LAURA NOVELLI | Come salvarci dall’evidente disastro epocale in cui annaspiamo ogni giorno di più? A cosa ancorare le nostre speranze future? Cosa ci conforterà? Cosa ci darà la forza di andare avanti, di continuare a fare, ad amare, a sognare?
Secondo l’eclettica ensemble franco-catalana Baro d’evel, fondata e diretta da Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias (anche coautori di tutte le produzioni realizzate), la risposta è semplice e non lascia alternative: accorgersi degli altri, accoglierli, comprenderli, entrare in connessione con loro, creare bellezza con loro. È d’altronde proprio questo nocciolo, di umanesimo antico, il cuore pulsante del sorprendente Qui Som? (Chi siamo?) che, dopo aver debuttato lo scorso luglio al Festival d’Avignon, è stato presentato qualche sera fa al Teatro Argentina ospite del Romaeuropa Festival 2024. Un contenitore di energia, talento, virtuosismo, intelligenza, originalità e raffinato umorismo. 

Un lavoro potente e insieme poetico, sommesso, capace di raccontare gli squilibri inquietanti del nostro mondo attraverso uno sguardo artistico sghembo e festoso, che mescola con estrema sapienza linguaggi diversi – dal teatro al nouveau cirque, clownerie e acrobazia comprese, dalla danza alla musica, dal canto al mimo, dalla tornitura della ceramica alla spettacolarità di strada – mettendoli in costante dialogo tra loro. O meglio, legandoli in una fluidità drammaturgica aperta e tuttavia estremamente coesa, costruita sui corpi dei dodici bravissimi interpreti (oltre ai due coautori figurano nel cast Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Yolanda Sey, Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert), su una libertà  di sperimentazione dagli approdi incredibili e su un registro grottesco – nel senso in cui Mejerchol’d  declina il termine – all’interno del quale i passaggi dal comico al tragico, e viceversa, risultano quanto mai morbidi, naturali e dunque commuoventi.
Mai uguale a se stesso, Qui Som? (che sarà presto in tournèe in altri Paesi europei quali il Belgio, la Svizzera e il Portogallo) non ammette etichette, non può essere ascritto ad alcun genere; semmai, insegue una sua precipua natura poliedrica, che rappresenta l’esito di una grande scuola di artigianato artistico e di tradizione riletta in chiave moderna. 

Si parla di guerra, di cambiamenti climatici, di violenza, di inquinamento selvaggio ma, al pari di quanto succedeva nei precedenti e Mazùt (già proposti in precedenti edizioni del REF), il livello di astrazione è così alto e sono così ricchi i materiali espressivi messi in campo che ogni tentazione didascalica viene tenuta rigorosamente a bada. Piuttosto, una tenitura lirica attraversa l’intera pièce, anche quando essa deraglia fuori dai binari canonici.

Lo spettacolo inizia prima dello spettacolo: alcuni attori e attrici vestiti di nero attendono il pubblico nel foyer. Sono immobili, elegantemente misteriosi. Nella loro compostezza statuaria posseggono qualcosa di rituale e, insieme, di familiare, di prossimo. Uno di loro staziona vicino a un tavolo arredato con vasi in argilla di diverse misure, simili a quelli che ritroveremo, da lì a breve, sul palcoscenico. Laddove essi, posti in una lunga fila laterale, faranno da contrappunto visivo all’altro grande elemento scenico dell’allestimento (scenografia e costumi a firma di Lluc Castells): una struttura dalla forma tondeggiante ricoperta di fogliame grigio-verde che rimanda all’idea di un mostro marino o a quella di un cumulo di posidonia oceanica iridiscente, intorno al quale organizzare il ritmo-tempo del lavoro.

