RENZO FRANCABANDERA | È veramente bellissima l’Umbria, e quando si ammanta d’arte, genera veramente intersezioni altissime fra paesaggi reali e mentali. Rinfranca passare da Foligno a 8 anni dal terremoto che scosse il borgo in modo rovinoso nell’agosto del 2016 e trovare una città vivissima e con una vita sociale ricca di eventi e di partecipazione: tanti locali, un’intensa vita per le vie della città, una movida quasi da non crederci. A Foligno, direte? A Foligno, sì.
E che ci facevi tu a Foligno, chiederete?
Umbria Factory è un festival di arti performative contemporanee che si svolge tra Foligno e Spoleto, e rappresenta uno dei principali eventi nel panorama culturale regionale di fine estate dedicato alla sperimentazione artistica e alla multidisciplinarietà. Il festival propone una selezione di spettacoli, performance e installazioni, che spaziano tra teatro, danza, musica, videoarte, e arti visive, con particolare attenzione alle nuove tendenze della scena contemporanea italiana e internazionale. Ecco che ci facevo!

Nato come piattaforma per sostenere la creatività emergente, Umbria Factory è stato ideato da realtà culturali locali come ZUT! di Foligno, in collaborazione con La Mama Umbria International e altri partner nazionali e internazionali. Il festival promuove un dialogo tra diverse forme di espressione artistica e riflette su tematiche sociali, politiche ed esistenziali, con un approccio innovativo e multidisciplinare.

L’edizione del 2024, che si svolge nei mesi di settembre e ottobre, vede la partecipazione di artisti e collettivi affermati e emergenti, con un programma ricco di eventi che includono laboratori, incontri e performance dal vivo. Gli spettacoli si tengono in spazi storici e contemporanei delle città ospitanti, come il Teatro ZUT! di Foligno e altri luoghi simbolici del tessuto urbano di Spoleto e Foligno, trasformando il festival in una vera e propria esperienza culturale immersiva. Insomma, uno spazio di incontro tra artisti, pubblico e critici, con l’idea di favorire la circolazione di idee e pratiche innovative, e di creare un legame con la comunità locale e valorizzare il patrimonio culturale umbro.

Raccontiamo di alcune delle visioni del 5 e 6 settembre scorso, partendo da Con la lingua sulla lama, una ricerca di tostacarusa che prende spunto dal vasto patrimonio delle fiabe europee, esplorandole non solo come genere letterario, ma anche come modello performativo nell’intersecarsi, in particolare, con il tema della fine dell’adolescenza. La creazione in fieri è frutto di una rete di collaborazioni e sostegni significativi, tra cui spiccano E Production, Bluemotion e Spazio ZUT!, ma anche di altre realtà che hanno dato linfa a questo progetto articolato che si è sviluppato anche con una serie di laboratori che hanno visto protagonisti proprio gli adolescenti.

