro Leo Merati
abito Clotilde Official
produzione Atto Due
sostegno di ZUT! C.U.R.A Centro Umbro Residenze Artistiche e Strabismi
Spettacolo vincitore In-Box 2024
Selezione Strabismi 2022
Chiostro S. Francesco | 30 luglio 2024
QUESTA NON È CASA MIA
di e con Giulia Trippetta
aiuto regia Francesca Blasutig
luci Simone Gentili
costumi Nika Campisi
musiche Andrea Cauduro
produzione Fattore k
Chiostro S. Francesco, Chiusi | 31 luglio 2024