RENZO FRANCABANDERA | Sì. Sono parte in causa. E quindi in quella delicatissima posizione di chi vuole raccontare ma trovandosi un po’ anche dentro. Quindi proverò ad essere cauto ma anche onesto, per andare assolto dalla divinità-faro a cui dedico le cose della vita: la dea Arte.
L’edizione 2024 del Festival Be Popular, organizzato da Stivalaccio Teatro a Vicenza per la sesta volta, fra gli eventi in programma ne ha, infatti, anche uno che mi riguarda direttamente. Quindi, fatto questo disclaimer di potenziale conflitto di interessi, cerco di prendere comunque la mia posizione di critico del fatto scenico, lasciando poi a ciascun lettore e a ciascun futuro e sempre auspicabile spettatore, di valutare in autonomia la portata e lo specifico delle riflessioni che seguono.

Analizziamo qui due degli eventi del festival, andati in scena entrambi venerdì 23 agosto a Vicenza: si tratta delle nuove produzioni di Stivalaccio, una La Mandragola, per la regia di Michele Mori, affidata nell’interpretazione alla compagnia giovani, l’altra, Strighe Maledette!, diretta da Marco Zoppello, vede invece in scena una compagine già esperta e tutta al femminile, per un ideale secondo capitolo del dittico di cui era primo elemento Buffoni all’Inferno.
Parliamo di dittico perché è la compagnia stessa a porre i due spettacoli in relazione, e lo fa in un libro uscito in questi giorni, intitolato Di buffoni e di strighe, in cui viene spiegata la ricca e approfondita genesi di queste due drammaturgie, che affondano la loro ragion d’essere in una stratificata ricerca documentale e bibliografica.

Con una prassi di ricerca ormai consolidata, Zoppello avvia un percorso di indagine che mette insieme diverse fonti letterarie, affondando non di rado in testi rarissimi, antichi fabliaux in versi e di tono comico/osceno, da cui vengono estrapolate vicende e frammenti che diventano la base per la stesura di un testo e che contribuiscono in maniera determinante a definire il ritmo e l’andamento della scrittura portata poi definitivamente in scena.

Il caso non riguarda evidentemente il primo dei due spettacoli, la cui idea si deve integralmente a Niccolò Machiavelli, il grande pensatore e scrittore italiano, maggiormente noto per l’analisi acuta delle questioni legate alla società e al potere. E se il suo testo più famoso, Il principe, spiega ai potenti come non farsi fregare e mantenere il potere, quasi come lato B dello stesso disco, lo scrittore scrisse La Mandragola, un testo in cui si racconta in modo comico come fregare i potenti: una commedia davvero bizzarra e che al suo tempo ebbe un successo clamoroso.

Ph Giuliana Scattini

La vicenda è arci nota: il maturo Messer Nicia Calfucci (Elia Zanella) – che qui in ossequio alla ricerca sempre viva da parte di Stivalaccio sulle maschere della commedia dell’arte prende le sembianze di Pantalone – fatica ad avere della sua giovanissima moglie un figlio; ci provano e ci riprovano ma la fortuna non pare arridere alla coppia.
Nel frattempo, come vicenda parallela a quella principale, si sviluppa la storia del classico servo della commedia dell’arte, affamato, intrallazzone e furbo, che finisce per spalleggiare l’aitante giovane scapigliato di turno, dal nome sempre un po’ classicheggiante, Callimaco (Francesco Lunardi), per arrivare a conquistare la donna dei sogni. Si tratta della moglie di Nicia, Lucrezia, melliflua ma ossequiosa delle regole (Elisabetta Raimondi Lucchetti), sempre affiancata dalla damigella Fiammetta (Daniela Piccolo), a sua volta moglie del servo intrallazzone di cui sopra, Ligurio (Pierdomenico Simone).
La moglie di Nicia, prima di regalare al marito il glorioso palco di corna, si fa interprete delle resistenze date dai morigerati costumi, cosa che un po’ come per Madame de Tourvel in Le relazioni pericolose, rende ancora più piacevole la conquista di Valmont.
Qui il finale non è amaro, se non per il povero Nicia che si trova raggirato.

Dal punto di vista drammaturgico vengono meno i personaggi di Fra’ Timoteo e Sostrata, sostituiti in modo brillante in un acconciamento narrativo che strizza l’occhio allo sguardo contemporaneo e giovane, ma senza mai banalizzare, anzi.
Di altissima qualità, per la elegante palette cromatica e l’intreccio dei segni con le personalità dei personaggi, sono i costumi di Licia Lucchese. Mai abbastanza si educheranno gli spettatori a osservare il lavoro degli artisti come la Lucchese, che contribuiscono a fare la scena, e la cui intelligenza non trova spesso adeguato riconoscimento per l’impegno, la ricerca, i tocchi di genio con cui questi mestieri contribuiscono a quanto avviene sul palcoscenico.