Nell’analisi delle due artiste che compongono la compagnia, le fiabe hanno sovente come protagoniste figure adolescenziali, e d’altronde la fiaba stessa è spessissimo una narrazione di un rito di passaggio, di una iniziazione. Di una discontinuità nel tempo della vita.
Quando e come muore l’adolescenza? È un suicidio?
Questo l’interrogativo attorno a cui ruota al momento la creazione, che è appunto uno studio. Tostacarusa si pone il compito di riportare alla luce il potenziale simbolico delle fiabe, che si intrecciano con il tempo, lo spazio e le dinamiche di potere insite nelle strutture sociali, e che ancora oggi offrono una chiave di lettura significativa per interpretare il nostro rapporto con la realtà.
In scena c’è Aura Ghezzi, mentre drammaturgia e regia sono di Tolja Djokovic. Le due artiste si conoscono da molti anni, proprio dall’adolescenza, ma solo anni dopo hanno deciso di collaborare e fondare questo progetto comune, che vede una netta separazione di ruoli.
Nella proposta ospitata all’Auditorium di Santa Caterina a Foligno, il lavoro è ancora a cuore aperto e davvero l’occasione viene utilizzata per testare la risposta di alcuni dispositivi sia registico-drammaturgici, che di fruizione su un pubblico “vero”.
L’azione incomincia all’ingresso degli spettatori in sala con la performer, vestita in modo eccentrico con una gonna di tulle blu klein e una parte superiore nera, che tiene fra le braccia una creatura in fasce, che noi non vediamo. Dopo averla posata sul pavimento, la donna lancia un urlo e si porta al centro del cerchio di sedie che accoglie il pubblico. Dopo un inizio drammatico, ancestrale, che culmina in un’altra azione fisica a terra della donna che si agita disperata, sdraiata sul pavimento, parte una sorta di seduta collettiva di confessione e dialogo. Ovviamente nessuno del pubblico parla.
Inizia un lungo monologo in cui la donna parla degli elementi perturbanti delle fiabe, che la suggestionano. Di lì in poi, la protagonista siede anche lei nel cerchio di sedie e si sviluppa un monologo dalla testualità ricca, abbondante, in cui affiora sia il tessuto argomentativo principale, che una serie di sottodirezioni e sdoppiamenti di carattere, che fanno affiorare voci e personaggi che analizzano la tematica del divenire adulti cercando, anche con piglio scientifico-clinico, di discutere intorno all’essere adulti, per poi tornare, a conclusione del monologo (durante il quale la donna cambia posto nel cerchio, cambia prospettiva, punto di vista), a compiere un’altra azione fisica, per coprirsi con una maschera di argilla il volto e i capelli, adornare di fiori il capo, e andare via, portando con sé il bambino deposto all’inizio, anche lui di argilla e con i fiori al capo.
Nell’evolvere dei prossimi studi volti a finalizzare la creazione, si può utilmente lavorare ad alcune cruciali disambiguazioni testuali e a individuare con nitore alcuni fuochi tematici capaci di diventare punti di accumulazione, per favorire un’efficace resa chiaroscurale del testo e facilitare, quindi, le scelte sulle azioni fisiche che la performer dovrà porre in essere per restituirlo al pubblico, sia che si voglia mantenere questa struttura fruitiva circolare, con un numero limitato di spettatori, sia che si prediliga un approccio scenico frontale.

Nello stesso complesso della ex chiesa, ma in spazi differenti, assistiamo poco dopo a Rifugio / studio 01, una performance ideata da Michele Bandini e Maël Veisse, che si inserisce in una dimensione artistica che oscilla tra architettura e performance teatrale. Bandini è autore, attore e regista con una formazione in filosofia, cofondatore della compagnia Zoe e con all’attivo collaborazioni con Marco Martinelli, Gigi Dall’Aglio e Marco Paolini. Ha portato avanti progetti che spaziano dal teatro alle installazioni sonore, e su questo terreno performativo incontra Maël Veisse, nato a Metz, Francia, architetto e artigiano che si dedica alla creazione di forme e spazi che esplorano il concetto di abitare, dal design del mobile all’architettura abitativa.

La sua esperienza spazia dalla progettazione privata ai progetti pubblici, e ha collaborato con vari festival e compagnie teatrali, esplorando la fusione tra architettura e arte performativa. Prodotto da ZUT!, Rifugio è un progetto abitativo-performativo che riflette proprio sulla connessione tra l’intimità domestica e l’azione scenica, creando uno spazio che è al contempo abitabile e performativo. La scenografia è parte integrante della performance stessa: una struttura in legno che funge da spazio di abitazione, ma anche da spazio scenico realizzata da Veisse.
Il pubblico, un numero limitato di ospiti, entra nella navata unica della chiesa, e viene invitato a sedere su alcuni tronchetti di legno, e a indossare delle semplici, ma bellissime ciabatte di pelle artigianali. Di fronte a loro una casetta di legno chiaro e naturale, che ricorda uno spazio giapponese, una stanzetta semplice, sospesa da terra. In realtà, poggia su pochi elementi che la distanziano da terra, e all’interno della quale i due performer sono accovacciati, intenti l’uno (Veisse) a ritagliare fogli di carta, l’altro (Bandini) a portare a temperatura un ampio bollitore per il tè.
Si viene invitati ad accedere allo spazio, ad entrare nella casa, ad accovacciarsi intorno al tavolino di questa elegante costruzione architettonica, chiusa sui lati da piccole vetrate. In questo ambiente intimo e accogliente, gli spettatori scelgono da un bussolotto di legno alcuni ritagli, che riportano pezzi di frasi, e li leggono, ricomponendoli. Pian piano durante la lettura suoni profondi fanno vibrare la casa dalle fondamenta, e poi l’azione evolve, con la casa che apre le sue finestre per spalancarsi sul mondo.
Non riveliamo tutto di questa azione performativa che invita il pubblico a riflettere sulla dicotomia tra apertura e chiusura, sul concetto di rifugio come luogo di protezione, ma anche di esposizione. La casa come luogo simbolico e memoria delle identità e dei lasciti intergenerazionali diventa l’occasione per il duo performativo di proporre un’esplorazione dei limiti fisici e simbolici degli spazi che abitiamo, offrendo al pubblico l’opportunità di interrogarsi su come questi condizionino la nostra esperienza e le nostre relazioni. In un’epoca in cui la separazione tra pubblico e privato è sempre più labile, questo spettacolo si pone come un’esplorazione critica del nostro modo di percepire e abitare non solo il nostro spazio privato, ma anche quello che ci si spalanca davanti agli occhi se apriamo le finestre, il mondo.
La performance, seppur presentata come studio, è di fatto compiuta, assai ben  pensata: il rifugio è magicamente costruito, una costruzione capace di muoversi, di cambiare, di vivere (e morire) e, al netto di eventuali piccoli aggiustamenti, la creazione ha una particolarissima ricchezza simbolica che la rende adatta ad essere proposta con successo in festival e stagioni. Un’esperienza preziosa.

