ELENA ZETA GRIMALDI | Tutta l’arte è politica. Una frase a doppio taglio: se da una parte sembra romantica e smielata, di rovescio pare qualcosa da cui rifuggire. A soffermarvisi un poco, però, il concetto è molto meno ideale di quanto appaia: intanto, l’arte non fa politica, ma è politica; poi, all’origine, «politico» designava «ciò che appartiene alla dimensione della vita comune». Se, quindi, una politica è una visione di una comunità (del suo passato, del suo futuro), cosa più dell’arte esprime un particolare punto di vista, in maniera sia sostanziale che formale?
Non c’è bisogno di aderire a partiti o farne proclami, basta immergerla nella vita, nelle ferite che si aprono nei tessuti sociali. Con questo intento, la drammaturga siciliana Lina Prosa ha dato il via a un «presidio drammaturgico di vigilanza e di salvaguardia dell’Umano dinanzi a una emergenza che ne minaccia la memoria», ovvero contro il ponte sullo Stretto di Messina.
Con la complicità del Parco letterario Horcynus Orca e di abitanti e attivisti del territorio, a Capo Peloro, punta di Sicilia, a fine luglio si è svolta la “pagina zero” di questo progetto dal lungo respiro: sono state scelte quattro parole da un confronto collettivo – «esproprio», «verità», «testimone», «tecnica» – e altrettanti laboratori le faranno vivere, le scaveranno, trasformando l’esperienza locale in visione universale attraverso l’intervento poetico.

Di parole, presidi, umanità e poesia abbiamo parlato con Lina Prosa.

C’è una parola-madre che racchiude tutte le altre, «catastrofe». Perché l’hai scelta?

Questa parola evoca la struttura della tragedia greca, che ha un suo momento finale che è, appunto, la catastrofe. Sembra avere un significato negativo ma ha anche una valenza positiva: significa «rovesciamento», quindi rovesciare una situazione negativa, portarla ai minimi termini. Sta a noi trovare e costruire il rovescio di una realtà catastrofica.
È una parola-madre perché contiene tutte le altre, che devono alla fine naufragare in una sola parola capace di portarle tutte a una nuova situazione. Non significa la vittoria contro il progetto del ponte ma il ristabilimento di una condizione che non prevede più l’ansia, l’attesa, la paura, la perdita… L’esito dipenderà da noi, da chi farà il rito conclusivo del percorso: un percorso democratico che pone tutti come responsabili.

Perché un ‘presidio drammaturgico’ dello Stretto?

Penso che il teatro oggi debba farsi presidio: si è rintanato negli spazi chiusi ma dovrebbe stare là dove c’è un’urgenza umana che va raccontata, discussa. Il presidio drammaturgico è anche una denuncia nei confronti del teatro che si fa oggi: se il teatro è vita, se deve avere una posizione centrale nella società, se crediamo ancora a questo allora deve farsi presidio. Ne abbiamo di motivi, noi teatranti, per farci presidio… Non dico che dobbiamo caricarci di tutti i guasti del mondo, però stare allerta, sorvegliare, cercare di anticipare l’arrivo del nemico che uccide l’umanità, uccide la nostra essenza, uccide la nostra ragione di essere su questo pianeta, questo sì.

Come si può presidiare un luogo, una cosa fisica, con le parole?

La parola, oggi, si è svuotata di forza: forza di relazione con l’altro, forza di significare qualcosa che la comunità riconosce. Nell’epoca di social, globalizzazione, consumismo, credo che la parola e il corpo siano le vittime – da drammaturga, unisco sempre la parola al corpo, viaggiano insieme.
Il teatro può rimettere in lavorazione la parola e renderla poetica. Ripartire dalla parola poetica significa ridarle valore politico. E qui ritorno all’etimologia greca, «poiein», da cui deriva «poesia», che significa «fare», quindi agire, non immaginare cose astratte, sentimentali, come se fossero al di fuori di noi. E a cosa serve il teatro se non a cambiare ciò dinanzi a cui non ci riconosciamo più? Prese una per una, le parole potrebbero sembrare poca cosa, invece ognuna ha una storia che coincide con la storia dell’umanità. Lavorandoci, è come se ogni parola diventasse teatro, palcoscenico, e puoi viverla, la puoi modificare come più ti interessa. Dentro la parola ci può stare una comunità intera, un mondo intero. E allora presidiare significa anche dare alla parola l’opportunità di vivere insieme a chi vive nel territorio, a chi lotta e si oppone a qualcosa che non riconosce uguale alla propria natura.

Il primo passo ha avuto come centro «esproprio», che richiama processi che sembrano sfuggire al controllo di chi li subisce. Come si può riappropriarsi di un termine così tecnico?

