RENZO FRANCABANDERA | È ricchissimo e veramente entusiasmante il programma di Fabbrica Europa 2024. La XXXI edizione della rassegna, avviatasi a Firenze il 13 settembre e in programma fino al 15 ottobre, si manifesta come un viaggio attraverso le molteplici traiettorie dell’arte contemporanea, unendo geografie culturali e discipline diverse in un dialogo costante tra passato e presente, laboratorio multidisciplinare in cui arti e saperi si intrecciano in un processo di condivisione, crescita individuale e collettiva. Fabbrica Europa esplora nuovi territori espressivi, facendo dei luoghi della visione scenica un elemento cruciale per l’esperienza dello spettatore.
In questa edizione la spazialità non è solo cornice ma diventa il contenitore e il significato stesso dell’azione artistica: gli spazi fiorentini scelti per gli spettacoli si trasformano in paesaggi rituali, dove il confine tra scena e pubblico spesso si dissolve, rendendo chi osserva parte integrante della creazione.
Il percorso tracciato dalla direzione artistica del festival affidata a Maurizia Settembri e Maurizio Busìa si estende ben oltre i confini italiani, attraversando culture e immaginari provenienti da Francia, Spagna, Portogallo, Medio Oriente, fino ad arrivare all’Asia, offrendo uno sguardo trasversale sulle pratiche artistiche internazionali. In questa rete globale di esperienze emerge con forza il tema delle diaspore culturali, in particolare quelle latine e nere delle Americhe. I corpi politici del Brasile, le voci della Black Culture e le storie della migrazione diventano protagonisti, sottolineando l’urgenza di una presa di coscienza collettiva.
Questa edizione si è aperta con uno degli eventi più attesi e intensi: Invisibili, spettacolo firmato da Aurélien Bory, magnifica creazione di cui ci siamo già occupati su PAC in un dettagliato articolo di Gianna Valenti.
Torniamo brevemente su questa visione per raccontare alcune impressioni raccolte al Teatro Goldoni dopo la replica del 14 settembre.
Il pubblico entra in sala e vede a sinistra una postazione musicale che sarà occupata di lì a breve dal musicista per la colonna sonora dal vivo e poi una struttura con tiranti d’acciaio che a inizio spettacolo viene azionata con lentezza per sollevare una copia a grandezza naturale, sei per sei, del celebre affresco rinascimentale custodito nella Galleria di Palazzo Abatellis di Palermo, Il Trionfo della Morte.
Invisibili è un’opera multidisciplinare che intreccia teatro, danza e arti visive in un omaggio alla città di Palermo e alla sua storia, commissionata dal Biondo di Palermo poco prima dei lockdown e quindi con una gestazione complessa sicuramente suggestionata dai temi che in quel tempo sono arrivati all’attenzione dell’opinione pubblica. Inserita come evento inaugurale del Festival a Firenze, si caratterizza per la straordinaria evocazione di un Mediterraneo antico e contemporaneo.
Protagonista dello spettacolo dall’inizio alla fine è l’affresco anonimo del XV secolo, che, per l’elevato livello artistico, senza precedenti nell’area, si ritiene sia stata una diretta commissione reale all’epoca, magari di un artista straniero, probabilmente catalano o provenzale, chiamato appositamente sull’isola. Il tema del trionfo della Morte si era già diffuso nel Trecento ma qui viene rappresentato con una particolare insistenza ossessiva sui temi macabri e grotteschi di crudele espressività e secondo Guttuso fu addirittura di ispirazione a Picasso per il suo Guernica. Ed effettivamente non si fatica a crederlo, guardando anche solo al dettaglio del cavallo dell’affresco, sconvolgente e contemporaneo oltre ogni immaginazione.
Bory utilizza questo capolavoro pittorico come base per una riflessione più ampia sull’arte sul suo ruolo di rappresentazione dell’inconoscibile, non limitandosi alla sola dimensione storica ma proiettando l’affresco nel presente, conferendogli una valenza universale e contemporanea. E quindi i personaggi raffigurati nella scena, tra cui musicisti e danzatrici, si trasformano nella rappresentazione scenica negli individui che Bory ha incontrato durante la sua permanenza in città e che vengono rappresentati in dialogo con gli omologhi su tela nello spettacolo (che comunque ha frequenti e chiarissimi rimandi al lavoro di Pina Bausch).