Una parentesi meno performativa e più tradizionale, ma riuscita, è La malattia dell’ostrica di Claudio Morici, riflessione personale e ironica sul ruolo degli scrittori nella vita di un padre, che tenta di educare suo figlio lontano dalle insidie della scrittura e dai turbamenti della sensibilità di chi voca la vita all’arte.
Morici è una figura peculiare nel panorama teatrale: laureato in psicologia, è scrittore, attore, videomaker e autore satirico. Ha pubblicato cinque romanzi e i suoi scritti sono apparsi su testate come “Internazionale”, “Il Venerdì” e “MinimaetMoralia”. Come attore si è affermato con diversi monologhi dal tratto ironico, in cui l’ironia sull’individuo, diventa in qualche modo satira sociale, affresco sulle difficoltà e i disagi nel nostro tempo, navigando fra manie e ossessioni.
Il titolo richiama la metafora della perla, simbolo di bellezza creativa che, però, nasce dal dolore dell’ostrica: una malattia che produce una preziosa creazione, ma che affonda le sue radici nel disagio. Lo spettacolo si muove tra comicità e dramma, esplorando le biografie di grandi scrittori che hanno vissuto momenti di estrema difficoltà personale, come Cesare Pavese, Emilio Salgari e Giovanni Pascoli, tutti accomunati da tragici destini.

Il padre, Morici, non appena il figlio a sei anni gli rivela la passione per la scrittura, trasale e fa di tutto per dissuaderlo. I tentativi comici per mettergli in mano la playstation, invece che un libro, si alternano a drammatiche statistiche e vicende biografiche dei grandi nomi della letteratura contemporanea. Ovviamente, il tono è scherzoso e l’autobiografismo non sconfina mai nell’inutile voyeurismo. Intanto il figlio cresce e Morici cerca di esorcizzare il terrore di vederlo seguire le orme degli autori che ammira, riflettendo sulla fragilità mentale che spesso accompagna la creatività.
Lo spettacolo, con il suo procedere, trova un equilibrio particolarmente alto tra la vena ironica e la riflessione filosofica, permettendo al pubblico di guardare con nuovi occhi il rapporto tra sofferenza e creazione artistica, oltre che fra genitori disperati e figli adolescenti.
Il lavoro diverte, ma accompagna anche dentro meccanismi di pensiero complessi, e che riguardano un po’ tutti. Forse la creazione più interessante e meglio scritta (e portata in scena) fra quelle di Morici finora. Un lavoro di maturità scenica e drammaturgica che, pur restando nella leggerezza della sua peculiare forma di narrazione, sa arrivare a un pubblico ampio e diverso.

D’impatto sia visivo che sonoro è Grey line, spettacolo multimediale audio visuale immersivo del collettivo artistico SPIME.IM, noto per esplorare temi contemporanei come il cambiamento climatico, l’effetto dell’uomo sul pianeta e le questioni di attualità attraverso l’arte digitale e la tecnologia. L’evento richiama un ampio pubblico nel bellissimo Auditorium di San Domenico, un’altra chiesa cittadina ripensata come spazio per le arti e non solo.
Lo spettacolo, che si distingue per l’uso avanzato di tecnologie audio-visive come la programmazione in tempo reale, la manipolazione delle immagini e del suono, e tecniche come il databending, il datamoshing e l’intelligenza artificiale, è un viaggio dentro una raffica di stimoli, alcuni anche crudi ed espliciti.