Ph. Christophe Raynauddelage

Ma prima che il lavoro inizi – o forse è già iniziato? – la stessa Decourtye intrattiene la sala con un prologo di nevralgica importanza: sospesa tra sagace umorismo e misurata clownerie vagamente chapliniana, l’attrice ci invita a verificare che i nostri cellulari siano effettivamente spenti. Noi sorridiamo. Ci sentiamo irretiti. Ci divertiamo. Poi arriva una battuta che è difficile dimenticare. Suona più o meno così: «Se proprio doveste avere la tentazione, durante lo spettacolo, di prendere il vostro telefonino, di guardarlo, toccarlo, mettete le mani sul viso e apritele, poi girate la testa. Troverete gli altri. È anch’essa una connessione…ma di base».
Eccolo il cuore pulsante di cui parlavamo sopra. Siamo noi. Tutti noi. E, tanto più, sono loro: la compagnia, il gruppo. Questa forte connotazione metateatrale di Qui Som? la si comprenderà bene solo alla fine ma funziona come un tappeto tematico che lega incipit ed epilogo, costruzione artistica e riflessione autoreferenziale. Ciò che scorre in mezzo, ciò che abita lo spettacolo dal suo avvio comico (che prosegue con una gang costruita intorno alla lavorazione della ceramica dove brillano le doti clownesche di Blaï Mateu Trias) all’inattesa festa finale è la risposta che questa formazione di circensi danzanti danno alla domanda del titolo e – più in profondità – alla ricerca individuale e collettiva della felicità, della gioia, malgrado gli angosciosi scenari della realtà contemporanea. 

Ricerca complicata, angosciante essa stessa. Votata a continui disequilibri: ecco i performer scivolare su un’immaginaria lastra di ghiaccio, vacillare, cadere, rialzarsi, danzare, accompagnati da un’aria barocca, l’incertezza stessa della nostra vita. Eccoli poi indossare sul volto i vasi di agilla posizionati in scena, trasformarli in maschere nude, nelle quali incidere, poco a poco, occhi, bocche, nasi: una fisionomia identitaria. Sono sempre più imbrattati di polvere bianca, di segni rossi. L’atmosfera si fa compassata, fremente di domande. E lo spettacolo vira verso la tragica bellezza di una danza della guerra (contro la guerra) degna delle migliori creazioni di Pina Bausch, durante la quale si resta incantati ad ascoltare lo spiritual eseguito a cappella da Yolanda Sey. I corpi si muovono eleganti e impetuosi intorno a quel feticcio marino da cui, poco dopo, sbucheranno altri corpi e cumuli di bottiglie di plastica, affastellate in proscenio come fossero un’enorme isola di rifiuti in cui – ancora una volta – cadere, affondare, vacillare.   

Ph. Jerome Quadri

Dunque, chi siamo noi? Oggi, come possiamo autodefinirci e trovare la nostra identità in un mondo così in fratumi? Dopo aver tracciato il suo percorso visionario e virtuosistico, il lavoro torna ora a quella “connessione di base” del prologo. E lo fa trasformando gli artisti negli artefici di una festa per tutti che, animata dal suono fragoroso di tamburi e strumenti a fiato, scende in platea, esce dal teatro, trascina il pubblico in piazza, lo invita a ballare, a cantare. In questo finale partecipativo c’è la risposta. «Si parte da qui – dichiara Camille Decourtye – da chi ci accoglie, condividendo lo spettacolo, un pasto, la festa. È questo spirito di gruppo, nato negli anni trascorsi sul palcoscenico, che ci dà la certezza che questo progetto possa rispondere al bisogno di connettersi attraverso la festa e la celebrazione». Il che implica il desiderio di cercare noi negli altri. Di buttare uno sguardo vigile e luminoso su chi abbiamo accanto. Nella vita così come a teatro. 

La compagnia sarà di nuovo in Italia, al Piccolo di Milano (teatro Strehler) dal 27 dicembre al 4 gennaio prossimi, con Falaise. Spettacolo in bianco e nero per otto umani, un cavallo e dei piccioni: poesia, umorismo e una nuova complicità tra esseri umani e animali per raccontare ancora una volta un mondo sull’orlo dell’abisso «dove tutto è legato, tutto è collegato, tutto si muove e si trasforma».

 

QUI SOM?

autori Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias
con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Blaï Mateu Trias, Lucia Bocanegra , Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert
collaborazione alla regia Maria Muñoz – Pep Ramis / Mal Pelo
collaborazione alla drammaturgia Barbara Métais-Chastanier
scenografia e costumi Lluc Castells
disegno luci Cube / María de la Cámara et Gabriel Pari
collaborazione musicale e creazione del suono Fanny Thollot
collaborazione musicale e composizione Pierre-François Dufour
ricerca sui materiali e sui colori Bonnefrite
ingegnere delle percussioni in ceramica Thomas Pachoud
produzione Baro d’evel
co-realizzazione Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Romaeuropa Festival 2024

Romaeuropa Festival
26-28 settembre 2024 | Teatro Argentina, Roma
prima nazionale