GIANNA VALENTI | Dalla metà degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, la scena nordeuropea di area fiamminga, inglese e scandinava, vede la nascita di compagnie e collettivi che magnetizzano artisti, nuovi desideri e processi di lavoro che sono sperimentali e multimediali, che scelgono la danza, ma non vogliono rinunciare all’uso della voce e della parola, che scelgono il teatro, anche nella semplicità di un’azione quotidiana non formalizzata e, contemporaneamente, la danza, le sue modalità di generazione e costruzione del movimento e il suo valore coreografico nella composizione dei materiali. Molto lavoro, fuori e dentro la scena, prende forma verso la metà degli anni Novanta — è del 1996, per esempio, la nascita di «Performance Research», pubblicazione cult dei nuovi processi performativi, mentre sulla scena fiamminga del 1995 arrivano La Tristeza Complice dei Ballets C de la B, Snakesong/Le Pouvoir, seconda parte del lavoro iconico in tre parti della Needcompany, e Enter Achilles dei DV8 Physical Theatre che da Vienna debutta sulla scena europea e britannica.
La Tristeza Complice, materiale con alcune registrazioni di scena e parti di intervista in italiano ad Alain Platel.*
Enter Achilles, DV8, breve video dalla versione filmica del 1996 con la compagnia originale. Qui il film completo.

Lloyd Newson (DV8). Ballet Rambert & Sadler’s Wells, restaging of Enter Achilles, 2020. PH Hugo Glendinning

Alain Platel, Jan Lawyers e Lloyd Newson avevano dato vita ai loro gruppi di lavoro un decennio prima — Platel con il collettivo Les Ballets C de la B nel 1984 a Gent, proprio mentre a Sheffield Tim Etchells fondava la compagnia teatrale sperimentale Forced Entertainment; due anni dopo, Lawyers fondava la Needcompany a Bruxelles e a Londra Newson il gruppo dei DV8. Nello stesso anno si formava il collettivo sperimentale norvegese BAK Truppen e Jan Fabre ad Aversa fondava Troubleyn/Jan Fabre.
La scena dei corpi si afferma già nel 1984 con The Power of Theatrical Madness di Fabre alla Biennale di Venezia, nello stesso anno Platel debutta con Stabat Mater che alla scena fiamminga parla di una modalità di creazione unica e di una grandezza che già è e che segnerà il mondo della danza a cavallo tra i due secoli. Nel 1987, Fabre è a Romaeuropa con Das Glas im Kopf wird vom Glas e con le sue The Dance Sections che lo affermano come coreografo oltre che regista e artista visivo.
Jan Fabre, breve video da Das Glas Im Kopf wird vom Glas (The Dance Sections) 1987 

Jan Fabre, Das Glas im Kopf wird vom Glas (The Dance Sections). World Premiere DOCUMENTA, 1987. PH Philip Gils

I due primi lavori iconici dei DV8, My Body, Your Body e Dead Dreams of Monochrome Men sono del 1987 e 1988 e raccontano di corpi, relazioni, sguardi, gesti e situazioni con una fisicità e con azioni di contatto che trasformano la Contact Improvisation da tecnica post-moderna di ascolto e di collaborazione, in tecnica che si declina in azioni di relazione propriamente teatrali e sinteticamente narrative. I corpi dei DV8 parlano di danza, si immettono in azioni coreografate, usano abilmente tecniche recitative filmiche e agiscono consapevolmente le tecniche relazionali delle azioni fisiche, con scelte coreografiche che indagano modalità narrative cinematografiche.
Dead Dreams of Monochrome Men, DV8. video della seconda parte.

Negli stessi anni, da Francoforte, William Forsythe porta avanti la sua sperimentazione formale che dall’interno del balletto classico fa esplodere il Novecento, rivisitando ed espandendo con modalità multidirezionali la tridimensionalità del modernismo della tecnica di Rudolf von Laban, inglobando, sovrapponendo e mischiando le diverse lezioni del postmodernismo americano, per creare una molteplicità di variabili sintattiche del movimento danzato, con un’adesione alla sperimentazione multimediale sino a incarnare il teatrale, la voce, la parola, il testo. Di questi anni sono: In the Middle, somewhat elevated, 1987, Impressing the Czar, 1988 e Enemy in the Figure, 1989.
A Wuppertal, intanto, Pina Bausch continua a dare alle scene un lavoro quasi ogni anno, così come fa ininterrottamente dalla fine degli anni Settanta, e in questi stessi anni sono Viktor e Ahnen, affermando, con il suo Tanztheater, una fisicità teatrale che non sa rinunciare alla formalizzazione dei tempi e alla precisione qualitativa e spaziale della coreografia, componendo una danza che sceglie la narrazione personale, il quotidiano delle relazioni e il teatro delle emozioni per farsi segno teatrale che solo un corpo che si è formato alla danza sa agire.
Impressing the Czar, William Forsythe, 1987. Scena Bongo Bongo, ricreazione per il Semperoper Ballett.
Viktor, Pina Bausch, Wuppertal Tanztheater, 1986. Restaging. Sadler’s Wells, 2018.