La Mandragola rientra all’interno di un progetto di rinnovamento generazionale della compagnia, che lascia spazio a nuovi interpreti, guidati qui dal capocomico Pierdomenico Simone e dal coordinamento registico e drammaturgico affidato a Michele Mori, uno degli attori storici della compagnia.
Ne risulta una pièce onestamente brillante e che, pur nella giovinezza degli interpreti, non teme la prova di palcoscenici impegnativi, perché ben diretto e interpretato. Qui a Vicenza, per il festival, il cortile di Palazzo Da Schio è sold out ma siamo certi che il successo arriderebbe dovunque il lavoro andasse in scena, perché nella sua essenzialità di allestimento, non rinuncia a precisione, acume, ritmo.

Acute, oltre alla regia di Mori, la semplice ma elegante scenografia di Alvise Romanzini, le maschere sempre belle del maestro Stefano Perocco di Meduna in collaborazione con Tullia Dalle Carbonare e le luci di Matteo Pozzobon, specializzato ormai nella resa di quelle atmosfere cangianti ma con punti di emotività specifica che la commedia dell’arte richiede; come anche quel minimo di coreografie acrobatiche affidate alla cura di Giulia Staccioli. Le musiche sono originali, eseguite dal vivo e puntellano qui e lì i momenti più intensi dello spettacolo che, ripetiamo, vale veramente.

Ph Giuliana Scattini

La serata è stata l’occasione per proporre, a seguire, nel bellissimo cortile di un Palazzo Thiene finalmente restituito dall’amministrazione alla città, Strighe Maledette!, la nuova fatica di Zoppello riservata a un gruppo di interpreti tutto al femminile e che prende spunto dalle vicende occorse nel 1518 a Edolo, in Valle Camonica.
Che successe in questa terra talmente remota da essere scelta (per vicinanza al lago e difficoltà di essere raggiunta) dai nostri progenitori sapiens per fondare da queste parti i loro primi insediamenti? In quegli anni una tremenda siccità, unita a un morbo pestilenziale, fece strage di raccolti, animali e persone, gettando il paese nel caos più totale. I contadini ignoranti, per ingraziarsi la divinità e scusarsi di eventuali peccati, si gettarono a caccia di poveri disperati da far passare per strighe. Per chi fosse totalmente ignaro, occorre dire che la caccia alle streghe della Valcamonica fu una delle più grandi e intense serie di processi alle streghe in Italia, facilitata proprio dalla geografia remota, dalla comunità molto chiusa e con tanti casi di handicap fisico dovuti a unioni fra consanguinei, cose che non mancarono di destare sospetto fra gli inquisitori.
Tra giugno e luglio del 1518 vennero arse tra le 62 e le 80 streghe (tra cui 20 uomini), giusto per dare due numeri che già solo a leggerli oggi impressionano veramente!

Quale operazione drammaturgica viene compiuta? Per certi versi ci troviamo di fronte a una costruzione stile Decamerone oppure Racconti di Canterbury, a tratti boccaccesca, a tratti pasoliniana, perché cerca di mettere assieme questioni storico sociali, tematiche legate all’immagine della donna nel suo ruolo che appare chiaramente oggi subalterno nelle religioni monoteistiche.
La costruzione finale fa gemmare una serie di piccole storie intorno a personaggi femminili molto diversi e provenienti da geografie distanti, pensati proprio per giocare anche un po’ con i dialetti e i tipi regionali, cosa che a Stivalaccio riesce sempre molto molto bene. Le vicende portate in scena sono estrapolate da libri di racconti alto-medievali: i personaggi sono l’herbaria donna Laura da Urbino, Maddalena Bradamonte detta la Nasina, la nobildonna Aurora de Rubeis e Orsolina Toni, la Rossa.
Sono figure inventate ma emblematiche dei tipi letterari che saltano fuori dai testi che intensamente giravano all’epoca e che furono alla base di raccolte come quelle che abbiamo già menzionato, diventati i classici della letteratura dei successivi 500 anni.