Il collettivo SPIME.IM si concentra su progetti transmediali, esplorando i limiti dell’identità umana e della corporeità in un contesto profondamente influenzato dalla realtà digitale. Utilizzando immagini generate dall’intelligenza artificiale, meme e filmati di attualità, SPIME.IM combina estetiche tradizionali e digitali per creare narrazioni che pongono domande sul caos del mondo contemporaneo. Le loro opere sono state presentate in prestigiosi festival internazionali di arte digitale come Mutek (Canada, Giappone, Spagna), Ars Electronica, Club to Club, Lunchmeat e tanti altri.
Arte visiva e sonora interagiscono e si trasformano in tempo reale, grazie a tecniche di elaborazione digitale come l’analisi della visione artificiale, la grafica 3D e il montaggio automatizzato, per creare un’esperienza performativa sofisticata, visivamente affascinante, ma anche concettualmente densa, portando il pubblico a riflettere sulla crisi ambientale e il ruolo dell’uomo nel modellare (e distruggere) il mondo in cui viviamo.

Concludiamo questo racconto con Città sola Variazione #5, progetto performativo modulare curato dal collettivo lacasadargilla, tratto dall’opera Città sola di Olivia Laing, che esplora le sensazioni di solitudine che si sperimentano vivendo nelle grandi città contemporanee. lacasadargilla è un ensemble multidisciplinare che si distingue per la creazione di spettacoli teatrali, installazioni, progetti radiofonici e curatele. Fondato da Lisa Ferlazzo Natoli, regista e autrice, Alessandro Ferroni, regista e sound designer, Alice Palazzi, attrice e coordinatrice di progetti, e Maddalena Parise, ricercatrice e artista visiva, il collettivo lavora su scritture contemporanee e adattamenti letterari, cercando di riflettere sui temi del tempo e delle mitologie che legano il passato e il futuro. Questa audio performance fa parte del progetto che ha portato anche alla creazione dello spettacolo Il ministero della solitudine, che ampio successo e riconoscimenti ha riscosso nelle passate stagioni teatrali.
Città sola è stato presentato nell’ambito dell’Umbria Factory Festival 2024 a Foligno in una forma che combina l’ascolto del testo con il paesaggio sonoro urbano, generando un dialogo intimo tra l’esperienza di chi fruisce l’opera e l’ambiente circostante. Facilitata dall’introduzione in situ di Silvio Impegnoso ai partecipanti, l’audioperformance con i testi della Laing (riduzione e drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi) si ascolta tramite smartphone.

“Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre”. I fruitori, tramite il dispositivo mobile e gli auricolari, si immergono nella narrazione, una lettura di cinque capitoli selezionati dell’opera originale di Laing, la cui scrittura diventa strumento di connessione emotiva con il contesto urbano, trasformando lo spettatore in parte integrante della performance stessa, mentre si muove attraverso il borgo umbro, che certo non è nel percorso individuato, una sequenza di algidi casermoni o grattacieli spersonalizzati.
Ma la parola della scrittrice e il panorama cittadino favoriscono, comunque, una riflessione sulla solitudine vissuta in spazi urbani e sull’arte come strumento di resistenza e testimonianza.

CON LA LINGUA SULLA LAMA / primo studio

Ideazione tostacarusa
con Aura Ghezzi
drammaturgia e regia Tolja Djokovic
consulenza costume Sandra Cardini
consulenza sullo spazio Francesco Cocco
produzione E Production, Bluemotion, Spazio ZUT!
con il sostegno di Angelo Mai, C.U.R.A. Centro Umbro di Residenze Artistiche/La Mama Umbria International, ZUT!, Fondazione Armunia, Z.I.A. Zona Indipendente Artistica, Associazione Metandro

RIFUGIO

drammaturgia/abitazione/performance/regia/costruzioni Michele Bandini e Maël Veisse
produzione ZUT!

LA MALATTIA DELL’OSTRICA

di e con Claudio Morici
produzione Teatro Metastasio di Prato

SPIME.IM _ Grey Line A/V show

CITTÀ SOLA var #5

concept lacasadargilla
con la collaborazione di Silvio Impegnoso
riduzione e drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
paesaggi sonori e regia podcast Alessandro Ferroni
voci narranti Lisa Ferlazzo Natoli, Tania Garribba, Emiliano Masala
coordinamento artistico Benedetta Boggio
con la collaborazione di Silvio Impegnoso
Città sola #variazione5 è produzione Bluemotion, Angelo Mai e lacasadargilla
in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa

Umbria Factory, Foligno | 5 e 6 ottobre 2024