Les ballets C de la B, Iets Op Bach, 1998

Per i nuovi gruppi e collettivi che arrivano sulla scena nordeuropea e fiamminga a metà degli anni Ottanta, si tratta di attivare nuovi processi di creazione, di lavorare sull’unicità e con l’unicità di ogni corpo che aderisce di volta in volta a un progetto di lavoro, di elaborare modalità drammaturgiche e compiti coreografici o registici che danno valore a un’orizzontalità delle relazioni e a una circolarità nella condivisione delle conoscenze. Un desiderio e un impegno che maturano e si affermano nella sperimentazione  degli anni Novanta, con la nuova danza che ingloba il teatrale e un teatro sperimentale e multimediale che sceglie la fisicità dei corpi e il linguaggio della danza per affiancare o sostituire la parola. Che si tratti di danza o di teatro, in base al modo in cui la compagnia o il collettivo si autodefinisce, o in base alla formazione principale dei suoi performer, c’è un’impossibilità drammaturgica a scindere ciò che è riconoscibile come teatro da ciò che si riconosce come danza. 

Iets Op Bach, Alain Platel, 1998. Leș Ballets C de la B, video di 20’.

La sperimentazione di nuove modalità di lavoro nelle sale prove del teatro e della danza, la ricerca di modalità di lavoro non gerarchiche, la molteplicità delle provenienze, delle conoscenze e delle storie personali dei danzatori, attori, artisti visivi, cantanti o altro, così come la molteplicità e l’imprevedibilità delle fonti multimediali che entrano nel lavoro come materiali drammaturgici, oltre la presenza fisica dei corpi, fanno sì che la gestione del processo di lavoro possa aver bisogno di sguardi, cure, attenzioni. È per questo che la nuova danza, il nuovo teatro, il teatrodanza, la performance europea di questo periodo sono manifestazione di un nuovo modo di agire la drammaturgia, sia che si scelga la figura di un dramaturg per seguire la nascita e la crescita del lavoro, sia che ci si dedichi consapevolmente a processi di drammaturgia condivisa, come nella kitchen dramaturgy del collettivo BAK Truppen. 

Il rapporto tra le nuove performatività e la nuova drammaturgia, come modello di drammaturgia aperta non lineare, è inscindibile, come inscindibile è il rapporto tra la danza, il teatro e i diversi media coinvolti. Nel 1994, l’anno prima del debutto di Snakesong/Le Pouvoir, di La Tristeza Complice e di Enter Achilles, la madre e il padre della nuova drammaturgia, Marianne Van Kerkhoven e Hans-Thies Lehmann raccolgono, alla Amsterdam University, un gruppo di artisti, registi, ricercatori europei e docenti — impegnati ad attivare nuovi percorsi di formazione ad alta performatività all’interno di centri di formazione più tradizionali — per lavorare su New Dimensions of Theatre – New Dimensions of Theory, con un impegno a mantenere la centralità del corpo performativo e la fiducia nei processi aperti, sia nei tempi del lavoro teorico, che negli spazi delle pratiche, mentre solo pochi mesi prima era uscito il numero storico di «Theaterschrift», On Dramaturgy, che condivideva lo scritto più citato della nuova drammaturgia, Looking without pencil in the hand di Van Kerkhoven.**

Sui corpi della danza a fine Novecento, sul loro coinvolgimento nei processi della nuova drammaturgia e sui valori richiesti dai nuovi processi collaborativi, potete ritornare a Scatti Coreografici #2: Il corpo/persona — la coreografia dialoga con l’unicità di ogni storia e affronta la dimensione della vulnerabilità

Sui processi coreografici collaborativi che si sviluppano nello stesso periodo nelle sale prove della danza, potete rileggere Scatti Coreografici 1: Corpo del danzatore e corpo del coreografo — metodi coreografici collaborativi e autorialità condivisa

Les ballets C de la B, Wolf, 2003.