Il tono generale, pur drammatico nella vicenda di fondo, si sviluppa poi come una gran commedia: afferra il pubblico all’inizio e lo porta a destinazione dopo un’ora e venti, fra risate, arguzia e divertimento.
Nel plot principale le donne ritenute colpevoli dei delitti stregoneschi e inseguite dal popolo inferocito, trovano rifugio nel palazzo del borgomastro, non senza aver, a inizio spettacolo, ingaggiato il pubblico in una divertente gag con cui gli spettatori vengono portati a bordo dell’allestimento e da quel momento in poi resi in un certo senso compartecipi: consesso sociale, a lungo presente e muto, quindi con un ruolo specifico di fruizione rafforzata perché partecipante.

Nel cortile del palazzo vicentino l’allestimento non ha fondale ma tutta la scenografia di Andrea Belli si basa sulla grande struttura centrale che rievoca, con elementi di natura lignea, la salita al patibolo, come pure le mazze da scopa delle streghe che, debitamente illuminate, saranno poi evocativamente e in modo visivamente interessante, le fiamme che si levano per ardere i corpi delle “colpevoli”. In realtà, senza voler spoilerare, lo spettacolo non si concentra su questa parte più truculenta e drammatica, evitando di portare in scena il tragico finale, ma viaggia su quello che gli sta attorno, lasciando che sia la scenografia a ricordare a tutti il tragico destino occorso a tante, ritenute incredibilmente colpevoli, a conti fatti, di niente se non magari di conoscere le erbe mediche con cui fare i decotti e curare i concittadini, o anche solo di essere affette da qualche disturbo psichico di cui all’epoca nulla si sapeva.
Lo spettacolo quindi evolve di storia in storia. I singoli episodi sono vicende gustosissime, ispirate a leggende varie come il mito di Lilith, storie di donne dei poteri magici, e così via. Le luci, anche in questo caso disegnate da Matteo Pozzobon, definiscono le temperature emotive delle scene, regalando in pochi istanti un pathos che avvolge lo spazio scenico. Accurati e ora drammatici, ora ironici, sono i costumi di Lauretta Salvagnin.

Le quattro donne (interpretate dalle ottime Sara Allevi, Anna De Franceschi, Eleonora Marchiori e Maria Luisa Zaltron), una guaritrice, una prostituta, una nobildonna e una contadina, aggrovigliano i propri vissuti nelle sottotrame che confluiscono nella trama principale, la quale a sua volta tiene unite le singole vicende e funge da cemento narrativo. Questo elemento andrà a trovare sicuramente ulteriore compattezza e snellezza con l’andare delle repliche ma, pur mantenendosi dentro un andamento regolare e usuale di storie dentro la storia, lo spettacolo diverte il pubblico in maniera intensa e partecipe. Allo spettatore vengono offerte riflessioni socio politiche anche molto attuali, senza che questo risulti smaccato o ridondante, anzi la cosa avviene in maniera finanche coraggiosa sotto molti punti di vista.

Lo spettacolo si inserisce in modo specifico all’interno dell’offerta di Stivalaccio. Sicuramente diverso rispetto agli allestimenti che riportavano in scena drammaturgie del 1600/700, qui regia e attori giocano continuamente con gli elementi del teatro popolare mettendo in piedi una recita a ben considerare faticosissima, sia dal punto di vista dello sforzo fisico che del ritmo, nel tentativo di restare alti artisticamente e vivi nel dialogo con il pubblico.
Un’offerta di questo genere, così peculiare sui codici del teatro popolare, e di qualità, in questo momento in Italia – per quanto mi costa – è appannaggio quasi unico di questo gruppo di lavoro. La possibilità che spettacoli del genere arricchiscano i cartelloni delle stagioni, dando respiro, con una teatralità curata e studiata, alla spesso triste sfilza di monologhi e divi TV cartonati, ci pare un’alternativa assai interessante.

 

LA MANDRAGOLA

regia e canovaccio Michele Mori
con Elia Zanella, Elisabetta Raimondi Lucchetti, Francesco Lunardi, Pierdomenico Simone, Daniela Piccolo
assistente alla regia Benedetta Carrara
scenografia e attrezzeria Alvise Romanzini
maschere Stefano Perocco di Meduna e Tullia Dalle Carbonare
costumi Licia Lucchese
luci Matteo Pozzobon
coreografie acrobatiche Giulia Staccioli
arrangiamenti musicali Pierdomenico Simone
produzione Stivalaccio Teatro


STRIGHE MALEDETTE!

con Sara Allevi, Anna De Franceschi, Eleonora Marchiori, Maria Luisa Zaltron
soggetto originale e regia Marco Zoppello
scenografia Andrea Belli
costumi Lauretta Salvagnin
maschere e carabattole Stefano Perocco di Meduna e Tullia Dalle Carbonare
disegno luci Matteo Pozzobon
assistente alla regia Francesca Boldrin