Il sassofonista Gianni Gebbia, il cantante nigeriano Chris Obehi e le danzatrici Valeria Zampardi, Blanca Lo Verde, Maria Stella Pitarresi e Arabella Scalisi animano infatti la scena, trasformando l’affresco in un “spartito drammaturgico” che prende vita attraverso la loro performance.
La tela diventa un vero e proprio tableau vivant, prende vita in una continua interazione con le luci, la scena e i performer, unendo arte, storia e attualità come è d’altronde nella carriera di Aurélien Bory che riflette un continuo dialogo tra diverse discipline e linguaggi espressivi. Dopo aver studiato fisica e aver lavorato nell’acustica architettonica, Bory ha fondato la Compagnie 111, con la quale ha sviluppato un teatro fisico e scenografico, collaborando con artisti di circo, danza, teatro e musica. Le sue opere, tra cui Plan B, Espæce (2016) e aSH (2018), sono state presentate nei più importanti festival internazionali. Anche nella sua attività scenografica, Bory ha dimostrato una particolare sensibilità per la relazione tra l’opera e il luogo, come dimostrano le installazioni realizzate per il Théâtre Graslin di Nântes e la Cité des Sciences et de l’Industrie di Parigi.
Lo spettacolo è davvero imperdibile. Le danzatrici, in un’interazione costante con le figure immobili dell’affresco, emergono dal buio oltre la tela che diventa quasi soglia fra mondo fenomenico e oltremondo.
Le luci, curate da Arno Veyrat, giocano un ruolo essenziale nella drammatizzazione dell’opera. Proiettano aree di buio e squarci di luce che danno corpo ai gesti delle performer, amplificando il senso di vertigine creato dal fondale. Il rapporto tra gesto danzato e pittura si manifesta come una forma di dialogo tra la staticità dell’opera visiva e gli affanni del mondo delle esperienze, fra mondo reale e oltre, fra vita e morte, portando lo spettatore a vivere un’esperienza immersiva, dove il confine tra tempo e spazio si dissolve, dove a un certo punto finanche i personaggi rappresentati su tela sembrano prendere voce, sagomati da luci che li portano in evidenza uno a uno.
Un capolavoro che consigliamo di vedere a chi può, perchè esplora i limiti della rappresentazione teatrale, intrecciando storia, mito e contemporaneità in un’opera che si propone come un atto di riflessione sull’arte, sulla memoria e sulle tensioni del mondo attuale.
Lo spettacolo, che poggia anche su alcune pregevoli interpretazioni canore del cantante nigeriano Chris Obehi, culmina in una riflessione sul naufragio, che va oltre i confini fisici e temporali dell’affresco e di cui Obehi è protagonista, insieme a tutti gli altri interpreti, come a significare che non esiste una tempesta che non ci coinvolga tutti e non ci porti tutti al naufragio. Bory invita lo spettatore a interrogarsi sul significato profondo della rappresentazione artistica, non solo come strumento di memoria ma come veicolo di consolazione e speranza.
Con That’s All Folks!, proposto nella sala grande del Maggio Fiorentino, FRITZ Company Bigi/Paoletti porta in scena una creazione complessa, seconda tappa di una trilogia che esplora il legame tra danza, scienza e mito. Fondata nel 2020, rappresenta la sintesi di due visioni artistiche differenti, ma complementari. Damiano Ottavio Bigi, danzatore e coreografo, vanta un percorso che lo ha portato a collaborare con maestri come Pina Bausch e Wim Wenders. La sua esperienza internazionale si riflette in uno stile che unisce rigore e sperimentazione. Alessandra Paoletti, attrice e regista, porta nel progetto una sensibilità teatrale che arricchisce la narrazione coreografica creando una fusione tra teatro fisico, danza contemporanea e arti visive.