Gli artisti e i gruppi di lavoro citati hanno portato la coreografia performativa nordeuropea e il suo modello drammaturgico oltre i confini del XX secolo. Non tutti sono ancora attivi: nel 2022 Lloyd Newson ha chiuso i DV8 e Les Ballets C de la B sono confluiti in una nuova formazione, laGeste; i processi non gerarchici e collettivi delle BAK Truppen sono terminati nel 2011 e Bausch ci ha lasciati nel 2009. Platel e Lauwers, con il loro impegno creativo negli anni Novanta, hanno attivato l’identità coreografica di artisti come Gabriela Carrizo, Franck Chartier, Sidi Larbi Cherkaoui e Koen Augustijnen, che hanno vissuto nelle loro sale prove e hanno abitato i loro processi drammaturgici e le loro scene — Snakesong/Trilogy e Images of Affection (Needcompany) Portrait Intérieur, La Tristeza Complice, Iets Op Bach, Wolf (Ballets C de la B). Chartier e Carrizo hanno attraversato con i loro corpi il lavoro di entrambe le compagnie e con Peeping Tom, “Belgian dance theatre company” come dal sito ufficiale della compagnia, transitano la coreografia performativa nordeuropea di fine ventesimo secolo nel nostro secolo, e da Bruxelles si impongono sulla scena europea con i loro primi tre lavori dal 2002 al 2007, Le Jardin, Le Salon, le Sous Sol.
Wolf, 2003, Les B C de la B, scena “Smanie Implacabili”
Le Jardin, 2002, Peeping Tom. Trailer, ripresa e registrazione del 2008
Le Salon, 2004, Peeping Tom. montaggio di circa 10’

Mentre scrivo, scelgo il termine coreografia performativa perché mi permette di preservare la centralità coreografica di un’esperienza storica della scena e mi permette di uscire dal dualismo teatro e danza, che sento molto novecentesco e che mi ha messa sempre a disagio persino in riferimento al teatrodanza tedesco.
Heidi Gilpin, che come dramaturg aveva lavorato per Forsythe nella seconda parte degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta, con un impatto che ha segnato il legame tra le pratiche di movimento, la costruzione coreografica e l’uso di fonti teoriche, ha affermato che per quel momento della storia della scena teatrale europea bisognerebbe parlare di drammaturgia del movimento e non della danza o del teatro, proprio per l’impossibilità, insita in quel modello, a scindere l’apporto dei diversi media.
Ma poi, inevitabilmente, si distingue e lo si fa per formazione, per provenienza, per necessità di appartenenza o per logiche sia produttive che distributive. Il termine teatrodanza lo scelgono anche i Peeping Tom e Newson, dopo aver scelto il termine physical theatre per i DV8, si lamentava che venisse semplicemente usato per indicare qualsiasi forma di teatro fisico non testuale. Ogni definizione sfugge, come nel testo di Lehmann Teatro postdrammatico, che sceglie un termine pesantemente novecentesco per un’esperienza scenica che non si riesce a delimitare e che può essere compresa solo seguendo un modello di fluida molteplicità radicato nei corpi e nelle pratiche relazionali (il testo esce per la prima volta in tedesco nel 1999, la prima edizione inglese è del 2006 e in italiano diventa disponibile solo nel 2017). 

Come ci dice l’ultimo lavoro visto dei Peeping Tom con regia di Chartier, S 62° 58′, W 60° 39′, le drammaturgia aperte sono un modello relazionale, con ogni individuo coinvolto, con una propria storia performativa e personale, come modello relazionale all’interno di un tessuto di relazioni più ampio, organizzato come un network apparentemente caotico e fluido di direzioni e istanti di senso. In questo lavoro di Chartier, in cui la danza scompare, rimane il modello stesso della creazione e la discussione, ripresa e interrotta costantemente, di quel modello. Una grande lezione in scena di un processo drammaturgico non lineare, in un momento storico in cui l’open dramaturgy rimane solo una delle possibilità disponibili, ma pur sempre — desidero aggiungere — con un altissimo valore umano che riesce a crescere nei lunghi tempi del lavoro e a manifestarsi nelle autonomie creative che si creano.

 

* Il video non riporta informazioni, ma potrebbe essere sulla scena milanese al Teatro dell’Arte – La Triennale. Lo presumo perché nello stesso teatro ho visto Iets Op Bach nel 1999 e Alemaal Indiaan nel 2000 (dico questo a memoria, ma le date potrebbero slittare al massimo di un anno). Riconosco come voce in dialogo con Platel la critica di danza Elisa Guzzo Vaccarino che ha confermato che l’intervista è stata fatta a Milano. Se leggendomi avete altre informazioni, raggiungete PAC e le aggiornerò.
** Theaterschrift 5 & 6. On Dramaturgy. Marianne Van Kerkhoven ed.  Published by Brussels, Kaaitheater; Berlin, Hebbel-Theater; Frankfurt am Main,Theater am Turm; Amsterdam, Felix Meritis;  Vienna, Wiener Festwochen, 1994.