EDGARDO BELLINI | La proposta culturale del Festival dei Tacchi non è circoscritta al cartellone degli spettacoli. Sostenuto da Comune di Jerzu, Comune di Ulassai, cantina Antichi Poderi, Fondazione di Sardegna, Regione autonoma della Sardegna e Ministero della Cultura, il Festival ha anche una marcata tradizione territoriale, sociale e formativa, declinata in una serie d’iniziative sul territorio che coinvolgono attivamente i cittadini.
Al culmine di un laboratorio durato per tutto l’anno scolastico i bambini della scuola primaria di Ulàssai hanno rappresentato Tra due popoli, fiaba pedagogica in cui l’incontro delle differenze crea ponti di conoscenza e di condivisione. Sotto la guida di Fabrizio Saccomanno la compagnia dei Cuori di panna smontata, con gli allievi della scuola di arti sceniche La vetreria, ha lavorato invece sullo stupore e sulla sensibilità mettendo in scena un lavoro di genuina introspezione. Michele Losi di Campsirago Residenza ha coinvolto gli spettatori-viaggiatori in una performance itinerante fra le strade di Ulassai ispirata al saggio La storia del camminare di Rebecca Solnit. Infine il progetto di formazione La scena sui Tacchi mira a coinvolgere adulti e ragazzi di Jerzu in un percorso di un avvicinamento al teatro che si concluderà a dicembre con una messa in scena collettiva.
Ci sono poi i lavori “domestici” di Cada Die Teatro, realizzati all’interno della compagnia. Intanto un nuovo episodio delle avventure di Gufo Rosmarino, protagonista di una serie di racconti per bambini a tema ambientale e stile fiabesco; questa volta l’incontro casuale del protagonista con un pipistrello provoca nella comitiva degli uccelli l’istinto della paura e della diffidenza, che si sciolgono man mano che accresce la conoscenza reciproca, fino a riconoscere il valore sociale della differenza. Nella biblioteca comunale di Jerzu è andato in scena Benvenuti in, opera per metà di rappresentazione e per metà di narrazione sul tema del disagio psichiatrico e sulla complicata realtà dei luoghi di cura, tratta dal racconto autobiografico «Benvenuti in psichiatria» di Giovanni Casula; efficace l’interpretazione di Alessandro Mascia, che tiene con sicurezza la scena, e Giorgio Del Rio, che esegue un delicato controcanto senza parole.
Popolare per le inchieste televisive e famoso per la sensibilità verso le persone più fragili Domenico Iannacone traduce il suo sguardo dalla telecamera alla scena teatrale con l’insolito lavoro Che ci faccio io qui, in scena, riprendendo con ironia il titolo di una sua trasmissione. I frammenti di reportage diventano ora le tessere di un più ardito disegno della memoria, dove anche l’intimità del giornalista – ovviamente invisibile nel formato televisivo – diventa elemento del discorso scenico. Un’operazione di generosa lealtà verso lo spettatore, che il tempo e le repliche contribuiranno senz’altro ad assestare.
Torna sul palco Arianna Scommegna, ancora in duo con la brillante fisarmonicista Giulia Bertasi, per interpretare Un albero di trenta piani, collage di storie dal ritmo e dal colore cangianti sul tema del rapporto fra natura e città. Se il titolo riprende una vecchia canzone di Celentano, i testi spaziano da Calvino a Neruda; e grazie alla bravura del duo, che si espande anche sul piano musicale e canoro, il lavoro raggiunge la dimensione di un vivace e godibile cabaret a tinte ambientaliste, senza mai farsi schiacciare dalla retorica dell’impegno.