E infatti gli spettatori che entrano in sala si trovano di fronte a una sorta di installazione metafisica con una serie di superfici concentriche bianche e nere, una sorta di orizzonte degli eventi intorno a un buco nero, una frattura nello spazio-tempo. E che il tema dell’interpretazione astrale non sia poi alieno al sistema dei simboli, lo dimostra l’uso che verrà poi fatto di altre sfere dal sembiante simile a quello dei corpi celesti. Anche il tema del tempo non è estraneo, con i performer che talvolta si muovono intorno al cerchio più esterno come a ricordare il tempo che scorre in un orologio.
La creazione, che ha ben circuitato nell’estate dei festival anche perchè selezionata da alcune piattaforme di danza contemporanea, ci conduce in un viaggio che, a partire dalla genesi dell’universo narrata in Un Discreto Protagonista, si spinge fino alla comparsa dell’uomo sulla scena cosmica. Questa riflessione sull’essere umano e sul suo rapporto con il cosmo è il fulcro di una combinazione di movimento, fisicità e concetti scientifici che dà vita a un’opera dal piglio intellettuale e artistico.
La coreografia, interpretata da un quartetto di talentuosi danzatori internazionali – Ching-Ying Chien, Issue Park, Faith Prendergast e lo stesso Bigi – si sviluppa su due direttrici principali: la prima è una narrazione puramente fisica, in cui schemi di movimento intricati costruiscono un tema che si dipana gradualmente alternando scene di gruppo a momenti solistici (anche se con l’andare della rappresentazione, questa alternanza ritorna come un po’ meccanica). Qui il corpo diventa strumento di un’indagine quasi rituale, che attinge a miti fondativi e cosmologie arcaiche, tracciando figure archetipiche che si muovono lungo il sottile confine tra razionalità e caos, in un gioco di connessioni e rimandi spaziali e dimensionali efficaci, ma che potrebbero anche trovare senza nocumento ulteriore sintesi, per rilanciarne acutezza ed efficacia evitando il rischio della didascalia.
La seconda direttrice, più teatrale – se ancora ha senso evocare categorie mediali specifiche – riguarda la caratterizzazione di quattro personaggi sospesi in un non-luogo, un paesaggio mentale e immateriale che richiama l’immagine del “punto di non ritorno”. È in questa dimensione liminale che la performance va a concludersi, sfidando i confini tra conscio e inconscio aggiungendo qualche tocco ironico e che rimanda ad alcune suggestioni in stile Quesne. I danzatori esplorano uno spazio indefinito e instabile, una “zona grigia” dove la vicenda, quasi beckettiana, appare senza fine né inizio.
La sensazione di precarietà permea ogni movimento, offrendo allo spettatore una riflessione sul tempo e sull’instabilità delle nostre esistenze. La fisicità della danza si intreccia qui con teorie cosmologiche affascinanti ma sconosciute, se non per qualche lettura di Rovelli di tono divulgativo, quindi non ci addentriamo in terreni scivolosi e lasciamo che questa suggestione di spazio, tempo e movimento lasci poi ai singoli spettatori un riverbero non condizionato. Bella la scenografia minimalista e l’uso preciso delle luci (disegno luci di Lucien Laborderie, scene e costumi in collaborazione con Tzela Christopoulou).
Chiudiamo questo commento con Batty Bwoy, del giovane coreografo norvegese di origini giamaicane, Harald Beharie: il retropalco del teatro del Maggio ospita domenica 15 una performance che affonda le sue radici nei più dolorosi stereotipi legati alle identità queer, trasformando il termine offensivo in un grido di liberazione. L’azione scenica è intensa, disturbante, controversa. L’artista attende l’arrivo del pubblico seduto nudo su un piedistallo metallico di colore rosso dalla forma dell’aeroplanino origami, con una struttura centrale quadrata e due ali laterali. Qui è seduto il protagonista, con lunghe treccioline biondo chiaro che ne occultano il viso allo sguardo di chi entra.
Il solo, nato dalla collaborazione con Karoline Bakken Lund, Veronica Bruce, Jassem Hindi e Ring van Mobius, si appropria di un’espressione usata in Giamaica per indicare le persone queer in modo dispregiativo, ribaltandone il significato con un intreccio di vulnerabilità e forza, ingenuità e consapevolezza.