«Esproprio» chiaramente evoca persone che stanno vivendo un momento molto difficile. Però se trasferiamo questa esperienza in un discorso drammaturgico, la stessa parola che ora sembra collocata in uno spazio preciso, intercetta un mondo che va oltre i confini dello Stretto, che va verso un’esperienza universale. È questo il passaggio importante, perché non possiamo piangere dietro le tragedie che ci tocca affrontare ma dobbiamo munirci degli strumenti per rovesciare l’esperienza negativa, cioè trasformarla. Poi, quello che attende il futuro è un altro discorso; ma l’esperienza che fai nel momento in cui decidi trasformare quello che stai vivendo in un’altra forma possibile, è già importante.

Il laboratorio colloca la parola su un piano che non è più il suo significato ma quasi la svuota, per significare altro da quello che era all’origine, fino a diventare pelle di un tempo che è comune a tutti, e che ognuno si può costruire e vivere individualmente. Nel nostro percorso è la singola parola che ci racconta il mondo che stiamo vedendo, osservando… È come lo scorrere di un fiume: la presenza, il racconto, il respiro di ognuno diventa un corpo unico. È un lavoro di composizione, soprattutto dell’anima e del corpo.

Il tuo desiderio è che i partecipanti ai laboratori non siano attori, ma persone del luogo o che sentono il richiamo di questa situazione. Che tipo di lavoro comporta questa scelta?

La differenza è notevole: quando lavori con non-attori (mi piace chiamarli così) quello che viene messo in campo è materia umana. Lavori direttamente con la materia originale, che non è stata attraversata da metodi, scuole, prospettive che attengono il mestiere.
A Palermo, al Centro Amazzone, faccio molte esperienze con gruppi misti, non-attori e attori professionisti e l’impianto del lavoro cambia: quando c’è questo materiale umano che si rende disponibile, anche l’attore diventa più disponibile a liberarsi da certe abitudini, da certe attese. Non sto facendo un discorso sul mestiere, parlo del processo umano di un percorso creativo. E spesso il gruppo misto fa bene al lavoro creativo.

Per quale motivo una drammaturga che lavora soprattutto all’estero decide di venire sullo Stretto e dire «Ci sono pure io»?

Ritengo che chi lavora con la parola abbia una responsabilità pubblica enorme, che non sempre viene riconosciuta. La prima grande avvisaglia l’ho avuta quando cominciarono gli sbarchi a Lampedusa (parlo della fine degli anni Novanta): mi toccò tantissimo questa tragedia che si ripeteva ogni giorno, tant’è che ho scritto la Trilogia del naufragio [Editoria&Spettacolo 2013, N.d.R.] come mio gesto di responsabilità civile. Li ho scritti per noi occidentali, per assumerci le nostre colpe dinanzi a un fenomeno terribile.
Per me la questione ponte è uguale e la affronto da siciliana e da drammaturga, non ho abbandonato la mia lotta attraverso la parola. Ti ribalto la risposta: io trovo strano che artisti, letterati, scrittori siciliani non siano là, in quel luogo, a sostenere la comunità e a esprimere la propria solidarietà nei confronti di questa tragedia che è il progetto del ponte. Siamo abituati, attraverso i social, a mettere un like credendo così di aver espresso la tua posizione, di aver fatto il tuo dovere. No.

Molto interessante: il social, attraverso le parole, ti dà l’impressione di un’azione ma in realtà la nega, mentre un lavoro drammaturgico fa esattamente l’opposto: utilizza la parola per lanciarsi verso l’azione.

Nella parola è connaturata l’azione, perché la parola non descrive nulla, la parola è memoria, contiene secoli e secoli di storia dell’umanità. Ne pronunci una semplice, «tavolo», no? Pensaci un attimo: quanta esperienza umana ha vissuto? Quante storie, quanta vita sopra un «tavolo»? Siamo talmente abituati a vederlo che ci sembra un oggetto di arredo, invece si porta dietro un’esperienza umana. Poi se prendiamo altre parole più dense, ti portano… è come la risacca, no? Ti porta la natura dal fondo del mare e la parola ti porta qualcosa che è accaduto, e puoi dire quella cosa lì. Poi, il lavoro sulla parola è sempre affascinante, perché la parola può comportare il ritmo, ma può essere anche, per esempio, geografia… dipende come ognuno di noi abborda la parola, cioè la memoria. Avere, oggi, la possibilità di dire ciò che è accaduto ieri, avantieri, mesi, anni, secoli fa… è questo il valore che dobbiamo dare alla parola, non di un lusso né di qualcosa atto alla strumentalizzazione.

[*La foto di copertina è di Fabio Crisafulli; per quelle dell’articolo ringraziamo Lina Prosa]