Ascanio Celestini ha il raro dono di trasformare i fatti in storie; fatti immaginari per lo più, trasposti in una lingua incisiva dalle forme esatte. Così è per Le nozze di Antigone, dove l’eroina sofoclea della libertà di coscienza perde la dimensione mitica e distante per diventare donna del presente e figlia che accudisce il padre; e in questa nuova veste il personaggio accende nuovi e più pressanti interrogativi. Sonorità e ritmo della narrazione sono ben punteggiati dall’intensa fisarmonica di Gianluca Casadei. La novelletta fa poi da preludio ad altre storie brevi e brevissime, che un sapiente gusto geometrico della scrittura trasforma in constatazioni apodittiche, in uno stile che ricorda per certi aspetti i celebri aforismi di La Rochefoucauld; così gli spunti satirici, di per sé acuti, sulle bruttezze del nostro tempo – la scuola, i modelli culturali dominanti – conquistano la massima efficacia testuale, coronata da un’esecuzione serrata e lucida.
Al debutto come attore Fabio Trimigno, violinista pugliese, porta in scena una vicenda personale trasformandola in una piccola storia esemplare: Mio padre e io. A un’adolescenza scandita dalla musica segue l’amore coniugale per un uomo in età adulta; un fattore che spinge il figlio verso il padre, un altro che lo allontana in modo irrevocabile. In una narrazione senza sconti – neppure a sé stesso e al proprio privato – Trimigno elabora la memoria con grazia e persino umorismo, restituendo con l’arguzia e col sorriso la parabola di un dolore.
Spettacolo meritatamente longevo, l’Apocalisse tascabile di Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri dal 2020 ha all’attivo parecchi premi e un bel numero di repliche. Su uno schema narrativo tutto sommato semplice – il padreterno irrompe in un supermercato per annunciare la fine del mondo – i due talentuosi attori romani inscenano un crescendo furioso di situazioni comiche dietro alle quali s’intravedono abissi drammatici: la fragilità esistenziale dei giovani, il precariato lavorativo, l’opacità del futuro, la standardizzazione delle vite, lo spegnimento dei desideri. Rispetto agli esordi il ritmo dello spettacolo è cresciuto a livelli quasi virtuosistici, consentendo agli attori anche una sfrontata interazione col pubblico, che perciò non può sottrarsi alla sua quota di apocalisse.
Sul testo di Marco Paolini Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute l’attore e regista Renato Sarti mette in scena con Barbara Apuzzo il racconto, poco conosciuto nei modi e nei numeri, dello sterminio delle persone disabili operato dal regime nazista: trecentomila tedeschi sacrificati all’idea di purificare la razza dagli “errori”. «Tu capisci che anche io…» dice a un certo punto l’attrice, che ha un handicap fisico, al suo interlocutore; e in quel punto agli occhi dello spettatore si azzera la distanza fra il tempo della scena e quello della narrazione, e il fatto storico diventa metafora di tutte le opportunità di vita negate dall’indifferenza e dall’ipocrisia del nostro tempo.
Disinvolta e spudorata, diretta come una stand up comedian, Beatrice Schiros si esibisce nel monologo Metaforicamente Schiros, dichiarando il testo come autobiografico. Con la libertà sfrenata di una psicoterapia l’attrice si espone con inusuale franchezza – di memorie e di linguaggio – che restituisce l’immagine di una donna risoluta e risolta, fino al punto di concedere in pasto al voyeurismo del pubblico la propria intimità con una schiettezza inaspettata. La costruzione efficace del personaggio serve però ad innalzare la temperatura scenica in vista del potente ribaltamento finale, che porta alle lacrime più d’uno spettatore.
Il Festival si conclude con la comicità insolente di Giobbe Covatta, interprete di Scoop (donna sapiens). L’attore napoletano incede col suo stile paradossale per ricavare argomenti a riprova della presunta superiorità della donna sull’uomo. Ma naturalmente ogni affermazione al riguardo è precariamente sorretta da un tono sornione, dall’irruzione di nuovi ribaltamenti, da un possibile rilancio. L’intenzione ultima è evidentemente quella di demolire con una risata tutta l’impalcatura di luoghi comuni sulle presunte peculiarità dei due sessi, stratificate attraverso una storia sociale ineluttabilmente sessista e carica di pregiudizi.
CREDITI
Rimandiamo al link del programma 2024 dove consultare per ciascuno spettacolo le informazioni rilevanti