Ed effettivamente appena il pubblico prende posto seduto a delimitare una sorta di ring quadrato che delimita lo spazio performativo e a cui si aggiungono due isole, sempre adatte per la seduta, di cui una prossima all’installazione rossa, partirà l’azione fisica, che attraversa i temi della paura e del pregiudizio ma anche della resilienza e che vuole conferire un nuovo potere al corpo queer. Beharie, ispirandosi a testi omofobi della musica dancehall, ai film gialli italiani degli anni ’70 e ai peggiori stereotipi culturali, non si limita a rappresentare la sofferenza, al contrario, esplora con audacia le contraddizioni e le ambivalenze che permeano l’identità queer.
Il corpo in Batty Bwoy diventa il fulcro di un discorso che sfida la normatività e abbraccia l’ambiguità, il performer si carezza e si lecca a lungo per ogni dove mentre il pubblico si è da poco accomodato, utilizzando l’acqua bevuta da un bicchiere e la saliva. Come si può comprendere immediatamente, la visione della scena, che non si limita a qualche cenno, ma si prolunga per una decina di minuti portandosi poi sul tappeto danza, lascia più d’uno turbato. E il turbamento aumenta quando questa figura dal volto illeggibile indossa robuste ginocchiere e inizia a portare a distanza di pochi centimetri da ciascuno degli spettatori il suo essere precario, un confine mobile tra potenza e fragilità, offrendo né più e né meno che la visione in primo piano dell’ano. E l’occhio non può scappare. Inginocchiato a pecorella, si muove dando le spalle al quadrilatero ma lambendo i piedi degli spettatori, in un’esibizione che sfida.
A un certo punto, quando si capisce che questa gabbia in cui è rinchiuso diventa gabbia anche per chi è arrivato, il performer si libera della parrucca a treccioline per rivelare il suo volto e scatenare una seconda parte di gioia liberata ed energia vibrante, in cui l’azione fisica si sposta in piedi e contempla un andirivieni frenetico lungo il quadrilatero, ma sempre portandosi qui e lì prossimo allo spazio intimo degli spettatori, sempre in bilico tra il pregiudizio e la libertà.
La performance svela un percorso di scoperta che porta il pubblico a confrontarsi con narrazioni spesso sedimentate attorno al corpo queer, percepito come deviante o mostruoso. Beharie vuole sovvertire queste percezioni, trasformandole in opportunità per celebrare la diversità e la complessità dell’essere umano. Il corpo, nel lavoro di Beharie, diventa terreno di resistenza e ribellione, in cui le paure collettive si dissolvono per lasciare spazio a nuove possibilità di esistenza. Ed effettivamente, se qualcuno nel pubblico resta freddo e distaccato, in molti riescono ad abbandonarsi a questo viaggio esplicito e coraggioso.
Il riconoscimento del Premio Hedda come miglior performance di danza nel 2023 e la nomination al Norwegian Critics Association Prize nel 2022 valgono una testimonianza dell’impatto del lavoro di Beharie, una dichiarazione artistica che sfida la convenzione e celebra la diversità, ponendo domande profonde sulle strutture sociali che ancora governano il modo in cui vediamo e interpretiamo i corpi queer ma non solo, è un inno alla libertà, che pur con qualche insistenza gestuale e didascalica, propone comunque allo spettatore un’esplorazione vibrante e coraggiosa e vede ancora nella rappresentazione scenica uno spazio di espressione e resistenza, come d’altronde è per questo artist* il corpo: campo di battaglia ma anche fonte infinita di potenziale liberatorio. Belle le musiche gothic-progressive di Ring van Möbius.
Occorre riconoscere che l’avvio del festival di questa XXXI edizione di Fabbrica Europa abbia davvero portato lo spettatore sul confine fra ritualità e contemporaneità, tra tradizione e sperimentazione, esaltando l’intensità del rapporto tra forme e significati. In questo contesto, le opere non sono mai solo oggetti estetici, ma segni di una ricerca viscerale che mette in luce le tensioni e le possibilità del presente.
INVISIBILI
con Blanca Lo Verde, Maria Stella Pitarresi, Arabella Scalisi, Valeria Zampardi, Chris Obehi
e Gianni Gebbia
concept, regia e scenografia: Aurélien Bory
collaborazione artistica e costumi: Manuela Agnesini
collaborazione tecnica e artistica: Stéphane Chipeaux-Dardé
musica: Gianni Gebbia, Joan Cambon
musiche aggiuntive: Arvö Part “Pari Intervallo” (trascrizione Olivier Seiwert), Leonard Cohen “Hallelujah”, J.S. Bach “Gigue, 2nd suite for Violoncello”
luci: Arno Veyrat
scenografia, macchineria e oggetti di scena: Hadrien Albouy, Stéphane Chipeaux-Dardé, Pierre Dequivre, Thomas Dupeyron, Mickaël Godbille
direzione tecnica: Thomas Dupeyron
responsabili palco: Mickaël Godbille, Thomas Dupeyron
responsabile suono: Stéphane Ley
responsabile luci: Arno Veyrat / François Dareys
produzione: Compagnie 111 – Aurélien Bory / Teatro Biondo di Palermo
coproduzione: Théâtre de la Ville – Paris, Théâtre de la Cité – Centre dramatique national Toulouse Occitanie, La Coursive scène nationale de La Rochelle, Agora Pôle National Cirque Boulazac Aquitaine, Le Parvis scène nationale Tarbes Pyrénées, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, La Maison de la Danse, Lyon – Pôle européen de création, Fondazione Teatro Piemonte Europa – Teatro Astra, Torino
sovvenzione: Convention 2023 Institut Français / Mairie de Toulouse
accoglienza delle prove: Théâtre de la Digue – Toulouse, Teatro Biondo Palermo
A Fabbrica Europa invisibili è realizzato con il supporto di Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea.
THAT’S ALL FOLKS
una creazione di Damiano Ottavio Bigi & Alessandra Paoletti
con Damiano Ottavio Bigi, Ching-Ying Chien, Issue Park, Faith Prendergast
composizione e progettazione sonora: David Blouin
musica: David Blouin, Colin Stetson / Sarah Neufeld Duo, Gary ‘Oslide, Henry Purcell, Hank Williams
disegno luci: Lucien Laborderie
scene e costumi in collaborazione con Tzela Christopoulou
costruzione scene: Marios Karaolis
direzione tecnica: David Blouin
materiali in collaborazione con i danzatori
coprodotto da Festival Equilibrio Roma, FRITZ Company, Compagnia Simona Bucci/Degli Istanti, Fondazione Fabbrica Europa / PARC Performing Arts Research Centre
supportato da Pina Bausch Zentrum (Wuppertal), 2 WORKS/Dimitris Papaioannou, Istituto Italiano di Cultura di Colonia
in collaborazione con NID Platform, CHATHA Lyon, Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave / Kilowatt)
Spettacolo selezionato dalla NID Platform 2024 – Programmazione
Un ringraziamento speciale a Dimitris Papaioannou per il suo prezioso supporto
Un grazie anche a Tina Papanikolau, Bettina Milz, Felicitas Willems, Aicha M’Barek & Hafiz Dhaou, Gerarda Ventura, Alessandra Stanghini
BATTY BWOY
coreografia e interpretazione: Harald Beharie
scenografia/scultura: Karoline Bakken Lund e Veronica Bruce
musica: Ring van Möbius
sound design: Jassem Hindi
sguardo esterno: Ines Belli e Hooman Sharifi
coproduzione: Dansens Hus e RAS
con il sostegno di Norwegian Art council, Fond for lyd og bilde, FFUK, Sandnes Kommune e Tou Scene
ringraziamenti: Tobias Leira e Ingeborg Staxrud Olerud
Il progetto ha vinto il Premio Hedda come miglior performance di Danza 2023 e ha ottenuto una nomination al Norwegian Critics Association Prize 2022.
Fabbrica Europa, Firenze | 14-15 settembre 2024